Alcuni discorsi sulla botanica/II/Gli alberi

Gli alberi

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I II - La botanica appo gli antichi
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GLI ALBERI




Gli alberi, quando ne piaccia di pigliare questo nome in tutta quell’ampiezza, che l’uso della lingua gli assegna, ci porgono tale un complesso di piante, che il più ricco, il più vario non si potrebbe immaginare. Però l’attento botanico, che punto non si arresta alle prime apparenze ingannevoli, quanto più sottilmente ne viene ricercando i modi, l’abito, le qualità più speciali e costanti, è condotto di necessità a doverne fare non una, ma molte classi o famiglie che si chiamino. Le notevoli differenze pertanto, che ci offrono nella struttura del fiore, e nelle altre parti, che da questo procedono, voglio dire nel frutto e nel seme, recarono i sistematici a scompartirli quali nell’uno, quali nell’altro degli ordini diversi, onde si compone il regno vegetale, non senza meraviglia dei meno intelligenti, ai quali non par vero che accanto alle più umili pianticelle abbiansi a trovare taluni di codesti giganti della natura, che a giudicarne dal primo aspetto niente hanno che fare con quelle. Tuttavia per quante differenze rilevanti abbia saputo scoprire la scienza [p. 2 modifica]tra l’una e l’altra specie di alberi, egli è non pertanto indubitabile, che ci corrono tra loro tali somiglianze, e analogie si fatte, che non pur possibile, ma utile ancora torna studiarli dapprima tutti insieme, e ridurli tutti ad un solo e vasto concetto generale. Considerato di tal maniera il gruppo degli alberi, come quello che in se comprende le forme più belle, più robuste, più durevoli del vastissimo regno di Flora, non può non essere riputato degno di fissare in ispecial modo l’attenzione del naturalista. Imperocchè o si guardi ai vantaggi senza numero, che gli alberi arrecano ai tanti bisogni dell’umano consorzio, o si guardi all’importanza grandissima, che hanno nella generale economia della natura, o solo alla bellezza e magnificenza delle forme, alla durata portentosa, di che molti fra loro hanno vanto, qual’altro ordine di piante si troverebbe, che possa comechessia venire con essi al paragone? Qual’altro, che si meriti al pari di esso la nostra ammirazione, e sui per dire la simpatia, e l’affetto nostro? Arroge: la storia di certi alberi cammina per modo di pari passo con quella dell’uomo, che non se ne può separare senza oscurarla. Per essa si ricordano tali e tanti beneficii, che gli alberi recarono all’uomo sotto le più diverse plaghe, che non è meraviglia, se molti popoli nella loro riconoscenza giunsero perfino a tributare ai più utili e più belli di essi, quegli onori e quel culto religioso, che l’antichità pagana soleva rendere [p. 3 modifica]agli Dei, ed agli Eroi creduti benefattori del genere umano.

Laonde dopo avere minutamente studiata la mirabile organizzazione di questi esseri al lume della più severa scienza, ho divisato di parlarvi oggi delle particolari attinenze, che essi hanno con noi, inquantochè mirabilmente concorrono a soddisfare le necessità, ad accrescere i piaceri e le delizie della vita. Adoperandomi a farvi conoscere a parte a parte i grandi servigi, che gli alberi prestano nei nostri materiali bisogni, non altrimenti, che in quelli di gran lunga superiori dello spirito o morali, spero potervi non pur trattenere per breve ora piacevolmente, ma eziandio non senza qualche profitto per rispetto alla scienza.


Per grandi e varii che si vogliano i benefizj che traggonsi da altri ordini di piante, non sono essi a gran pezza da paragonarsi coll’utile e colle commodità, che ci forniscono gli alberi.

