Arcadia (Sannazaro)/Egloga VIII
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EGLOGA OTTAVA.
eugenio e clonico.
Eugenio.
Ove sì sol con fronte esangue e pallida
Su l’asinelio or vaine, e malinconico,
Con chiome irsute, e con la barba squallida?
Qualunque uom ti vedesse andar sì erronico,
Di duol sì carco, in tanta amaritudine,
Certo direbbe: questi non par Clonico.
Forse che per fuggir la solitudine
Or cerchi le cittadi, ove amor gemina
Suoi strai temprati nella calda incudine.
Nell’onde solca, e nell’arene semina,
E ’l vago vento spera in rete accogliere
Chi sue speranze fonda in cor di femina.
Clonico.
Eugenio, s’io potrò mai l’alma sciogliere,
O rallentar dal laccio iniquo ed orrido,
Tal ch’io possa dal giogo il collo estogliere;
Selva alcuna non fia, nè campo florido
Senza ’l mio canto, tal che Fauni e Driadi
Diran che viva ancor Dameta e Corido,
Le Najadi, Napee ed Amadriadi,
E i Satiri e i Silvani desterannosi
Per me dal lungo sonno, e le Tespiadi.
E poi per mano in giro prenderannosi
Discinti e scalzi sovra l’erbe tenere;
E mille canzonette ivi udirannosi.
E ’l fier fanciullo, e la spietata Venere
Vinti di doglia si daranno il biasimo,
E non potran goder della mia cenere.
Lasso, che ’n ciò pensando ogn’ora spasimo:
Sarà mai dì ch’io possa dir fra’ liberi:
Mercè del ciel, dal gran periglio evasimo?
Eugenio.
Di state secchi pria mirti e giuniberi,
E i fior vedrò di verno al ghiaccio sorgere,
Che tu mai impetri quel che in van deliberi.
Se amore è cieco, non può il vero scorgere:
Chi prende il cieco in guida, mal consigliasi:
Se ignudo; uom che non ha, come può porgere?
Questa vita mortale al dì somigliasi;
Il qual, poi che si vede giunto al termine,
Pien di scorno all’occaso rinvermigliasi.
Così, quando vecchiezza avvien che termine
I mal spesi anni che sì ratti volano,
Vergogna e duo! convien ch’al cor si germine.
A che le menti cieche si consolano,
Se nostri affanni un fumo al fin diventano,
E l’ore ladre i nostri beni involano?
Dunque è ben tempo omai che si risentano
Gli spirti tuoi sepolti anzi l’esequie
Nel fango; onde convien ch’alfin si pentano.
E s’a te stesso non dai qualche requie,
Che spene aran gli strani? e se ’l cor misero
Non può gioir, ragion è ben che arrequie.
Quante fiate del tuo error sorrisero
I monti e i fiumi! e se ’l tuo duol compunseli,
Quei corser per pietà, questi s’assisero.
Clonico.
O felici color che amor congiunseli
In vita e ’n ìnorte in un voler non vario,
Nè invìdia o gelosia già mai disgiunseli!
Sovra un grand’olmo jersera e solitario
Due tortorelle vidi il nido farnosi;
Ed a me solo è il ciel tanto contrario.
Quand’io le vidi, oimè, sì amiche starnosi,
Se respirai non so; ma il duol sì avvinsemi,
Ch’appena in terra i piè potean fermarnosi.
Dirollo, o taccio? in tanto il duol sospinsemi,
Ch’io fui per appiccarmi sovra un platano,
Ed Ifi innanzi agli occhi Amor dipinsemi.
Eugenio.
A quanti error gli amanti orbi non guatano!
Col desìo del morir la vita sprezzano;
Tanto a ciascun le sue sciocchezze aggratano.
E pria mutano il pel, poi che s’avvezzano,
Che mutin voglia; tal che un dolce ridere,
Ed un bel guardo più che un gregge apprezzano.
Talor per ira o sdegno volno incidere
Lo stame che le Parche al fuso avvolgono;
E con amor da se l’alma dividere.
