Arcadia (Sannazaro)/Prosa IX

Prosa IX

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Egloga VIII Egloga IX

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ARGOMENTO


Sotto coperta di voler menar Clonico, pastore innamorato al sacerdote di Pan, per trovar rimedio alle amorose passioni di lui, induce il vecchio Opico a ragionar delle vane possanze della magia, indi andati al sacerdote, mentre eli ei si apparecchiava a ragionare, con bella maniera fa contrastar fra loro cantando due pastori, acciocchèm en nojoso abbia a parere il lungo ragionamento del prudente sacerdote.


prosa nona.


Non si sentivano più per li boschi le cicale cantare, ma solamente, in vece di quelle, i notturni grilli succedendo si facevano udire per le fosche campagne; e già ogni uccello si era per le sopravvegnenti tenebre raccolto nel suo albergo, fuora che i vespertilli, i quali allora destati uscivano dalle usate caverne, rallegrandosi di volare per l’amica oscurità della notte; quando ad un tempo il cantare di Eugenio ebbe il suo fine; e i nostri greggi discesi dalle alte montagne si ragunarono al luogo, ove la sampogna sonava. Perchè con le stelle in cielo tutti insieme partendone dalla via, ove cantato si era, e menando Clonico con esso noi, ne riducemmo in un valloncello assai vicino, ove allora, che estate era, le vacche de’ paesani bifolchi le più delle notti albergavano; ma al tempo delle guazzose pioggie tutte le acque, che da’ vicini monti discendono, vi si sogliono ragunare: il quale d’ogn’intorno circondato [p. 111 modifica]naturalmente di querciuole, cerretti, suberi, lentischi, saligastri, e di altre maniere di salvatichi arboscelli, era sì da ogni parte richiuso, che da nessuno altro luogo, che dal proprio varco vi si potea passare; tal che per le folte ombre de’ fronzuti rami, non che allora, che notte era, ma appena quando il sole fosse stato più alto, se ne sarebbe potuto vedere il cielo. Ove alquanto discosto dalle vacche, in un lato della picciola valle le nostre pecore, e le capre restringemmo, come sapemmo divisare il meglio. E perchè gli usati focili per caso portati non aveamo; Ergasto, il quale era più che gli altri esperto, ebbe subitamente ricorso a quello, che la comodità gli offeriva; e preso un legno di edera, ed un di alloro, e quelli insieme per buono spazio fregando, cacciò del foco; dal quale poi che ebbe per diversi luoghi accese di moite fiaccole, chi si diede a mungere, chi a racconciare la guasta sampogna, chi a saldare la non stagna fiasca, e chi a fare un mestiere, e chi un altro, insino che la desiata cena si apparecchiasse; la quale poi che con assai diletto di tutti fu compita, ciascuno, perchè molta parte della notte passata era, si andò a dormire. Ma venuto il chiaro giorno, e i raggi del sole apparendo nelle sommità di alti monti, non essendo ancora le lucide gotte della fresca brina riseccate nelle tenere erbe, cacciammo dal chiuso vallone li nostri greggi e gli armenti a pascere nelle verdi campagne. E drizzatine per un fuor di strada al cammino del monte Menalo, che non guari lontano ne stava, con proponimento di visitare il reverendo tempio di Pan, presentissimo [p. 112 modifica]Iddio del salvatico paese, il misero Clonico si volle accomiatare da uoi. Il quale dimandato, qual fosse la cagione, die sì presto a partirsi il costringesse, rispose: che per fornire quello, che la precedente sera gli era stato da noi impedito, andar voleva, cioè per trovare a’ suoi mali rimedio con opra di una famosa vecchia, sagacissima maestra di magici artificj, alla quale, secondo che egli per fama avea molte volte udito dire, Diana in sogno dimostrò tutte le erbe della magica Circe, e di Medea; e con la forza di quelle soleva nelle più oscure notti andare per l’aria volando, coverta di bianche piume, in forma di notturna strega; e con suoi incantameli inviluppare il cielo di oscuri nuvoli, ed a sua posta ritornarlo nella pristina chiarezza; e fermando i fiumi, rivoltare le correnti acque ai fonti loro: dotta sovra ogni altra di attraere dal cielo le offuscate stelle, tutte stillanti di vivo sangue; e d’ imporre con sue parole legge al corso della incantata luna; e di convocare di mezzo giorno nel Mondo la notte, e li notturni Iddii dalla infernale confusione; e con lungo mormorio rompendo la dura terra, richiamare le anime degli antichi avoli dalli deserti sepolcri; senza che, togliendo il veleno delle innamorate cavalle, il saugue della vipera, il cerebro dei rabbiosi orsi, e i peli della estrema coda del lupo, con altre radici di erbe, e sughi potentissimi, sapeva fare molle altre cose maravigliosissime, ed inincredibili a raccontare. A cui il nostro Opico disse: ben credo, figliuol mio, che gli Dii, de’ quali tu sei divoto, ti abbiano oggi qui guidato per farti a’ tuoi affanni trovar rimedio; [p. 113 