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Parte seconda - 4 Parte seconda - 6


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V.


La prima battaglia


— Che c’è? una disgrazia? — chiese al giovine.

— Sì, una disgrazia, una terribile disgrazia — esclamò Ferruccio, aprendo le braccia e socchiudendo gli occhi — una cosa orribile, se lei non ci aiuta, buona signora.

— Che cosa? — chiese Arabella, conducendo il giovine verso il canapè e invitandolo con un gesto a sedere.

Ferruccio, con voce contristata e riscaldata dal dolore, cominciò a raccontare il suo caso, senza mai alzare gli occhi in viso alla signora, descrisse la disperazione del povero suo padre, quando vide le guardie sull’uscio venute per arrestarlo, e fece sentire tutto lo strazio di un cuore generoso ed onesto all’idea del disonore che sarebbe pesato su tutta la sua vita.

— Pensi che disgrazia anche per me, se il signor Tognino fa questa figura a quel povero uomo. Pensi, un vecchio di sessant’anni! un vecchio di sessant’anni che viene condotto via come un malfattore. O Dio, Dio, Dio...

Ferruccio si coprì la faccia colle due mani. L’animo intimidito e scontroso, eccitato e scosso dalla [p. 208 modifica]sferza tagliente del dolore, snodavasi e usciva di mezzo ai piccoli impacci dell’ignoranza e della soggezione, trovava la sua voce naturale, e colla voce l’eloquenza che tocca e che persuade. Era forse la prima volta che l’anima romantica della povera Marietta parlava con tanto fervore nella voce del figliuolo; quasi se ne accorse egli stesso, soffermandosi una volta in mezzo alla corsa sfrenata della sua disperazione ad ascoltare una voce, che parlava forte e commovente al suo stesso orecchio.

— Lei che è tanto buona, lei che è l’angelo di questa casa, lei, cara signora Arabella, non deve permettere questo castigo. Pensi che è come condannare a morte un povero vecchio coi capelli bianchi. È come dire a un povero giovine di vent’anni: va, sei disonorato per sempre... No, no, per amor della mia povera mamma non ci facciano questa tremenda figura. Io pagherò tutto, due volte, tre volte: servirò tutta la vita per nulla, ma dica al signor Tognino che per così poco non si uccidono due uomini. A lei vuol bene, a lei non dirà di no, e il Signore l’ha messa in questa casa, buona signora, apposta per impedire molto male...

— Quando è accaduto tutto ciò?... — interruppe Arabella, commossa dalle parole e dalle ingenue dichiarazioni del giovine.

— È cosa che risale a questo inverno. Il signor Tognino aveva quasi perdonato, ma ora per un altro motivo vuol dar corso alla denuncia.

— Quale altro motivo?

— Mio padre avrebbe detto a qualcuno d’aver aiutato il signor Tognino a cercare una carta.

— So ormai di che cosa si tratta e ho promesso [p. 209 modifica]già ad altri di far sentire anche la mia voce in questa dolorosa faccenda.

— La zia Colomba mi ha dato questo libretto di risparmio e mi ha raccomandato di consegnarlo a lei.

— Non c’è bisogno di denaro... anzi ce n’è anche troppo. Metta via il suo libretto e lo riporti alla sua buona zia. Io cercherò di parlare domani mattina per tempo a mio suocero, e sarà la volta che ci parleremo chiaro.

— Se lei non ci salva, io non so quel che farò nella mia disperazione... Sento che è meglio morire...

Arabella, sentendo parlar di morire, essa che era stata a un filo dalla morte, s’immedesimò nella tristezza del giovine, e dimenticò per un istante, quasi affascinata dalla sua stessa malinconia, le circostanze che lo avevano condotto a implorare il suo soccorso. Vide che Ferruccio, lottando con sè stesso per non piangere, divorava le sue lagrime, e celava gli occhi per paura di incontrarne altri due che l’avrebbero avvilito. Avevan fatta la prima comunione insieme e per il ragazzetto essa era stata una specie di maestra, o di sorella maggiore.

