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Suum cuique tribuere 359


Il pranzo, così largamente condito di aceto e di fiele, volgeva tristamente al suo fine, quando un insolente scampanìo all’uscio troncò in bocca a Zì Marù gli sconci oltraggi e in mente a Don Vencenzì lo strazio della meditazione. Gerundio abbaiò in falsetto e si sentirono le ciabatte della serva strascicate pel corridoio; indi un cicalìo sommesso, rotto da risate mal represse, finchè Zì Marù impazientita, squittì un chi è? imperioso.

Era l’usciere Proietti. Entrò levandosi il cappello e tenendolo contro la bocca per non ridere, ma inutilmente, perchè l’ilarità gli schizzava dagli occhi come quando raccontava all’osteria le sudicerie pornografiche dei giudicanti e dei giudicati. Zì Marù fece il viso più arcigno del consueto, ma l’usciere fu lesto a porgere un piego a Don Vencenzì, dicendo con una voce in cui si sentiva vibrare un’ultima risata: "Signor Cavaliere Presidente, manda il signor Giudice Avena!" e si rimise l’ala del cappello sulla bocca come per turarla.

Don Vencenzì, benchè di intelletto non molto agile, indovinò bene che doveva essere accaduto qualche stroppiatura, prese il piego e si ritirò in fretta nello scrittoio per leggere il messaggio al lume della candela di Sant’Espedito.

Ma Zì Marù aveva capito anche lei. Avrebbe letto tanto volentieri le carte mandate dal Giudice Avena, ma non aveva confidenza collo stampato e tanto meno col manoscritto. Preferì quindi di interrogare l’usciere.