Braman tornare addietro, e non si volgono;
Nè per foco ardon, nè per gielo agghiacciano;
Ma senza alcun dolor sempre si dolgono.
Cercan fuggire Amore, e pur lo abbracciano;
Se questa è vita, o morte, io non comprendola,
Che chiaman libertade, e più s’allacciano.
Clonico.
Pur mi si para la spietata Amendola
Dinanzi agli occhi, e par ch’al vento movasi
La trista Filli esanimata e pendola.
Se spirto al mondo di pietà ritrovasi,
Per Dio quest’alma liberar consentami:
Che miglior vita del morir non provasi.
O terra, tu che puoi, terra, contentami:
Tranghiotti il tristo corpo in le tue viscere,
Sì ch’uom mai non ne trove orma, nè sentami.
O folgori che fate il ciel tremiscere,
Venite a quel che ad alta voce chiamavi,
E vuol, se può, di disamare addiscere.
Correte, o fiere, a quel che tanto bramavi,
E voi, pastor, piangete il tristo esicio
Di quel che con sua morte tutti infamavi.
Voi userete in me il pietoso officio;
E fra cipressi mi farete un tumulo,
Che sia nel mondo di mia morte indicio.
Allor le rime ch’a mal grado accumulo,
Farete meco in cenere risolvere,
Ornando di ghirlande il mesto cumulo.
Allor vi degnerete i passi volvere
Cantando al mio sepolcro: allor diretemi:
Per troppo amar altrui, sei ombra e polvere.
E forse alcuna volta mostreretemi
A quella cruda ch’or m’incende e struggemi,
E ’ndarno al sordo sasso chiameretemi.
Eugenio.
Un orso in mezzo l’alma, un leon ruggemi,
Clonico mio, sentendo il tuo rammarico,
Che quasi d’ogni vena il sangue suggemi.
E s’io le leggi al tuo signor prevarico,
Prendi il consiglio del tuo fido Eugenio,
Che vivrai lieto, e di tal peso scarico.
Ama il giocondo Apollo, e ’l sacro Genio,
Ed odia quel crudel che sì ti strazia,
Ch’è danno in gioventù, vergogna al senio,
Allora il nostro Pan colmo di grazia,
Con l’alma Pale aumenterà ’l tuo numero,
Tal che la mente tua ne fia ben sazia.
E non ti sdegnerai portar su l’umero
La cara zappa, e pianterai la neputa,
L’asparago, l’aneto e ’l bel cucumero.
E ’l tempo sol in ciò disponi e deputa;
Che non s’acquista libertà per piangere;
E tanto è miser l’uom, quant’ei si reputa.
E poi comincerai col rastro a frangere
La dura terra, e sterperai la lappola,
Che le crescenti biade suol tant’angere.
Io con la rete uccello, e con la trappola,
Per non morir nell’ozio, e tendo insidie
Alla mal nata volpe, e spesso incappola.
Così si scaccia amor; così le invidie
De’pastor neghittosi si postergano;
Così si spregia il mondo e sue perfidie.
Così convien ch’al tutto si dispergano
L’ amorose speranze ardite ed avide,
Che nelle menti semplicette albergano.
Or pensa alquanto alle tue capre gravide,
Che per tema de’ lupi che le assaltano,
Fuggon da’ cani più che cervi pavide.
Vedi le valli e i campi che si smaltano
Di color mille; e con la piva e ’l crotalo
Intorno ai fonti i pastor lieti saltano.
Vedi il monton di Friso; e segna e notalo,
Clonico dolce: e non ti vinca il tedio;
Che ’n pochi dì convien che ’l sol percotalo.
Caccia i pensier che t’han già posto assedio,
E che ti fan dì e notte andar fantastico;
Che al mondo mal non è senza rimedio.
E pria ch’io parli, le parole mastico.
ANNOTAZIONI
all’Egloga Ottava.