— Capisco il suo dolore e il suo spavento, povero Ferruccio, e la ringrazio di essere venuto a parlarmene. Ciò mi persuaderà a uscire da un’inerzia morale della quale già mi sentivo colpevole. Siamo impigliati un po’ tutti in quest’intrighi, e lei vede che io ne ho sofferto per la prima.

Ferruccio rivedeva la signora per la prima volta dopo il triste accidente, e, alzando gli occhi per commiserarla, gli parve di rivedere una bellezza più [p. 210 modifica]radiante e più consacrata. Il viso attenuato dalla malattia, la bianchezza quasi di marmo, gli occhi grandi e splendidi, i capelli che fluivano in un certo disordine sui pizzi della vestaglia bianca, la voce che lo incoraggiava e lo avviliva nello stesso tempo, tutto ciò ebbe la virtù di portare anche lui un istante al di fuori o al di sopra del suo stesso patimento.

— Vada a casa a consolare la sua gente e dica pure che prendo la cosa sopra di me. Lasci all’Augusta il suo indirizzo e domani mattina manderò a portare io stessa la risposta. Ne farò una questione mia personale. Un giorno o l’altro avrei dovuto cercare un pretesto per dichiarare anch’io la mia guerra. È necessario uscirne, e al più presto. Vada e non dica più che gli manca la forza di vivere: è negar la Provvidenza, Ferruccio.

— O signora Arabella!... — singhiozzò il giovine.

Assalito, quasi travolto dalla violenza morale di quel dolce rimprovero, il romantico figlio della povera Marietta piegò un ginocchio sopra uno sgabello ch’era ai loro piedi, e in atto di compunzione e di supplica baciò con riverenza e con umiltà popolana la mano della signora, mormorando:

— Mi scusi, grazie, mi scusi.



In quel punto l’uscio s’aprì con furia, ed entrò il signor Tognino in persona. Da un mese era in sospetto di tutti e di tutto. Proprio in quel giorno il Botola gli aveva dato per certo che don Felice aveva scritto segretamente alla nuora e che questa aveva già avuto dei segreti colloqui col prevosto.

[p. 211 modifica]Tutto ciò il Botola aveva saputo dal Mornigani che da qualche tempo gli faceva la corte. Per questa stessa via era stato informato del tradimento del Berretta. Avvertito dalla portinaia che c’era di sopra Ferruccio e sentito dall’Augusta che il giovine pareva un morto in piedi, entrò nel salotto coll’ansietà di chi s’affretta a scongiurare qualche altro pericolo. Ma nell’entrare si arrestò di botto, come se urtasse contro una spranga di ferro.

— Eccolo, proprio a tempo!... — esclamò Arabella, alzandosi repentinamente. La sua voce era ferma e tranquilla, ma soffrì di sentire una vampa di rossore scaldarle il viso. — Questo povero giovine è venuto ad implorare grazia per suo padre. Mi si raccomandava in ginocchio colle lagrime agli occhi.

— Quel signor povero giovine favorirà a prender l’uscio e dopo l’uscio le scale e non metterà più piede in casa mia.

Il signor Tognino recitò queste parole con tono aspro e risoluto, indicando col braccio teso l’uscio semiaperto. E in quella voce sinistra, che Arabella non conosceva ancora, scaturì per un istante il vecchio Valsassina del Borgo. Ritto nel mezzo della stanza, rimase un bel pezzo in quella posizione, come se stentasse a uscire da una eccitazione malvagia che gl’induriva i muscoli.

— Senta, sor Tognino... — provò a dire il ragazzo, congiungendo le mani.

— Va via! — gridò l’altro, piegando una volta il braccio e stendendolo di nuovo a indicare la porta. — Non ho nessuna compassione di chi fa lega coi birbanti e di chi mi insulta in casa mia.

E volgendosi ad Arabella, che stava come impassibile [p. 212 modifica]a contemplare la scena, soggiunse con un risentimento che mirava ad ingrossare le cose:

— Al padre di questo povero giovine ho già perdonato una volta; ma ora vedo che mi paga coll’ingratitudine e lo tratto da ladro.

— Mi ha mandato la zia Colomba... — provò a dire Ferruccio, mostrando il libretto di risparmio.

— T’avesse mandato Cristo, la denuncia è fatta. Volete la guerra e io ve la faccio. E tu, ripeto, piglia quest’uscio o ti, ti...