Le più antiche tradizioni dei popoli ci rappresentano gli uomini viventi quasi esclusivamente dei frutti di essi. E sebbene nei tempi che seguirono, gli alberi abbiano dovuto cedere ad umili pianticelle che il medesimo anno vede nascere e perire, (le gramigne) il vanto di apprestare il principale alimento ai mille milioni di mortali, che coprono la superficie della terra, ciò non toglie, che alcuni popoli continuano a nutrirsi oggigiorno ancora di [p. 4 modifica]preferenza coi frutti e colle sostanze, che dagli alberi ci sono porti. Basta in certe parti delle Indie la Palma del coco ai pochi bisogni degli uomini, e i naturali delle isole del mare del Sud si alimentano quasi unicamente dei frutti dell’albero del Pane, come della farina del Sago gli abitatori delle isole Molucche. I datteri e i fichi formano buona parte del nutrimento dei Persiani, degli Egiziani, degli abitatori della Morea, di quelli dell’Arcipelago greco, e della Barberia, nè più ghiotto cibo delle castagne soccorre ai montanari d’Italia e di Francia. Sulle coste settentrionali dell’Africa, e in qualche provincia meridionale della Spagna e del Portogallo, i poverelli in luogo di pane mangiano le ghiande di alcune specie di quercie gentili, che fanno nei loro paesi, principalmente della Quercus Ballota, colle quali macinale a farina, sebbene si abbia un pane tetro e duro, usano nelle carestie sovvenire ai bisogno anche le persone agiate. Che diremo poi di quella infinita quantità di frutti pregiati tanto pel sapore dilicato, e appetitoso delle carni e dei sughi, che ci forniscono gli alberi addomesticati? Ognuno sa, come le frutta si ammaniscono in compagnia delle altre vivande, che servono al nutrimento degli uomini, ora schiette, ora condite collo zucchero, ovvero colte e preparate in cento altri modi. Arroge, come nessuno può ignorare, hannovi assai frutti, che si trasmutano in spiritose bevande, quali in vino vogliam dire, quali in [p. 5 modifica]sidro e cervogia, quali in aceto, altri che danno a spremere olii preziosi. Ma quando volessi descrivere ad uno ad uno i varii ajuti, che ci porgono le frutta degli alberi, sarebbe miracolo, pur tacendo del resto, che di questo solo dicessi degnamente. II perchè senza più passo a discorrere della utilità, che ricavasi anche da tali parti che generalmente sono meno apprezzate. E dirò in prima delle foglie. Fino a tanto che le rimangono queste attaccate alla pianta, oltre all’esserne un ornamento vaghissimo, sono cortesi agli uomini e agli animali di care ombre ospitali. «Chi non si meraviglierà, dice Plinio, che solo per averne l’ombra, di lontani paesi sieno stati condotti i platani in Italia?» Cadute che sono avvizzite e secche al suolo, non restano di giovare tuttavia in mille guise, vuoi mantenendo intorno alle sementi, che per entro vi annidano, quel grado di umidità e di tepore, che le ajuta a germinare, vuoi porgendo ricovero e alimento ad una moltitudine senza numero di animaletti, vuoi fasciando le barbe delle radici a guardarle dai rigori del verno. Anche allora che macere si disfanno riescono di grande profitto, perchè colle materie, che rendono alla terra, quasi a ricambiarla degli umori di che li nudriva, formano il terriccio vegetale, fomite e alimento a mille generazioni di piante. Nè qui finiscono ancora i benefizii, che da esse abbiamo. Mentre nelle Indie l’industria dell’uomo delle larghe foglie delle Palme bellamente si giova a coprire come di [p. 6 modifica]elegante tettoja le umili case costrutte in legno, di esse a scrivervi sopra, e a farne fortissime funi; delle foglie d’alberi nostrali si valgono i nostri contadini ad empire sacconi, a farne strame, e per accender fuoco.

Non meno utili delle foglie sono i semi. Questi, dopo di averci prestato il rilevante servizio di perpetuare la specie, portano molti altri vantaggi ancora. Parecchi di essi offrono delizioso cibo agli uomini, e sono l’ordinario pasto degli animali. Con alcuni si preparano bevande care per aromatica fragranza, da altri spremesi olio, che serve quì di condimento, là di lume, dove di farmaco all’inferma umanità, dove a materia di gloria pel pittore, che vuole immortalare le sue tele. Innumerevoli poi sono le sementi, che giovano agli uomini in qualche rimedio medicinale, quali per nominarne alcune la noce moscata, il Caffè, il Cacao, il noce del Coco, dell’Areca, e va dicendo.

Anche le scorze vengono profittevoli a molti usi. Perocchè altre di esse trovansi utilissime nella concia delle pelli a rammorbidirle, e renderle impenetrabili all’acqua, altre sono aromatiche, altre medicinali, altre sì fatte, che ti danno e tele, e drappi, e perfino dei sottilissimi manichini. Molto singolare per tale riguardo è il Lagetto o legno trina (Lagetta lintearia) che è un’arboscello, il quale cresce nelle montagne mediterranee della Giamaica. Componesi la sua scorza interna, o libro che si voglia dire, di 12 o 14 [p. 7 modifica]buccie, facili a separarsi l’una dall’altra. Quantunque molto tra loro diverse per grossezza e tenacità di fibre, tutte sono però forti per modo, che si possono lavare e imbiancare. Di che nasce che si prestino mirabilmente a varii usi secondo la varia natura loro, quali a farne panni, quali tele, quali ancora tessuti di maggiore finezza. Di tali buccie le più vicine alla corteccia forniscono un panno grossolano buono per abiti, mentre le interne ti danno una specie di tela, che a farne lenzuola e camicie può gareggiare colla canape e col lino. Le buccie poi dei ramoscelli più giovani si compongono di fibre così sottili e pieghevoli, che vengono molto acconce a prepararne trine, merletti e veli finissimi. Nè meno vantaggiosa è la scorza del moro da carta (Broussonetia papyrifera). Con essa gli abitatori di Otahiti, e di altre isole del Pacifico preparano una sorta di tela non tessuta che usano a ricoprirsi; laddove nel Giappone e in tutte le Indie se ne valgono per la fabbricazione della carta. Chi poi ignora l’esteso uso che nei paesi di montagna fanno del Tiglio comune per la fabbricazione delle corde, ed anche di certi cappelli leggieri somiglianti a quelli di paglia? Da alcuni alberi poi, dove tu ne incida in giro la corteccia, ovvero la scalfisca, colano liquori zuccherini, gomme, ragie, balsami ed altre tali sostanze colle quali si compongono vernici, tinture, profumi, farmachi, e bevande spiritose. Per tal modo appunto l’abete, [p. 8 modifica]il larice, il cedro, il terebinto, il lentisco ci procacciano la colofonia, la trementina, la cedria, il Terebinto, il mastice; per tal modo dalla Siphonia elastica del Brasile, e da varie specie di fichi si ottiene quella gomma elastica, che nella sua meravigliosa pieghevolezza a tanti e sì diversi usi si presta. Stupendo trovato in vero, oltre il quale non pareva si potesse andare, e che pure in questi ultimi anni fu dalla scienza di gran lunga superato. Ognuno vede che io voglio qui ricordare quella sostanza fatta oggimai sì popolare sotto il nome di guttaperca, preziosissimo sugo, che ci è fornito da un bell’albero, che cresce nei monti boscosi delle isolette, che fanno corona alla penisola di Malacca nell’Asia (Isonandra gutta). Le mille applicazioni, l’una più utile dell’altra, che l’arte seppe farne in sì breve tempo a pro’ dell’uomo, vanno incontrastabilmente fra le più belle glorie della scienza, che noi professiamo, e basterebbero sole, il dirò pure senza tema che altri possa contradirmi, a sbugiardare e confondere per sempre i troppo leggieri o sfrontati, che gli studj botanici vilipendono, quasi ciurmeria o perditempo indegno d’uomo grave.