modifica]e tale rimedio, ch’io spero, che, se a mie parole presterai fede, ne sarai lieto mentre vivrai. Ed a cui ne potresti gir tu, che più conforto porgere ti potesse, che al nostro Enareto? il quale sopra gli altri pastori dottissimo, abbandonati i suoi armenti, dimora nei sacrificj di Pan nostro Iddio: a cui la maggior parte delle cose e divine, ed umane è manifesta; la terra, il cielo, il mare, lo infatigabile sole, la crescente luna, tutte le stelle, di che il cielo si adorna, Pliadi, Iadi, e ’l veleno del fiero Orione, l’Orsa maggiore, e minore; e così per conseguente i tempi dell’arare, del mietere, di piantare le viti, e gli ulivi, d’innestare gli alberi, vestendogli di adottive frondi; similmente di governare le mellifere api, e ristorarle nel mondo, se estinte fossero, col putrefatto sangue degli affogali vitelli. Oltra di ciò, quel, che più maraviglioso è a dire, ed a credersi, dormendo egli in mezzo delle sue vacche nella oscura notte, duo dragoni gli leccarono le orecchie; onde egli subitamente per paura destatosi, intese presso all’alba chiaramente tutti i linguaggi degli uccelli. E fra gli altri udì un luscigniuolo, che cantando, o più tosto piangendo sovra i rami d’un folto corbezzolo, si lamentava del suo amore, dimandando alle circostanti selve aita: a cui un passero all’incontro rispondea, in Leucadia essere un’alta ripa, che chi da quella nel mare saltasse, sarebbe senza lesione fuor di pena: al quale soggiunse una lodola, dicendo, in una terra di Grecia, della quale io ora non so il nome, essere il fonte di Cupidine, del quale chiunque beve, depone subitamente ogni suo amore; a cui il [p. 114 modifica]dolce luscignuiolo soavemente piangendo e lamentandosi rispondeva, nelle acque non essere virtù alcuna: in questo veniva una nera merla, un frisone, ed un lucarino, e riprendendolo della sua sciocchezza, che nei sacri fonti non credeva celesti potenzie fossero infuse; cominciarono a raccontargli le virtù di tutti i fiumi, fonti, e stagni del mondo, de’ quali egli a pieno tutti i nomi, e le nature, e i paesi, dove nascono e dove corrono, mi seppe dire, che non ve ne lasciò un solo, sì bene gli teneva nella memoria riposti. Significommi ancora per nome alcuni uccelli, del sangue dei quali mescolato e confuso insieme si genera un serpe mirabilissimo, la cui natura è tale, che qualunque uomo di mangiarlo si arrischia, non è sì strano parlare di uccelli, che egli appieno non lo inteuda. Similmente mi disse non so che animale, del sangue del quale chi bevesse un poco, e trovassesi in sul fare del giorno sovra alcun monte, ove molte erbe fossero, potrebbe pienamente intendere quelle parlare, e manifestare le sue nature, quando tutte piene di rugiada aprendosi ai primi raggi del sorgente sole ringraziano il cielo delle infuse grazie, che in se possedono; le quali veramente son tante e tali, che beati i pastori, che quelle sapessero. E se la memoria non m’inganna, mi disse ancora, che in un paese molto strano, e lontano di qui, ove nascon le genti tutte nere, come matura oliva, e correvi sì basso il sole, che si potrebbe di leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare; si trova una erba, che in qualunque fiume, o lago gittata fosse, il farebbe subitamente seccare; e quante chiusure [p. 115 modifica]toccasse, tutte senza resistenza aprire: ed altra, la quale chi seco portasse, in qualunque parte del mondo pervenisse, abbonderebbe di tutte le cose, nè sentirebbe fame, sete, nè penuria alcuna. Nè celò egli a me, nè io ancora celerò a voi la strana potenza della spinosa eringe, notissima erba nei nostri liti; la radice della quale ripresenta alle volte similitudine del sesso virile, o femmineo, benchè di raro si trovi; ma se per sorte ad alcuno quella del suo sesso pervenisse nelle mani, sarebbe senza dubbio in amore fortunatissimo. Appresso a questa soggiunse la religiosa verbena, gratissimo sacrificio agli antichi altari; del sugo della quale qualunque si ungesse, impetrerebbe da ciascuno quanto di dimandare gli aggradasse, purchè al tempo di coglierla fosse accorto. Ma che vo io affaticandomi in dirvi queste cose? Già il luogo, ove egli dimora, ne è vicino; e saravvi concesso udirlo da lui a pieno raccontare. Deh non, disse Clonico; io, e tutti costoro desiamo più tosto così camminando, per alleggerirne la fatica, udirlo da te; acciocchè poi, quando ne fia licito vedere questo tuo santo pastore, più in reverenza lo abbiamo, e quasi a terreno Iddio gli rendiamo i debiti onori nelle nostre selve. Allora il vecchio Opico, tornando al lasciato ordine, disse se avere ancora udito dal medesimo Enareto alcuni incanti da resistere alle marine tempestati, ai tuoni, alle nevi, alle pioggie, alle grandini, ed alli furiosi impeti delli discordevoli venti. Oltrà di ciò disse avergli veduto tranghiottire un caldo