E il figlio del Valsassina, piegando i diti ad artiglio, fece due passi contro il giovine, con un moto minaccioso di belva ferita, che il contegno modesto e umile del povero figliuolo non aveva provocato.

Arabella entrò in mezzo e disse freddamente a Ferruccio:

— Vada, obbedisca, non insista. Piglio la cosa sopra di me...

E lo accompagnò ella stessa fin all’uscio, che richiuse. Quindi si voltò per cercare la sua bestia feroce.

Il signor Tognino gettò sul canapè il cappello — quel medesimo cappello molle a larghe tese, che il Berretta gli aveva visto in testa la notte famosa — e cominciò a camminare con passo adirato tra il caminetto e la parete opposta.

— Mi fanno la guerra e io mi difendo. Quell’asino va a dire ai preti che io ho rubata una carta e io dimostro al questore, perbacco! ch’egli mi ha rubato cinquanta bottiglie di vin vecchio e mezzo carro di legna. Son nel diritto, sì o no, risponda?

La domanda era rivolta in modo da far intendere che esigeva una risposta.

[p. 213 modifica]Arabella, in piedi presso il caminetto, colle mani appoggiate alla pietra, finse di non aver capito.

Nel bagliore della lucerna, i suoi capelli irraggiavano una specie di aureola fosforescente intorno al volto delicato e colorito dall’animazione della battaglia interiore.

Il vecchio fissò l’occhio semichiuso su quella splendida visione di donna, e, inteso a farsi dare ragione per forza e ad offuscare colla violenza delle parole l’impressione che le parole di Ferruccio avevano potuto lasciare nell’animo di lei, seguitò:

— Non le pare nemmeno che le mie parole meritino una risposta? — e si arrestò su due piedi, incrociando le braccia sullo stomaco, fissando lo sguardo sopra la sua bella nuora, che aveva un contegno quasi provocante questa sera.

— Scusi, signore — prese a dire Arabella freddamente — io non posso giudicare di fatti che non conosco. Ma so che i torti si fabbricano anche a furia di ragioni.

— Lei però dice di non conoscere i fatti...

— Non li conosco e non desidero nemmeno di conoscerli... — rispose con accento più risentito, fissando i suoi occhi lucenti in faccia al vecchio, che un poco li sostenne, ma poi abbassò i suoi e ritornò a passeggiare, il capo avanti, le mani dietro la vita, colle quali seguitava ad agitare con stizza nervosa un paio di guanti sciupati.

— Io dico soltanto questo, signor Maccagno, che non è segno di forza il mostrare di aver paura di un povero vecchio.

— Sa lei quel che si dice? — interrogò di nuovo il suocero, fermandosi su due piedi e fissando negli [p. 214 modifica]occhi la nuora quasi per leggervi quel che vi era d’entro.

Già non trovava più la dolce pecorella di prima. I preti già l’avevano guastata. Gli occhi del vecchio Maccagno schizzavano fuoco.

— Forse non sono ancora istupidita del tutto — continuò Arabella, ridendo con un piglio ironico, che non era nell’indole sua.

Nello sforzo della passione, la sua bellezza alquanto claustrale si rischiarò e prese in alcuni tratti il vigore di una donna forte che accetta una sfida.

— Lei non conosce i fatti, dice, ma si permette di giudicarli...

— Nossignore.

— Sissignora! — gridò il vecchio, battendo la mano secca e nodosa sulla tavola. E colla furia di chi corre a difendere qualche cosa di prezioso, seguitò: — Io non ho studiato sui libri come lei, ma so leggere più in fondo di lei. Non solo lei non conosce i fatti, ma li conosce male, il che è peggio, e li giudica come li conosce. Avrei molto piacere che lei si tenesse fuori dagli affari che non la riguardano. Scusi... Avrei voluto dirglielo prima, ma spero di dirglielo a tempo.

— Non mi sono messa da me in questi affari che lei dice.

— Lo so, lo so, ma ha fatto male a credere a ciò che dei maligni interessati le hanno scritto...

— Ora è lei che giudica male...

— Maligni interessati, che io chiamerò ad uno ad uno davanti al giudice...

