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362 Brani di vita

distratto. Giuoca al lotto e forse combinava un terno. L’altro Giudice sonnecchia volentieri e l’Avena, che forse se n’era accorto, aveva taciuto per mortificarlo. Ora aveva corretto. La correzione confinava col falso, ma bisognava pure....

Zì Marù alzò le spalle aguzze e ripetè colla voce rauca, tra i denti, come se parlasse a sè stessa — “Asino! Asino! Asino!!”

Seguì un silenzio increscioso e pesante. Le farfalle volavano intorno al lume e, colle ali bruciate, cadevano nei bicchieri ancora pieni. Dalle finestre aperte entrò un pipistrello e Zì Marù che ne aveva orrore, quella sera non si mosse nemmeno, tanto che la bestiaccia, quasi seccata, finì per volar fuori. Si sentiva la gente che passava ridendo, giù, per la strada e a Don Vencenzì pareva che ridessero di lui come sghignazzava il pubblico quando gli avvocati gli dicevano in faccia che non capiva niente. Oh, come riderebbero domani in Cancelleria! E si sentiva umiliato, avvilito dalla confermazione brutale e pubblica della propria asinità. Nello stesso silenzio penoso, sentiva la presenza formidabile dello sprezzo, incarnato nelle laide forme della sua donna iraconda.

Ed ora travedeva, così in barlume, nella nebbia della coscienza semispenta, la miseria propria e la stoltezza di chi aveva affidato alla sua ignoranza supina ed alla sua intransigenza di gesuita, gli averi, la libertà, l’onore dei cittadini. Gli tornavano in gola certe sentenze malvagie in cui aveva coscientemente negato, offeso, vituperato il buon diritto altrui per livore confessionale, per rabbia di clericalismo. Qualche