Tal che Fauni ec. Se credere dobbiamo alla storia, che s’aggira intorno a cose tanto rimote, Fauno re de’ Latini, fiorì a’ tempi che Pandione regnava in Atene. Fu egli il primo che ridusse gl’italiani, i quali viveano prima in silvestre maniera, ad una vita socievole, e mite, insegnando loro a conoscere gli Dei e a fabbricarne i tempj, i quali perciò da’ Latini si dissero fana. Egli stesso venne in seguito onorato qual Dio, cosicchè anche in Roma ebbe un tempio sul monte Celio, di forma circolare, e adornato in giro di molte e maestose colonne. A poco a poco nelle fallaci menti degli uomini si moltiplicò quegli che da principio era unico, cosicchè il più delle volte i poeti invece del solo Fauno nominano i Fauni. Secondo la mitologia, i Satiri ed i Silvani sono da alcuni creduti figliuoli di Fauno, di modo che tutti unitamente son considerati come Divinità silvestri od agresti, di forma mostruosa, e presso a poco si dipingono nella stessa guisa, cioè con piedi caprini, e con fronte cornuta. I Fauni però vengono spezialmente coronati con frondi di pino; i Satiri sogliono avere una coda nelle parti deretane; e quando un solo Silvano sì dipinge, e non molti, tiene in mano un ramo di cipresso in memoria del bellissimo fanciullo Ciparisso amato da lui, e convertito nell’albero dello stesso nome. Di Fauno o dei Fauni non si parla così male, come spesso si fa dei Satiri, e de’ silvani o di Silvano. I Satiri voglionsi così chiamati dalla loro inclinazione al vizio della lussuria. Pausania dice, ch’eglino son quelli che gli antichi appellarono Sileni da un verbo greco, che corrisponde ai nostri oltraggiare, villaneggiare, diffamare, e simili. Dal che si comprende come spesse volte indistintamente dassi ad alcuni soggetti della mitologia il nome di Satiro o di Sileno. Per esempio il Satin Marsia appiccato da Apollo, vuole Erodoto, che altri non sia che Sileno. Laonde la sola differenza da ritenersi tra i Satiri ed i Sileni si è che i medesimi soggetti finchè erano giovani si chiamavano Satiri, e quando erano alquanto avanzati in età si nominavano Sileni. Ed è forse per questa ragione, che a Sileno, propriamente detto, cioè a quello che fa nutricatore, e maestro di Bacco si attribuisce una grandissima cognizione della natura, e di ogni antichità, e che Virgilio volendo di tali cose parlare nell’Egl. v. v’introduce Sileno, seguendo, come commenta Servio, ciò che ne avea detto Teopompo da Scio. Questo Sileno è quel medesimo, di cui narrasi un’altra favola, cioè che essendo carli preso dal Re Mida, per prezzo della ricuperata libertà, gli ha insegnato, che il non nascere è ottima cosa per l’uomo, e che quasi ottima è il morire prestamente. Silvano poi fu creduto un nume sì perverso, che sovente è preso per l’Incubo, ossia per quello die volgarmente chiamasi fottetto. Di più essendoci l’opinione, che questo insolente Dio violentasse le donne, mettevasi un custode alle puerpere, tosto che aveano partorito, affinchè di notte non le molestasse. Laonde ai Satiri ed ai Silvani ora si sagrificò perchè quali custodi de’ greggi, de’ campi, delle vigne ogni cosa rendessero felice, ed ora perchè quali divinità maligne anzi che no, si astenessero dal recare qualunque nocumento. Come poi sotto questi due differenti aspetti si poterono risguardare, Così variamente furono introdotti dai poeti ne’ loro componimenti, ora quali insidiatori dell’onestà delle Ninfe, ed ora quali intimi amici di quelle, viventi insieme in dolcissima e purissima concordia.
Tespiadi Queste dai Poeti ora si prendono per Ninfe, ed ora per le Muse, e tanto le une quanto le altre hanno un tal nome da Tespia, la quale fu già una terra vicinissima al monte Parnaso, dove s’imaginò ch’elleno abitassero.