— Ella si irrita inutilmente con me...

— Non inutilmente con chi prende le parti de’ [p. 215 modifica]miei nemici... — soggiunse il vecchio, agitando furiosamente il suo paio di guanti.

— Di ciò parleremo un’altra volta, se le piacerà. Ora si tratta di quel povero vecchio...

— Di quel povero vecchio... — ripetè con grossa ironia, ridendo grosso sulle sue parole. — Già, già: di quel povero vecchio... e anche un po’ di quel povero giovine... — e nel sorriso sarcastico guizzò una passione oscura, che, o egli chiamò a difesa de’ suoi interessi, o essa tirò lui a dir di più del giusto. Mal chiamata o mal trattenuta, questa passione, quasi ignota al suo stesso padrone, entrò in mezzo a spaventarli entrambi.

Arabella scattò dal suo posto e venne a piantarsi davanti al suo accusatore. Che voleva dire il signor Maccagno? era a lei, o a una delle solite donne di sua conoscenza, che il vecchio Maccagno osava rivolgere una frase, che nella sua ironia lasciava trasparire un pensiero vile, un’accusa villana?

Credette di poter rispondere anche lei un mare di aspre parole: ma non potè dirne una. Il viso divenne duro, quasi superbo. Gli occhi gli si impicciolirono in una luce fuggente di supremo disprezzo, portò la mano alla bocca per chiudere la via a una volgarità, che la sua dignità non le permise di dire. Non la disse, ma la fece vedere con un moto altero della testa, che riassumeva tacitamente tutta la ripugnanza che suscitava in lei l’oltraggio dell’umana vigliaccheria. Quando finalmente quel tumulto di sensazioni fu alquanto sedato, volgendosi per uscire, giunta sulla soglia, si fermò e come se parlasse a due persone, che sentiva associate nel suo disprezzo, alzata la testa, disse con voce lenta e irritata:

[p. 216 modifica]— Ebbene, sissignore, anche quel povero giovine mi preme...

E uscì, chiudendo dietro di sè i battenti.



Il vecchio le corse dietro un tratto, gridando:

— No, no, figliuola, mi ascolti... — e rimase lì, atterrito, davanti all’uscio che Arabella gli chiuse sul viso.

Atterrito, è la parola vera. Il suo demonio, per chiamare con un vecchio nome una passionaccia oscura e ingannatrice, l’aveva trascinato a dire una brutta parola all’unica creatura ch’egli stimava e amava sulla terra.

Perchè l’aveva dunque pronunciata? aveva bisogno di prove per credere che Arabella era un angelo di onestà, di sacrificio, di virtù, un essere capace di sopportare le battaglie della vita, di vincere per sè e per gli altri? tutto ciò sapeva benissimo anche prima, lui, che da sei mesi viveva, si può dire, giorno per giorno, ora per ora, della vita e dei respiri di quella figliuola. Era lui che da sei mesi lottava da leone contro le maligne influenze dell’ambiente per mantenere intorno ad Arabella quasi un’oasi di purezza, per fare che una stilla di fango non cadesse a contaminare un lembo del suo vestito. Ed ora il suo demonio l’aveva condotto a gettarle una manata di quel fango in viso...

— Scusi, Arabella; senti, figliuola...

E istintivamente pose la mano alla serratura e cercò di sforzare i battenti.

Ma poichè Arabella non rispondeva, gli mancò la [p. 217 modifica]forza d’insistere. Si mosse come un uomo che ha smarrita la sua strada e ritorna sui passi, più per la paura di perdersi maggiormente, che non per la speranza di trovare la strada buona. Uscì coll’intenzione di cercare Lorenzo, ma, giunto dabbasso, passò nell’altra corte, salì le scale dell’ammezzato, tolse la chiavetta ed entrò nello studio.

— Uh! il grand’uomo che avrebbe voluto far processi d’ingiuria a mezzo mondo, eccolo qui, peggio degli altri, a supporre subito quasi una tresca tra la nuora e quel ragazzo... Perchè questo era stato il suo primo pensiero contro cui urtò nell’entrare quando li vide così vicini. Per questo pensiero aveva cacciato il ragazzo come si caccia un cane. Ebbene, aveva torto, non solo di immaginare certe cose, ma d’ingerirsene... lui... vecchio...

