Baby (Rovetta)/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | II | IV | ► |
III.
Andrea di Santasillia non era uomo da sbigottirsi facilmente, e per quanto fosse rimasto colpito e addolorato, non tardò a ragionare e a persuadersi che quello strano incontro non avrebbe certo dovuto influire sopra i disegni del suo cuore.
L’insulto era stato grave, ma tuttavia il Parabiano aveva fermato a tempo il suo braccio; lo schiaffo non era stato dato; ci sarebbe stato di mezzo una sciabolata, e il Santasillia era disposto a buscarla per amor dell’Adele.
Maledetta l’idea che gli era balenata di andare al Caffè Dante!... Era tanto felice!... Ma e perciò?... Non lo sarebbe stato ancora egualmente felice?... Alla fine il duello poteva essere una via come un’altra per mettersi in relazione col tutore dell’Adele. L’aveva tanto cercata quella via, e adesso che l’aveva trovata se ne lagnava? Dopo lo scontro si sarebbero stretta la mano, e così sarebbero stati subito buoni amici, per diventare presto cognati... Chi invece lo doveva inquietare parecchio era Sua Eminenza! Chi sa come avrebbe accolta quella notizia; perchè su certi argomenti, lo zio Cardinale non era punto di manica larga.
La Chiesa proibiva il duello, e quella proibizione era savia, era morale: col duello si esponeva la propria vita per attentare a quella degli altri! Sicuro; non c’era anche il proprio onore da difendere...? L’onore?... Il precetto fondamentale della Chiesa non era il perdono delle offese?... — Bè, bè... ma allora non bisogna restar nel mondo, bisogna farsi frate, a voler seguire certi precetti! — pensò il Santasillia, ch’era già entrato in letto, e cominciava a rivoltarsi un po’ inquieto sotto le coperte... — E lui, in tal caso, perchè andava a messa, dal momento che ne dovea ridere?... — Perchè lui era credente... — Credeva?... Dunque era convinto di far peccato?!...
E allora, nel buio silenzioso in cui era avvolto, la coscienza del giovane cattolico gli risollevò dinanzi al pensiero scrupoli e dubbi che la vita mondana aveva assopiti, ma non aveva spenti nell’animo suo.
— Perchè gli era mai venuto in mente di entrare in quel Caffè!... Rifiutare il duello ad ogni costo, fare scuse, ecco quali sarebbero stati i precetti della Chiesa!... Ah no, egli si sarebbe piuttosto rassegnato ad andar dritto all’inferno, non c’era verso!...
— E se invece di esser punito coll’inferno, egli fosse stato punito, per quella colpa, col perdere l’Adele?... — Il giovane trasalì, dubitò, credette, per un momento, che la fanciulla dovesse essere il premio del suo sacrifizio. — Dio, Dio: allora l’avrebbe perduta; perduta per sempre! — In quella febbre angosciosa fe’ per pregare.... ma che?... — la sua preghiera non verrebbe ascoltata!... Si rizzò a sedere sul letto, pallido, la fronte in sudore, il petto anelante. L’angoscia di quel momento, la lotta che si agitava in lui, fra la sua fede e l’onor suo di gentiluomo, era terribile....
— Ma non vado incontro all’avversario coll’odio nel cuore, — pensò — vado col desiderio più vivo di fare la pace. Non sono le intenzioni che contano?... Dunque, migliori delle mie, non potrebbero essere certamente!. — Quietata un po’ la coscienza, riuscì a prender sonno. Per altro, dormì male assai; fe’ sognacci tutti pieni di assassinî, di ammazzamenti. L’Adele era già maritata; egli dovea battersi col marito di lei, poi con suo padre, poi l’aveva perduta per sempre. Si risvegliò in sussulto, ansante, e il pensiero che gli venne subito del duello, in quel primo momento, lo atterrì, nè ritornò la quiete al suo spirito se non colle prime spere di luce, annunziatrici del nuovo giorno.
I padrini del Parabiano si presentarono alle undici precise. Erano due ufficiali; e Andrea notò subito la delicatezza del suo avversario, che non avea mandato per isfidarlo alcuno di que’ suoi compagni che erano la sera innanzi al Caffè Dante.
— So bene, — egli disse loro, — a che cosa devo attribuire l’onore di una simile visita. — Poi dichiarò di essere pronto a dare la chiesta soddisfazione, e di avere scritto al conte Renzanico e al marchese Castiglioni (i quali si sarebbero trovati al Club dalle dodici al tocco) affidando ad essi il più ampio mandato per definire lo spiacevole incidente; e fe’ intendere bene quella parola spiacevole.
I due ufficiali, senza aggiungere parola, salutarono il Santasillia inchinandosi con fredda cortesia, e si ritirarono stringendogli la mano che egli aveva loro offerta, nell’accompagnarli fino all’anticamera.
— Che musi! e come hanno preso sul serio la loro parte! pensò il giovanotto mettendosi a far colazione.
Era un bel giorno limpido di sole e Andrea non voleva più saperne di malinconie.
— Porterò il braccio al collo per una settimana — pensava; — poco male!