Questa vita mortal ec. Non è nuovo l’assomigliare la vita dell’uomo ad un sol giorno; ma però questa comparazione assai acconciamente è qui usata. Presso Plutarco un savio Greco dice: La vita è simile al carcere d’un giorno, e tutto lo spazio del nostro vivere affermerei essere quasi uguale a quel giorno solo, in cui nascendo vediamo la luce, e quindi ben tosto lasciamo il luogo a’ posteri. Anche il Petrarca nel Trionfo del Tempo ha la medesima sentenza:
Che più d’un giorno è la vita mortale
Nubilo, breve, freddo e pien di noia;
Che può bella parer, ma nulla vale?
E l’ore ladre ec. Questo rubare che fa il tempo, fu già accennato da Orazio nell’Epist. 2 del Lib. ii.
Singula de nobis anni praedantur euntes.
O felici color ec. Imitazione di Orazio nell’Ode 13 del Lib. i.
Felices ter et amplitis
Quos innupta tenet copula; nec malis
Divulsus querimoniis
Suprema citius solvet amor die.
Ed Ifi innanzi agli occhi ec. Fu Ifi un bellissimo fanciullo, che non avendo potuto muovere a pietà la crudelissima Anasserete, della quale erasi fortemente innamorato, per disperazione con un laccio s’appiccò da se stesso. II Petrarca nel Cap. 2 del Trionfo dell’Amore così disse di Ifi:
Ivi quell’altro al mal suo sì veloce
Ifi, ch’amando altrui, in odio s’ebbe.
Lo stame che le Parche ec. I Poeti paragonarono la vita dell’uomo ad un filo, fingendo che delle tre Parche, figliuole di Demogorgone, o secondo Marco Tullio dell’Erebo e della Notte, Cloto tenga la conocchia, Lachesi fili, Atropo tagli il filo.
Pur mi si para la spietata Amendola ec. Filli, figliuola di Licurgo re di Tracia, credendosi ingannata da Teseo, che le avea dato fede di sposarla, e che non tornava a lei al tempo prefisso, da se stessa vinta dal dolore s’appiccò per la gola, e fu convertita nell’albero dell’amandola, o mandorlo, che qui è detto Amendola in grazia della rima.
E s’io le leggi al tuo signor ec. Questo signore, che Eugenio dice essere di Clonico, è Amore, e le leggi d’Amore son quelle che vogliono che gl’innamorati siano malinconici. Laonde Eugenio desiando di confortare Clonico ottimamente gli propone l’allegrezza, come uno de’ primi rimedj d’Amore.
Ama il giocondo Apollo ec. Io non credo che si possa meglio spiegare quale spezie d’amore voglia qui Eugenio consigliare a Clonico sull’esempio di Apollo e del sacro Genio, che colle parole di Euripide nella Medea:
Il troppo ardente amor non reca mai
Nè buona fama nè virtude all’uomo:
Pur se attemprata Venere ci move
Altra Diva non v’è di lei più cara.
ovvero con ciò che Tibullo dice esser proprio di Osiri nell'El.
viii. del Lib. i.
Non tibi sunt tristes curae, nec luctus, Osiri,
Sed chorus, et cantus, et levis aptus Amor.