In questi pensieri che luccicavano, dirò così, nel suo cervello rabbuiato come i frantumi sparsi d’uno specchio rotto a colpi di sassi, si rintanò nella piccola stanza, dove entrò senza lume, guidato dalla scarsa luce che dalla viuzza sottoposta sbattevano i fanali sulle finestre polverose dell’ammezzato.

Rannicchiato nelle braccia della sdruscita poltrona di pelle, tra le grandi ombre delle scansie, appoggiò i gomiti ai cartocci che ingombravano la scrivania, strinse la fronte nelle mani, tentò di mettere un poco d’ordine nella confusione delle molte sensazioni che cozzavano per la prima volta a rompere l’armonia del suo cervello sano e pratico.

Ormai non c’era più dubbio: anche Arabella era contro di lui. Ferruccio doveva averle raccontato cose tremende, ingrandendo apposta parole e fatti per destare più compassione, per tirare Arabella dalla sua [p. 218 modifica]parte. I preti sulla testimonianza del Berretta sostenevano e credevano di poter dimostrare ch’egli aveva trafugata una carta. Ora i Borrola, secondo ciò che gli aveva detto il Botola, erano andati a scovare delle nuove testimonianze. Intrighi sopra intrighi, intrighi d’avvocato, intrighi di sagrestia, mentre l’ortolana, il Boffa e gli altri malandrini gli minacciavano guerra di coltello. E Arabella osava parlare di pietà e di misericordia!...

Eran riusciti ad aizzarla contro di lui, mentre egli stava già per metterla in salvo. E mentre da una parte l’odio e il rancore eccitavano le solite furie, sentiva in fondo all’animo, in un luogo buio dove non arrivavano le voci dell’orgoglio, che questa benedetta figliuola gli faceva paura. Essere male giudicato da lei parevagli un castigo troppo duro, che non poteva sopportare.

Mosso dalla forza di questa paura, desideroso di gettare quasi un ponte tra lui e sua nuora, accese una candela, tolse via alcune carte, tirò avanti un foglio bianco e prese a scrivere lesto, sotto la dettatura d’uno spirito che comandava:

«Mia cara nuora,

Mi perdoni quel che ho detto in un momento di cattivo umore. Nella foga del discorso la parola ha detto ciò che non era nel mio pensiero, glielo giuro. E come potrei pensare cose meno che oneste e meno che buone di lei, cara mia figliuola, la più onesta e la più buona creatura ch’io conosco? mi perdoni e non mi tolga il suo affetto e la sua benevolenza.

In questo momento ho bisogno di un’amica che mi voglia bene e che mi assista. Il mondo mi giudica [p. 219 modifica]male, se pur non ho abusato anch’io nel giudicare degli uomini. A ogni modo se qualche cosa di bene posso fare anch’io, non può essere che coll’aiuto e colla stima delle persone care e coraggiose come lei.

A provarle che in me è sincero il pentimento, le prometto che domani andrò io stesso dal signor questore a ritirare la querela contro il Berretta, quantunque preveda di trasformare un ladro confesso in un pericoloso nemico. La guerra che mi fanno i parenti è senza fondamento. Può essere dispiaciuto a qualcuno di loro che la povera mia cugina abbia favorito me solo nelle sue disposizioni e ciò spiega il loro odio accanito contro di me e contro la mia famiglia; ma... »

A questo «ma» la penna si arrestò, provando una resistenza a proseguire, come se nel meccanismo del ragionamento fosse caduto un corpo estraneo a incagliarne il movimento. Non s’era mai fermato davanti a siffatti sassolini. L’uomo che corre non può arrestarsi a raccattarli. Nel caso suo aveva saltato ben altri muriccioli... Se si fermò, bisogna ritenere che sentisse in sè il bisogno di rifare la storia dei fatti per evitare delle inutili contraddizioni.