Il tocco era sonato da poco, quando il Renzanico e il Castiglioni vennero insieme per riferire ad Andrea le condizioni dello scontro.
I due amici erano seri e impacciati: l’arma scelta era la sciabola; ma avevano dovuto accettare condizioni gravissime. L’insulto era stato pubblico, tutti ne parlavano; era il solo argomento della giornata, e il Parabiano pareva non volersi accontentare di una graffiatura.
— Sta bene, — rispose Andrea seccamente.
— Ed ora, — aggiunse il Renzanico, — dobbiamo farti una strana ambasciata, per conto, figurati, del tuo avversario!
Andrea guardò i due amici facendo atto di maraviglia.
— Egli vorrebbe ottenere un favore, per il quale si raccomanda al tuo cuore e alla tua cortesia.
— E quale? — chiese Andrea premurosamente.
— Che lo scontro abbia luogo oggi stesso; subito. Egli deve avere una sorella un po’ malata (Andrea arrossì, poi si fe’ pallido), e vorrebbe evitare, — continuò il Renzanico, — che le chiacchiere, già messe in giro a proposito di questo duello, potessero giungere al suo orecchio, prima che lo scontro avesse avuto luogo. Vorrebbe risparmiarle l’angoscia, l’inquietudine di sapere che suo fratello deve battersi, — e non ha torto. Dopo... si sa bene, quel ch’è stato è stato!
— Sono subito a disposizione del signor Francesco Parabiano, — rispose il Santasillia assai vivamente.
E infatti, prima ancora delle quattro, e presto assai per tutti i preparativi che c’erano stati da fare, i due avversari si trovarono di fronte in una piccola spianata, vicino al forte di Bosco Mantico.
D’ambo le parti si erano prese anche le ultime disposizioni con quella scrupolosa imparzialità, e insieme con quella squisita gentilezza di forme, che provava quanto fossero la stima e il rispetto reciproci. Tutti e due i combattenti si mostravano composti, tranquilli: il loro giuoco era calmo, misurato, di scuola. Meglio che ad un duello, pareva di assistere ad un assalto accademico in una sala di scherma.
— Toccato, alt! — gridarono a un tratto e insieme i due secondi, che si tenevano vicinissimi e cogli occhi fissi ai duellanti. Questi si fermarono subito, e intanto apparve sull’avambraccio di Andrea una sottile striscia di sangue.
Chiamati tosto i medici, essi dovettero dichiarare sul loro onore che la ferita non era di tale entità da impedire il proseguimento del duello.
Gli avversari furono nuovamente messi di fronte, fu dato di nuovo il segnale dell’attacco, e cominciò un secondo assalto.
Il Santasillia, sempre freddo e compassato, badava a riparare; Francesco Parabiano attaccava con un gioco vivo e serrato, ma si vedeva bene che non c’era odio fra i giovani combattenti, quantunque gareggiassero fra loro in valore e bravura.
L’assalto continuava già da vari minuti, senza che nè l’uno nè l’altro rimanesse toccato. A poco a poco il Parabiano vinto, attratto dall’emozione stessa della lotta, vi si riscaldò: il suo attacco divenne ancora più vivo, più rapido, più minaccioso; il sudore gli colava a grossi goccioloni dalla fronte sulle guance accese. Il petto aveva anelante, e a volte prorompeva in esclamazioni improvvise di sfida per isconcertare l’avversario, il quale continuava a parare, solamente a parare, sempre calmo, sempre impassibile.
A un tratto il Parabiano, sconcertato da così forte sicurezza, mutò gioco e volle tentare un colpo suo di riserva e che fino allora gli era sempre riescito. Si chinò allungandosi con una finta maravigliosa, poi avanzò d’un passo e uscì arditamente in spaccata; ma la sua sciabola non incontrò quella dell’avversario, barcollò scivolando sul terreno umidiccio e precipitò da sè medesimo contro la sciabola di Andrea.
Non il Parabiano, ma fu il Santasillia che gettò un grido terribile: i secondi, i testimoni, i medici accorsero prestamente per sollevare il ferito, già tutto sparso di sangue. Egli si era fatto bianco in viso, ma pure sorrideva; colla voce fioca balbettava ancora qualche parola di scherzo coi medici affaccendati e coi padrini, e quando fu medicato volle stringere la mano al suo avversario che lo guardava muto, colla più cupa disperazione impressa sul volto.
— E così? — domandarono premurosamente i padrini ad uno dei medici, appena il Parabiano fu adagiato nella vettura che dovea ricondurlo in città.
— È un affare grave, molto grave: la punta gli è penetrata assai nell’addome... Staremo a vedere.
Poi il medico scosse la testa e non aggiunse altro. Nessuno più fiatò per tutta la strada.
Ma, la mattina dopo, una lugubre voce correva per le vie, penetrava in tutte le case di Verona. Crocchi di persone si formavano qua e là, dinanzi alle botteghe, ripetendo l’uno all’altro la triste nuova, e chiedendo o riferendo i più minuti particolari intorno all’alterco succeduto al Caffè Dante, al duello che ne era seguito, e a quella grande disgrazia.
Francesco Parabiano era morto nella notte.