cuore e palpitante di una cieca talpa; ponendosi sovra la lingua un occhio di Indiana testudine nella [p. 116 modifica]quintadecima luna; e tutte le future cose indovinare. Appresso seguitò, avergli ancora veduta una pietra di cristallina specie, trovata nel picciolo ventre d’un bianco gallo, la quale chi seco nelle forti palestre portasse, sarebbe indubitatamente contra ogni avversario vincitore. Poi raccontò avernegli veduta un’altra simile ad umana lingua, ma maggiore, la quale, non come l’altre, nasce in terra, ma nella mancante luna cade dal cielo, ed è non poco utile alli venerei lenocinii: altra contra al freddo; altra contra le perverse affascinazioni d’invidiosi occhi. Nè tacque quella, la quale insieme legata con una certa erba, e con alquante altre parole, chiunque indosso la portasse, potrebbe a sua posta andare invisibile per ogni parte, e fare quanto gli piacesse, senza paura di essere impedito da alcuno: e questo detto, seguitò d’un dente tolto di bocca alla destra parte di un certo animale chiamato, se io mal non mi ricordo, Jena: il qual dente è di tanto vigore, che qualunque cacciatore sel legasse al braccio, non tirerebbe mai colpo in vano; e non partendosi da questo animale, disse, che chi sotto al piede ne portasse la lingua, non sarebbe mai abbajato da’ cani: chi i peli del muso, con la pelle delle oscene parti nel sinistro braccio legata portasse, a qualunque pasterella gli occhi volgesse, si farebbe subito a mal grado di lei seguitare. E lasciando questo, dimostrò, che chi sovra la sinistra mammella di alcuna donna ponesse un cuore di notturno gufo, le farebbe tutti i secreti in soglio parlando manifestare. Così di una cosa in un’altra saltando, prima a piè dell’alto monte [p. 117 modifica]giungemmo, che di averne dopo le spalle lasciato il piano ne fossimo avveduti. Ove, poi che arrivati fummo, cessando Opico dal suo ragionare, siccome la fortuna volle, trovammo il santo vecchio, che a piè di uno albero si riposava; il quale, come da presso ne vide, subitamente levatosi per salutarne, all’incontro ne venne, degno veramente di molta riverenza nella rugosa fronte, con la barba, e i capelli lunghi, e bianchissimi più che la lana delle Tarentine pecore; e nell’una delle mani avea di ginepro un bastone bellissimo, quanto alcuno mai ne vedessi a pastore, con la punta ritorta un poco, dalla quale usciva un lupo, che ne portava un agnello, fatto di tanto artificio, che gli avresti i cani irritati appresso: il quale ad Opico prima, dopo a tutti noi fatte onorevoli accoglienze, ne invitò all’ombra a sedere. Ove aperto un sacchetto, che egli di pelle di cavriuolo portava mnculosa e sparsa di bianco, ne trasse con altre cose una fiasca delicatissima di tamarisco, e volle che in onore del comune Iddio bevessimo tutti: e dopo breve desinare, ad Opico voltatosi, il dimandò di quello, che a fare così di schiera andassimo: il quale prendendo lo innamorato Clonico per mano, così rispose: la tua virtù sovra le altre singularissima, e la estrema necessità di questo misero pastore ne costrinse a venire in queste selve, Enareto mio; il quale, oltra al dovuto ordine amando, e non sapendo a se medesimo soprastare, si consuma sì forte, come al foco la molle cera; per la qual cosa non cerchiamo noi a tal bisogno i risponsi del tuo, e nostro Iddio, i quali egli più che altro Oracolo verissimi [p. 118 modifica]rende nella pura notte a’ pastori in questi monti; ma solamente dimandiamo la tua aita, che in un punto ad amore togliendolo, alle desiderose selve, ed a tutti noi il ritorni: col quale confesseremo, tutte le giocondità perdute esserne per te insieme restituite; ed acciocchè chi egli è, occulto non ti sia, mille pecore di bianca lana pasce per queste montagne, nè di state, nè di verno mai gli manca novo latte; del suo cantare non dico altro; perocchè quando d’amore liberato lo avrai, il potrai a tua posta udire; e fiati, son certo, gratissimo. Il vecchio sacerdote, parlando Opico, riguardava il barbuto pastore, e mosso a pietà della sua pallidezza, si apparecchiava di rispondere; quando alle orecchie dalle prossimane selve un dolcissimo suono con soave voce ne pervenne: ed a quella rivolti da traverso, vedemmo in una picciola acquetta a piè d’un salce sedere un solo caprajo, che sonando dilettava la sua mandra. E veduto, subitamente a trovarlo andammo; ma colui, il quale Elenco avea nome, come ne vide verso il limpido fiumicello appressare, subitamente nascondendo la sua lira, quasi per isdegno turbato si tacque. Per la quale cosa il nostro Ofelia offeso da tanta salvatichezza, siccome colui, che piacevolissimo era, e grazioso a’ preghi de’ pastori, si argomentò con ingiuriose parole doverlo provocare a cantare: e così con un riso schernevole beffandolo, con questi versi il costrinse a rispondere. [p. 119 modifica]


