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VI PREFAZIONE

glio pure d’altri pensieri. E tra quella scabra merce di locomotive e gasòmetri e ponti obliqui mi sfuggì alcuno quà e là di quelli argomenti eziandìo che hanno viscere.

In mia gioventù non avrèi avuto l’ànimo di commèttermi a quelle controversie che ardèvano allora sì accese intorno alla lingua e alla poesia. Prima di tutto la gioventù non era peranco così corriva allo scrivere, come oggidì. Poi, quanto più per naturale facilità d’indole io versava in amichèvole e lìbero consorzio con uòmini che seguivano opposte dottrine, tanto meno io sapeva spiegare a me stesso perchè li uni si riputàssero da questa parte, e li altri da quella. Si accaloràvano molti a ripètermi ch’egli era tempo di rinovare da capo la poesìa, e raccòglierla tutta nella tradizione del medio evo, lasciando pure che vecchio e solo, poichè così voleva, Vincenzo Monti rimbambisse nelle consuetudini della favola greca. Ma io non vedeva ove fosse questo vantato dominio della mitologia nella nostra letteratura. Sapeva ancora a mente parecchi versi della Basvilliana; e aveva inanzi al pensiero quel sublime modo di supplicio: — còrrere la terra mirando il doloroso effetto dei propri falli; — il mondo dei vivi fatto strumento di pena e di riconciliazione al mondo delli estinti. — E non mi pareva cosa dell’antichità; poichè Virgilio aveva posto altro luogo e altra natura di tormenti:

tum stridor ferri tractaeque catenae.


Nè mi pareva tampoco al tutto dantesca, ma quasi raggio spontaneo di non voluta originalità in uno scrittore il cui principale proponimento era stato l’imitazione di Dante. E quando parimenti io sentiva accagionare di cosa troppo greca e romana la tragedia d’Alfieri, e chiamarsi la gioventù agli altari di nuovi idoli del semidio Schiller e del dio Shakespear, io rimaneva smemorato raccapezzando certi passi del Saule, che mi parevano scritturati quant’al-