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356 | Brani di vita |
un buon palmo, lo aveva soggiogato e gli rendeva amarissima la vita. Ora poi Zì Marù, come la chiamava quasi con umiltà, aveva messo i baffi e l’abitudine del comando era diventata una tirannide brontolona ed ingiuriosa. Il coniugio, non rallegrato da prole, tra quei due esseri così diversi, uno grasso e torpido, l’altra secca e feroce, sarebbe finito male senza la sottomissione imbecille del marito. Zì Marù non rideva mai, o tutt’al più aveva certi sorrisi di sarcasmo che le scoprivano i canini ingialliti, come i gatti quando soffiano. Dava di gran sbarbazzate alle serve che cambiava ad ogni mese e spiava i vicini dalle finestre socchiuse. Don Vencenzì coi colleghi la chiamava la donna forte e il Giudice Avena un giorno aggiunse: "sì! come l’aceto!" Ma Don Vencenzì finse di non aver capito.
Sicuro: gli piacevano i maccheroni col sugo che mangiava alzando la forchetta e ricevendoli in bocca, a poco a poco, interi, ungendosi il mento; ma Zì Marù glieli avvelenava con obiurgazioni insolenti e ingiuriose che aveva l’arte di rendere sempre più atroci, salendo di tono sino allo strillo, tanto che alcune volte il povero Don Vencenzì aveva dovuto chiudere la finestra perchè la gente si fermava lì sotto. Zì Marù era persuasa che il marito fosse un asino e glielo diceva rabbiosamente. Sarebbe marcito nei gradi inferiori della Magistratura, fortunato ancora che quel birbo dell’Avena si prestasse, ridendo, a rabberciargli le castronerie. Asino, perchè visitando il Vescovo a capodanno, intontito da tanta maestà, aveva dimenticato di baciargli l’anello! Asino, perchè