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Suum cuique tribuere 355

letto del paese e non poteva far capire il suo ai testimoni; poichè anch’egli parlava volentieri in dialetto e dava luogo ad equivoci ridicoli e rumorosi. Nemmeno lo turbava l’insolenza degli avvocati che gli tagliavano la parola in bocca, in piena udienza, dicendogli: — “Ma scusi, Presidente, Lei non capisce niente!” — Frase che, in grazia della rima al mezzo, era diventata quasi proverbio. Il pubblico rideva di gusto, ma Don Vencenzì che ne aveva sentite di peggio, non ci badava o, tutt’al più, tirava su gli angoli della bocca verso le pinne del naso polputo, convinto così di punire e stritolare i colpevoli con un sorriso di irresistibile finezza canzonatoria ed era una smorfia balorda.

Meno poi lo offendevano i monelli che gli scrocchiavano dietro certi suoni inarticolati e sudici, quando la domenica menava in giro il cane, un bastardo di cento razze, vecchio, gonfio, spelato e che gli somigliava. Lo chiamava Gerundio, in memoria del latino che non aveva potuto mai imparare in Seminario e, quando passava davanti a una chiesa, sospirava perchè la compagnia del cane gli inibiva di entrar nella casa di Dio a dire qualche posta di rosario. La corona l’aveva sempre nella tasca del panciotto, vicino al cuore, e la toccava come un amuleto, quando la ragazzaglia gli cacciava i cerchi tra le gambe o gli faceva rimbalzare le palle nel cappello.

Ma Don Vencenzì era infelice per cagion della moglie. L’aveva sposata quasi per forza, dominato dalla volontà imperativa di lei che, quantunque di bassa condizione e più attempata e più alta di lui