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PREFAZIONE IX

una dottrina, predicata prima a nome della più libera e larga ragione. Non era poco eccidio proscrivere d'un tratto o come mitologi o come pedanti tutti i più prossimi nostri scrittori, da Fòscolo e Monti ritornando sin oltre al Tasso e nel Parini, la poesia fosse intesa ad invogliare li uomini delle alte cose, e distoglierli dalle basse e indegne. Il qual onorato proponimento, e quasi sacerdozio di poesia, non poteva del tutto dirsi smarrito per qualche estrinseca superstizione di forme e qualche soverchio d'arte, o per qualche ornamento antiquato e qualche vena di colore mitologico, trascorsa in loro dai più antichi pittori della natura, ch'erano infine i poeti dei nostri padri. Che se la livida ombra di Lessing non ci assentiva di dirci loro figli, potevamo certamente dirci loro eredi e successori, vivendo pure in riva alli stessi mari e appiè delli stessi monti, e mietendo i loro campi, e murando le case nostre entro le loro città. S'è giusto voto che la gioventù conosca e pregi la rabbuffata bellezza di Shakespear, e ben di cuore lo vorremmo, non è bello incitarla a sconoscere e dispregiare la decorosa bellezza di Virgilio e di Sòfocle e di Racine. Si vorrebbe che la presente generazione, anzichè aver mutato unicamente il modo d'essere imitatrice e servile, trapassando solo da uno ad altro cerchiello d'ammirazioni e d'ossequii, stendesse la vista generosa su l'ampio orizonte, salutando con saggio amore ciò che di bello ci serbano tutti i secoli e tutti i popoli, non vituperando l'occidente per l'oriente, nè il mezzogiorno pel settentrione. E forse sono più intime che altri non creda, le affinità tra le leggende raccolte tremila anni addietro nell'Odissea, e quelle dell'estremo settentrione, verseggiate nei nostri giorni alla Svezia da Tegnèr. E nelle tragedie istoriche di Shakespear risuona non so quale accento omerico, che sembra quasi ripetere col rauco eco di più scabra favella le contese d'Agamennone e d'Achille.