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Arabella, in piedi presso il caminetto, colle mani appoggiate alla pietra, finse di non aver capito.
Nel bagliore della lucerna, i suoi capelli irraggiavano una specie di aureola fosforescente intorno al volto delicato e colorito dall’animazione della battaglia interiore.
Il vecchio fissò l’occhio semichiuso su quella splendida visione di donna, e, inteso a farsi dare ragione per forza e ad offuscare colla violenza delle parole l’impressione che le parole di Ferruccio avevano potuto lasciare nell’animo di lei, seguitò:
— Non le pare nemmeno che le mie parole meritino una risposta? — e si arrestò su due piedi, incrociando le braccia sullo stomaco, fissando lo sguardo sopra la sua bella nuora, che aveva un contegno quasi provocante questa sera.
— Scusi, signore — prese a dire Arabella freddamente — io non posso giudicare di fatti che non conosco. Ma so che i torti si fabbricano anche a furia di ragioni.
— Lei però dice di non conoscere i fatti...
— Non li conosco e non desidero nemmeno di conoscerli... — rispose con accento più risentito, fissando i suoi occhi lucenti in faccia al vecchio, che un poco li sostenne, ma poi abbassò i suoi e ritornò a passeggiare, il capo avanti, le mani dietro la vita, colle quali seguitava ad agitare con stizza nervosa un paio di guanti sciupati.
— Io dico soltanto questo, signor Maccagno, che non è segno di forza il mostrare di aver paura di un povero vecchio.
— Sa lei quel che si dice? — interrogò di nuovo il suocero, fermandosi su due piedi e fissando negli