ANNOTAZIONI

alla Prosa Nona.


Non si sentivano piè per li boschi ec. Nel principio di questa Prosa, ottimamente nota il Porcacchi, è da metter gran cura all’ornata descrizion della sera, che ’l Sanazzaro fa, senza uscir mai de’ termini dell’umiltà pastorale; e in tutto il restante, e massime nel ragionamento del vecchio Opico, avvertiscasi quanto vagamente parli delle vanità magiche, impresse nelle menti de’ troppo creduli pastori; con quanto accorgimento alouna volta finga che ’l vecchio mal si ricordi del nome d’alcuni animali incogniti; quanto ben circoscriva gli Etiopi chiamandogli genti nere più che matura uliva, perchè colui non si ricordava del nome. Queste ed altre simili cose sono tutte scritte ed esposte con arte e giudizio grande.

I raggi del sole apparendo ec. Se il Sanazzaro in questo luogo ha voluto imitare Ovidio nel Lib. iv. delle Metam., dove questi descrivendo ugualmente l’Aurora ha detto:


Postera nocturnos Aurora removerat ignes,
Solque pruinosas radiis siccaverat herbas;


convien avvertire che l’imitatore ha vinto l’imitato, perchè il Sanazzaro ottimamente particolarizza l’aurora dicendo che non ancora le lucide goccie della fresca brina non erano riseccate nelle tenere erbe; e Ovidio invece volendo descrivere l’aurora descrive piuttosto il mattino già inoltrato, poiché ne dice che il sole co’ suoi raggi aveva già seccate le rugiardose erbe.

