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sibile a contemplare la scena, soggiunse con un risentimento che mirava ad ingrossare le cose:

— Al padre di questo povero giovine ho già perdonato una volta; ma ora vedo che mi paga coll’ingratitudine e lo tratto da ladro.

— Mi ha mandato la zia Colomba... — provò a dire Ferruccio, mostrando il libretto di risparmio.

— T’avesse mandato Cristo, la denuncia è fatta. Volete la guerra e io ve la faccio. E tu, ripeto, piglia quest’uscio o ti, ti...

E il figlio del Valsassina, piegando i diti ad artiglio, fece due passi contro il giovine, con un moto minaccioso di belva ferita, che il contegno modesto e umile del povero figliuolo non aveva provocato.

Arabella entrò in mezzo e disse freddamente a Ferruccio:

— Vada, obbedisca, non insista. Piglio la cosa sopra di me...

E lo accompagnò ella stessa fin all’uscio, che richiuse. Quindi si voltò per cercare la sua bestia feroce.

Il signor Tognino gettò sul canapè il cappello — quel medesimo cappello molle a larghe tese, che il Berretta gli aveva visto in testa la notte famosa — e cominciò a camminare con passo adirato tra il caminetto e la parete opposta.

— Mi fanno la guerra e io mi difendo. Quell’asino va a dire ai preti che io ho rubata una carta e io dimostro al questore, perbacco! ch’egli mi ha rubato cinquanta bottiglie di vin vecchio e mezzo carro di legna. Son nel diritto, sì o no, risponda?

La domanda era rivolta in modo da far intendere che esigeva una risposta.