Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, volume I/Prefazione
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PREFAZIONE
Dopo aver potuto superare li anni della giovinezza quasi senza scrivere, e aver potuto, anche poco e tardi scrivendo, rattenermi entro materiali e quasi fabrili ricerche intorno a strade ferrate e riforme legislative e tariffe e banche, a tale d’esser compianto dagli amici poeti e metafisici come uomo incurabilmente positivo, mi par quasi farmi reo di lesa specialità, se nel raccogliere in manipolo le cose fatte in questi dieci anni, mi reco tra mano un volume tutto di letterarie divagazioni. Io non dirò col difensore d’Archìa, haec studia, con ciò che segue; dirò che più d’ogni meditato propòsito può su l’uomo l’invito delle circostanze. Fattomi proprietario d’un giornale, benchè il nome che altri gli aveva destinato di Politècnico paresse ammonirmi contro ogni seduzione letteraria, tuttavia forse perchè la natura anco repressa torna alla prova, vi lasciài trapelare tra cosa e cosa qualche spiraglio pure d’altri pensieri. E tra quella scabra merce di locomotive e gasòmetri e ponti obliqui mi sfuggì alcuno quà e là di quelli argomenti eziandìo che hanno viscere.
In mia gioventù non avrèi avuto l’ànimo di commèttermi a quelle controversie che ardèvano allora sì accese intorno alla lingua e alla poesia. Prima di tutto la gioventù non era peranco così corriva allo scrivere, come oggidì. Poi, quanto più per naturale facilità d’indole io versava in amichèvole e lìbero consorzio con uòmini che seguivano opposte dottrine, tanto meno io sapeva spiegare a me stesso perchè li uni si riputàssero da questa parte, e li altri da quella. Si accaloràvano molti a ripètermi ch’egli era tempo di rinovare da capo la poesìa, e raccòglierla tutta nella tradizione del medio evo, lasciando pure che vecchio e solo, poichè così voleva, Vincenzo Monti rimbambisse nelle consuetudini della favola greca. Ma io non vedeva ove fosse questo vantato dominio della mitologia nella nostra letteratura. Sapeva ancora a mente parecchi versi della Basvilliana; e aveva inanzi al pensiero quel sublime modo di supplicio: — còrrere la terra mirando il doloroso effetto dei propri falli; — il mondo dei vivi fatto strumento di pena e di riconciliazione al mondo delli estinti. — E non mi pareva cosa dell’antichità; poichè Virgilio aveva posto altro luogo e altra natura di tormenti:
tum stridor ferri tractaeque catenae.
Nè mi pareva tampoco al tutto dantesca, ma quasi raggio spontaneo di non voluta originalità in uno scrittore il cui principale proponimento era stato l’imitazione di Dante. E quando parimenti io sentiva accagionare di cosa troppo greca e romana la tragedia d’Alfieri, e chiamarsi la gioventù agli altari di nuovi idoli del semidio Schiller e del dio Shakespear, io rimaneva smemorato raccapezzando certi passi del Saule, che mi parevano scritturati quant’altri mai. E al contrario ricorrendo da capo Shakespear trovava il sopranaturale scaturirvi tutto dalli incantesimi, e dalli spiriti della terra e del mare, e altretali reliquie dell'era cèltica; onde anche tra le fosse e i teschi di Hamleto non si leva fiammella di cristianèsimo; nè si potrebbe tampoco ritrarne di che fede il poeta si fosse. Nè il frate in Giulietta, nè il legato in Re Giovanni sono figure introdutte con devota intenzione; e forse ai giorni di Shakespear e tra le rigide opinioni dei riformatori, il teatro come profanità tollerata appena, non poteva osare di farsi interprete a solenni credenze. E parimenti io non mi persuadeva che dalla serena austerità dell'evangelio fossero derivate le adorazioni amorose dei Provenzali, o le voluttuose fate dell'Ariosto, o quel tenace proposito di vendetta onde sono i roventi tre mondi del Ghibellino. Tutta adunque quell'unità poetica da cui s'intitolavano le nuove opinioni mi pareva risolversi in estrani elementi, i quali se si accozzarono in grembo al medio evo, tengono per certo le fonti loro in più remote e oscure regioni. Laonde non intendeva come nel paragone d'antico con antico fossero tanto a vituperare le tradizioni dei nostri padri, o se meglio piace, dei nostri antecessori su questo suolo italogreco. E non vedeva perchè dovessimo farci pedissequi di pensieri e d'interessi non nostri, affettando frivola disistima di quelle generazioni che fecero le nostre città e i nostri campi, e deposero sino nei loro sepolcri le vestigia d'un vivere così umano e adorno, e seppero dare sì sublime parola a Filottete derelitto e a Didone disonorata, e imprimere sul volto della Niobe e del Laocoonte le note di sì squisito dolore. Non