Della magica Circe, e di Medea. Circe fu figliuola del Sole e di Perse Ninfa, e venne ad abitare in Italia nell’Isola da lei detta Circea, che poi diventò terra ferma, e chiamasi oggi Monte Circello. Costei, per quanto dicono i poeti, convertiva gli uomini in varie fiere per forza di arte magica, secondo che si vede ne’ compagni d’Ulisse nel lib. x. dell’Odissea d’Omero. Medea fu figliuola d’Eta Re de’ Colchi, e fu maga eccellentissima, come quella, che per amor di Giasone seppe co’ suoi incantamenti addormentare il serpente che sempre vegghiava alla custodia del vello d’oro, che Giasone andò a rubare. Tutto quello poi che qui si dice intorno gl’incantamenti, è preso in parte o dall’Egloga viii. di Virgilio, o dall’Idilio ii. di Teocrito, e in parte dall’Elegia vii. del Lib. iii. degli Amori d’Ovidio.

Pliadi, o Plejadi sette figliuole d’Atlante e di Pleione Ninfa, nominate Elettra, Alcione, Celeno, Maja, Asterope, [p. 120 modifica]Taigete, Merope, le quali si fingono trasportate in cielo, e collocate davanti alle ginocrhia del Toro. Col loro apparire dimostrano essere buon trmpo di navigare. Dai latini si chiamano Virgilie, dall’indicare ch’elleno fanno il prossimo tempo di primavera quando appajono sul nostro emisferio. Di fatto nascono a primavera, e quando è l’equinozio, nascono la mattina. Dal volgo poi queste stelle medesime vengono dette Gallinelle.

Iadi, altre sette figliuole di Atlante e di Etra, sorelle di Iante, che si chiamano Ambrosia, Eudora, Pasitoe, Coronide, Plessauride, Pito, Tiche. Queste intisichendo pel grave dolore d’aver veduto il loro fratello morto da un leone, furono per compassione cangiate da Giove in altrettante stelle, e collocate nella testa del Toro; e perchè restasse un perpetuo testimonio della loro pietà verso il fratello, dal nome di lui furono tutte insieme chiamate ladi. Quand’elleno appajono e quando anche tramontano, turbano cielo, terra e mare, e cagionano copiosissime pioggie; onde a ragione disse Orazio nell’Ode iii. del Lib. i.


Illi robur et aes triplex
Circa pectlus erat, qui fragilem truci
Commisit pelago ratem
Primus, nec timuit praecipitem Africum
Decertantem Aquilonibus,
Nec tristes Hyadas, nec rabiem Noti.


Orione figliuolo nato dall’orina di Giove, di Nettuno, c di Mercurio. Essendo espertissimo cacciatore, e troppo millantandosi di questa sua abilità, fu dagli Dei punito col fare che la terra partorisse uno scorpione, dal cui morso fu ucciso. Diana mal soffrendo la sventura d’un suo seguace, lo pose in cielo vicino al segno del Toro, formando egli pure un segno che porta lo stesso suo nome, e ch’è composto di trent’otto stelle. Quando risplende, dinota serenità, e quando s’oscura, prenunzia tempesta.

L’Orsa maggiore, e minore, due segni celesti vicini al polo artico, che tra loro si distinguono per la differente grandezza. L’Orsa maggiore è di ventisette stelle, la minore di sette. La maggiore è Calisto, figliuola di Licaone Re d’Arcadia, cangiata in orsa, e quindi trasportata in cielo. La minore è Cinosura, una di quelle Ninfe, che nutrirono Giove di latte sul monte Ida in Creta, e che in premio di sì bella azione furono esse pure in cielo trasportate tutte insieme.

In Leucadia essere un alta ripa ec. Leucadia, o Leucade isola di Grecia nel mare Jonio. Ivi fu un promontorio dello stesso nome, sulla sommità del quale s’alzava un picciolo tempio dedicato ad Apollo. Gli amanti disperati offrivano [p. 121 modifica]segretamente i loro voti nel tempio, e quindi dalla cima del promontorio gittavansi in mate pensando che se ne uscivano vivi, eran guariti dalla violenta loro passione.

Essere il fonte di Cupidine. Questo fonte, le cui acque si riputavano atte a distruggere anche il più gagliardo amore, trovavasi presso a Cizico, città dell’Asia, onde da alcuni chiamasi anche fonte Cizio, o Cizico.

Mille pecore di bianca lana pasce ec. Imitazione di Virgilio nell’ Egl. ii.


Mille meae Siculis errant in montibus agnae:
Lac mihi non aestate novum, non frigore defit.
Canto quae solitus
etc.