«... ma non tocca a noi giudicare le intenzioni di chi non è più. Nella mia fortuna avrei potuto fare del bene a tutti, specialmente ai Ratta poveri e bisognosi, se non che per invogliarmi a far del bene, il peggiore sistema è la guerra sorda e palese che mi minacciano. È il calunniare, l’insolentire pubblicamente, l’inveire contro me e contro la mia famiglia, il comperare false testimonianze, il corrompere [p. 220 modifica]i miei servitori, il fare insomma intorno al mio nome un osceno can-can, che mi fa comparire come la bestia feroce di Milano. Ella ha già più d’una prova se io sono una bestia così feroce. A questa guerra io son risoluto di opporre un’altra guerra; agli scandali altri scandali, a processi altri processi per tirar sul terreno della legalità una ciurma di affamati avvezzi a schiamazzare pel loro mestiere.

Non è dunque la paura di un povero vecchio che mi ha fatto comparire duro e intransigente questa sera: è, come vede, il dovere naturale che ho verso di me e verso la società di difendermi colle armi stesse che mi offrono i miei nemici.

Con tutto questo, cara Arabella, per dimostrarle che sopra il mio stesso diritto apprezzo il suo affetto e la sua stima, le prometto che ritirerò la denuncia, anzi autorizzo lei a mandare questa notizia a Ferruccio, per dimostrarle come io stimi e voglia bene anche a questo buon giovane. E se tutto ciò non basta, mi dica e mi suggerisca quel che posso fare per dimostrarle il mio pentimento e per riacquistarmi quell’affezione che spero d’aver meritato...»



Come se dalla fiamma della candela scoppiasse un piccolo razzo, a questo punto vide guizzare, tra le righe del suo nero inchiostro, una fila di minute scintille, e le parole farsi livide e confuse. Passò la mano sugli occhi e cominciò a rileggere il suo foglio, meravigliandosi d’aver scritto tanto in così poco tempo.

Dalla parte degli ammezzati la viuzza era già [p. 221 modifica]quietissima, quantunque non fosse ancora molto tardi. Di tanto in tanto sonava un passo sul lastricato e svoltava all’angolo; poi tutto ricadeva nel silenzio.

Fin dove può un uomo ingannare sè stesso? Rileggendo la difesa ch’egli aveva scritto di sè, il vecchio affarista era indotto a credere alle sue stesse parole da una strana e assorbente commozione, che gli faceva gli occhi gonfi.

Quasi si compiangeva come una vittima dell’avarizia e dell’egoismo altrui. E mentre da un lato non riconosceva più sè stesso, provava dall’altro un desiderio senza fine di umiliarsi al cospetto della nuora, di mettersi incatenato in mano sua, di lasciarsi guidare in quante opere di carità, d’indulgenza, di misericordia ella credesse utile di suggerire.

E stava per chiudere la lettera, quando nel silenzio del vicolo e nella profondità delle case risonò sguaiatamente una voce, che fece trasalire nella sua poltrona il vecchio malinconico. Era la solita voce:

— Maccagno birbone! non dormi? quando ti farai impiccare?

Soffiò spaventato sulla candela e si rannicchiò nel buio. Era la prima volta che l’Angiolina osava farsi sentire di notte. Aveva aspettato che Tognino la facesse arrestare; quando si accorse che coi processi l’ometto non osava venire avanti, prese coraggio, e volle cantargli una serenata.

— Non ti tira pei piedi la vecchia Ratta? corbaccio, mercante di carne umana...

La voce stridula e sguaiata, rimbombando nella stretta fessura della viuzza, fece aprire qualche finestra [p. 222 modifica]e arrestò qualche passo. Non era possibile che, passando nell’arco della porta, quelle maledizioni non salissero fino ad Arabella, a rinnovare i brividi e lo spavento dell’altra volta. Tognino, se avesse avuto un coltello, se avesse potuto... Sepolto nelle tenebre, alle ingiurie così gridate nell’aria rispondeva con grugniti di bestia ferita, aggrappandosi colle mani irritate alle gambe della scrivania. Che pace, che perdono, che benevolenza! questo era veleno, peste, abbominio. Il lupo scosse la febbre, arruffò le setole, e bestemmiando i sette sacramenti, lacerò in cento pezzi la lettera, in cui parlava di indulgenza e di perdono, e giurò di andar dritto per la sua strada, che, al punto in cui era arrivato, non poteva essere che una sola.