vedeva perchè a tanto intervallo di sècoli dovessimo levare uno sguaiato riso contro quelle arcane fantasie, che avevano pure confortati e scorti a sì nobili fatti i nostri padri. Poichè, infine, è più bello figurarci sacro l'aratro, e onorato dalla mano vittoriosa dei cònsoli e dalli armoniosi insegnamenti dei poeti, che non dato con disprezzo da strascinare ai servi della gleba feudale. E perciò non vedeva perchè dovessimo apprenderci con unico e fanatico amore a quel medio evo, il quale se fu l'occasione d'altre civiltà, fu solo un internodio nella longeva vita della nostra; e non venne per noi colle leggi, nè colle arti, nè colla gloria delle armi e dell'ingegno, ma fra una squallida bruma d'ignoranza e d'avvilimento. E per ultimo non mi pareva che si potessero senza sdegno udire li ammaestramenti che Schlegel e la Staël accompagnavano con sì arrogante vilipendio della generazione vivente in Italia, rappresentata pure con antica grandezza da Volta e da Napoleone e appena uscita da un'asprissima prova di valore e sangue. Perlochè mentre molti annunciavano in quelle antinazionali dottrine un'improvvisa rigenerazione letteraria, e poco meno d'una redenzione, io vedeva solo una nuova onda delle transitorie opinioni. Dove il coetaneo sogna e zela sùbito e vasto mutamento d'animi e di cose, talvolta il pòstero appena riconosce compiuto un passo nelle consuete vie d'una nazione; le quali essendo preordinate da lontanissime e perenni e indistruttibili cause, non si mutano per sì breve e sì tenue sforzo di pochi. Ora sono trascorsi li anni; e possiamo persuaderci che la novella dote infusa da quella riforma alla madre Italia non fu al certo la fecondità. Non apparve peranco un nuovo Goldoni che gittasse sèedici comedie in dòdici mesi, o riescisse più fedele dipintor del suo popolo. I capolavori riescirono rari e preziosi quanto per l'addietro; la potenza del vapore non entrò a sollecitare i frutti dell'ingegno. Pur troppo il mondo morale è una machina male spalmata, che si move con chiasso. E talora fa chiasso e non si move.
Perlochè in quelle poche cose che per le suddette occasioni e tentazioni del giornale mi vennero scritte, ebbi sempre l'intendimento di fare accorta la gioventù delle anguste opinioni in cui veniva di nuovo a rinchiuderla una dottrina, predicata prima a nome della più libera e larga ragione. Non era poco eccidio proscrivere d'un tratto o come mitologi o come pedanti tutti i più prossimi nostri scrittori, da Fòscolo e Monti ritornando sin oltre al Tasso e nel Parini, la poesia fosse intesa ad invogliare li uomini delle alte cose, e distoglierli dalle basse e indegne. Il qual onorato proponimento, e quasi sacerdozio di poesia, non poteva del tutto dirsi smarrito per qualche estrinseca superstizione di forme e qualche soverchio d'arte, o per qualche ornamento antiquato e qualche vena di colore mitologico, trascorsa in loro dai più antichi pittori della natura, ch'erano infine i poeti dei nostri padri. Che se la livida ombra di Lessing non ci assentiva di dirci loro figli, potevamo certamente dirci loro eredi e successori, vivendo pure in riva alli stessi mari e appiè delli stessi monti, e mietendo i loro campi, e murando le case nostre entro le loro città. S'è giusto voto che la gioventù conosca e pregi la rabbuffata bellezza di Shakespear, e ben di cuore lo vorremmo, non è bello incitarla a sconoscere e dispregiare la decorosa bellezza di Virgilio e di Sòfocle e di Racine. Si vorrebbe che la presente generazione, anzichè aver mutato unicamente il modo d'essere imitatrice e servile, trapassando solo da uno ad altro cerchiello d'ammirazioni e d'ossequii, stendesse la vista generosa su l'ampio orizonte, salutando con saggio amore ciò che di bello ci serbano tutti i secoli e tutti i popoli, non vituperando l'occidente per l'oriente, nè il mezzogiorno pel settentrione. E forse sono più intime che altri non creda, le affinità tra le leggende raccolte tremila anni addietro nell'Odissea, e quelle dell'estremo settentrione, verseggiate nei nostri giorni alla Svezia da Tegnèr. E nelle tragedie istoriche di Shakespear risuona non so quale accento omerico, che sembra quasi ripetere col rauco eco di più scabra favella le contese d'Agamennone e d'Achille. E forse fu per ciò che mentre i meno dotti, quelli voglio dire che si giuravano al vessillo di Shakespear o a quello d'Omero senza quasi conoscerli e senza poterli compitare, movevano sì grandi dispute di ragione poetica, Foscolo e Byron, ch'erano poeti quant'altri, e oltreciò robusti intenditori di lingue e di letterature, non posero parola in quelle ambiziose controversie.