E ’l sacro Genio. Piacemi di estendermi alquanto parlando di questo Genio. Egli fu creduto il Dio della natura, del piacere e dell’ospitalità, o come un Nume tutelare, un angelo, un essere privo d’ogni corporea sostanza; il cui proprio nome provenga dall’antico verbo latino geno vale a dire gigno, perchè egli ha forza di generare ogni cosa. Non un solo Genio fu ammesso ma moltissimi, di modo che parecchi opinano che appo gli antichi i Genj, i Lari, i Penati fossero gli stessi. Laonde ciascun uomo, ciascuna città, e ciascun impero avea qual proprio custode uno speziale Genio; al quale si prestava onore e culto con voti, con medaglie, e statue, e pel quale d’ordinario giuravano i soli uomini, siccome d’ordinario le femmine giuravano per Giunone. Celebre è l’iscrizione tratta dal tempio di Ercole nel Campidoglio, ristorato per la salute dell’imperatore: Pro. Salute. D. D. Imp. Pii. Fel. Aug. et. matris. Aug. N. et. Kastror. aedem. Genio. coeli. Adianti. manipuli. ejus. sua. pecunia. refecerunt. Seneca adirato contro il suo castaldo lagnasi fra le altre cose, che alcuni platani siano senza frondi, co’ rami nodosi, e torti, co’ tronchi cattivi e malconci; il che, egli dice, non sarebbe accaduto se alcuno gli zappasse intorno, e gl’inaffiasse. Il castaldo invece giura pel Genio del suo padrone, che in niuna cosa cessò mai la sua premura, e che que’ platani erano alquanto vecchi: jurat per Genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas (platanos) vetulas esse. Così scrive Seneca medesimo nella sua dodicesima Lettera. Quanto poi fosse saldo il giuramento latto pel Genio massimamente dell’Imperatore, ben lo dimostra Tertulliano, che nel Cap. 28 dell’Apologia così ne rimbrotta i Gentili: Citius denique apud vos per omnes Deos, quam per unicum Genium Caesaris pejeratur. Si chiamavano Genii semplicemente quelli che a ciascun luogo presiedevano, e qualche volta Genii Magni quelli che aveano come in cura le città, e le nazioni. Quindi nelle lapidi sovente si vede indicato Genius Centuriae, Genius Coloniae, Genius Conventus, Genius boatis, Genius Horreorum, Genius Lavacrorum, Genius Municipii, Genius Patriae, Genius Theatri, Genius Venalitionum. Per lo che Prudenzio così si scaglia contro Simmaco:
Quanquam cur Genium Romae mihi fingitis unum?
Cum portis, domibus, thermis, stabulis solealis
Adsignare suos Genius etc.
Dal Genio poi prese il nome di banchetto geniale, quello,
che nel giorno delle nozze dallo Sposo s’imbandiva alla Sposa,
ed alla festosa brigata, e parimenti dal Genio si nomò
Ietto geniale il letto nuziale, che pomposamente si ornava o
nel dì delle nozze, o quando vi giaceva la puerpera. I filosofi,
come Platone appresso i Greci, Cicerone appresso i Latini,
concederono bensì, che al Genio si prestasse un culto,
ma pretesero che per altro non si ritenesse che per l’anima
di ciascuno, la quale essendo creata da Dio venisse anch’essa
qual Dio onorata. Dal che derivarono forse le dizioni latine
indulgere genio, o defraudare genium per esprimere l’azione
di soddisfare, o di contrastare agli appetiti dell’animo. Fu
in seguito imaginato, che a ciascun uomo due Genii fossero
dati, uno cattivo, e l’altro buono; ma però quasi sempre
appo i giudiziosi filosofi, e poeti di un solo si fa menzione; e
questi è amabile e piacevole, onde non è raro il trovare la
voce genium usata per dire la grazia, e la leggiadria di alcuna
persona o cosa. Marziale di fatto volendo dire, che il
poeta che vuol essere immortale, debbe avere grazia e venustà
ne’ suoi versi, termina l’Epigr. 60 del Lib. vi., così dicendo:
Victurus genium debet habere liber.
Vedi il Monton di Friso. Friso fu figliuolo d’Atamante, e di Nefele; il quale non potendo sopportare la mala vita datagli dalla matrigna, con la sorella chiamata Elle se ne fuggì; ed avuto dal padre un montone, che aveva il vello d’oro o la lana d’oro, vi montò a cavallo: ma volendo passare il mare, Elle cadde nell’acqua, e s’annegò; onde quel mare fu chiamato Ellesponto. Friso giunse a salvamento in Colco al Re Eta, dove sagrificò a Giove, o a Mercurio il montone, e ne attaccò la pelle al tempio. Dicono che gli Dei tanto ebbero accetto quel sagrificio, che posero quel montone in cielo, e lo fecero uno de’ segni dello Zodiaco. Ora è da notare, che dove qui Eugenio dice Vedi il Monton di Friso, volle accennare la stagione della primavera che si avvicinava; quasi volesse dire, che siccome gli alberi deponevano lo squallore, e cominciavano a rinverdire, così Clonico deponesse il dolor che sentiva, e prendendo speranza si riconfortasse. Di fatto il sole entra in questo segno d’Ariete il mese di Marzo, quando appunto comincia la primavera. Porcacchi.