Poco diversamente è a pensarsi delle opinioni intorno al bello dell'arte. Poichè a forza di seguire li avvolgimenti metafisici che il sentimento nazionale suggerì a chi non aveva antichità da vantare e da difendere, siamo venuti a disamorarci della parte più venerabile del nostro patrimonio, e a scompigliare tutti i nostri giudicii anche intorno all'arte moderna. Non è poco l'aver conchiuso che bizantino è meglio che ateniese; l'aver conchiuso che la seconda maniera di Raffaello non vale la prima; e che prima e seconda, e tutto Raffaello, nonchè tutto Michelangelo, sono corruttela e perdizione a petto del Perugino, e Dio ci aiuti, anche a petto di Cimabue. E non è poca tirannide dar di vandalico martello su la più parte delle opere di Canova e relegare in eterno il libero ingegno entro un solo fra i mille campi dell'istoria e dell'immaginazione e dell'inesausta natura. A siffatte conseguenze conducono quelle dottrine che appuntano sempre nelle cose un solo lato alla volta, e non ne curano l'intero e pieno concetto. Nè da codesto labirinto di barbarica sapienza altro uscì daddovero finora che il disprezzo dei monumenti, il ritorno della lue barocca, e il turpe spettacolo dell'opulenza infervorata a depravare la naturale eleganza del nostro popolo.
Nel fatto poi della lingua, la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l'intendimento e l'arte della lingua agli indotti; ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d'Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. S'intende un'angusta e inutile popolarità d'origine, non la vasta e benefica popolarità dell'uso e dei frutti. E in sustanza ci s'ingiunge d'accettar nuovamente a fastidiosa consigliera d'ogni scrivere la Crusca. E anzi il rifiuto medesimo della Crusca viene da bramosi e sottili spigolatori raccolto e tessuto in certe pagine, le quali ci suonano affatto forestiere; e ben piuttosto che di letteratura popolare sono lavori di lingua più dotta e più morta che non fosse testè la latina; e ci rammentano troppo quelle tarsie che faceva il Segato coi brani dei cadaveri.
A codeste raffinatezze che fanno retrocedere la pubblica ragione, si oppongono quelle dottrine linguistiche che rischiarano d'una medesima luce le questioni contemporanee e le più remote origini dell'Europa, e mirano a far della lingua una libera e lucida interprete delle arti utili e della viva scienza, sciolta egualmente dall'affettazione dei modi cruschevoli e dei vocaboli greci. Che se paresse a taluno che non convenga movere da sì lontane e solenni cose per calare a minute questioni di lingua e d'ortografia, gli si potrebbe rispondere che la ragione, anche aspirando a più alte conquiste, non deve spregiare d'esercitarsi in qualsiasi più circoscritto e più povero campo.
A chi ami poi considerar le cose solo dal lato ove sono di maggior momento, farò preghiera di voler considerare quali verità scaturiscano dai nostri principii di linguistica. - L'origine asiatica delle nazioni e delle lingue europee si deve intendere in modo che i singoli loro elementi siano provenuti dall'Asia, ma le loro positive combinazioni siano accadute su la terra d'Europa. Le irruzioni dei popoli in massa e colle loro presenti lingue, come il vulgo delli scrittori intende, non hanno fondamento istorico. - I dialetti e le pronuncie provinciali sono cose di tradizione, indipendenti affatto dai climi e dai luoghi, e preziose fila per salire alle prische origini. - Quei dialetti privilegiati , a cui si modellano le lingue nazionali, per una parte loro rimangono sempre dialetti; sicchè vano è lo sforzo di farli adottare per intero alle nazioni.
Le altre ricerche istoriche mosse in questo volume, si faranno più chiare nel seguente.