A molti usi servono pure le radici principalmente poi per opere da falegname, e per far tinte.

Ma servigi assai più rilevanti che da ogni altra parte della pianta si hanno dal suo legno. Questa materia solida a un tempo e tenace, leggera [p. 9 modifica]ed elastica viene tratta a infiniti usi nelle arti. Chi non conosce gli usi delle vermene, di que’ giovani ramoscelli vo’ dire, che attorcigliati diventano maneggevoli al par di una corda, sicchè tu puoi farne ritorte da legar che più ti piaccia? Nè alcuno di voi può ignorare l’uso dei più grossi, meno flessibili rami del nocciolo, del castagno, della bedolla, del vinco, del salcio, che spaccati da imo a sommo servono al bottajo per farne cerchi da ricerchiarne botti, tinozze, bigonce, mastelli, e al panierajo per tesserne canestri, zane, sporte, ceste, panieri qualche volta mirabili per eleganza, d’ogni forma e grandezza e finitezza di lavoro! Chi è poi, che non sappia come il legno segato in tavole, squadrato, sfesso, frastagliato, assottigliato, piallato, piegato a forza di fuoco, nelle mani del tornitore, dello stipettajo, dell’ebanista, del carrozzajo, del carpentiere, dello stacciajo, degli staderaj e de’ fabbricatori di musicali stromenti s’acconci ai bisogni, al diletto dell’uomo in quella guisa che più ne talenta? «Con l’albero noi solchiamo i mari e cerchiamo lontane terre; con gli alberi edifichiamo i tetti; degli alberi si fecero le statue degli Dei (Plinio).» Tra i quali pregi del legno passa però innanzi ad ogni altro per l’importanza quello di eccitare e mantenere il fuoco per dare a che che sia quel grado di calore, che si richiede per l’uso al quale vuolsi adoperare. E ciò basti quanto alle relazioni che hanno gli alberi colla vita e i bisogni dell’uomo.

[p. 10 modifica]Ma vedi beneficio ancor più mirabile, che meglio accenna la infinita provvidenza, poichè e gli uomini abbraccia, e la natura tutta quanta collegandosi colle leggi cosmiche. Schermo poderoso contro il rigor degli aquiloni gli alberi rendono meno inclemente il Cielo delle terre settentrionali, servendo di riparo al freddo; arrestano le nubi e le sciolgono in acqua mercè l’attrazione delle foglie, dando così origine alle fontane ed ai ruscelli. Coll’intreccio delle radici rendono consistente il terreno sciolto e sabbionoso, sicchè vi possano allignare più dilicate piante. Dalle loro parti verdeggianti esalano nuovamente nell’atmosfera le sostanze gazose necessarie alla vita degli esseri organizzati, i quali, perchè l’uno all’altro non iscemi un’alimento da troppi disputato, le più volte si eleggono a così dire quello appunto che dagli altri è respinto, per guisa che le molteplici famiglie dei viventi vivono sullo stesso suolo in bella fratellanza.

E tanto basti a dimostrare l’utilità grande degli alberi. Rimane che si ragioni di quelle altre loro qualità, che mentre rapiscono a maraviglia l’immaginazione del poeta, porgono argomento al filosofo di meditare. E qui primeggiano per mio credere quelle due, onde gli alberi vanno distinti da ogni altro gruppo di vegetali, vo’ dire la quasi incredibile longevità, e la grossezza smisurata cui possono arrivare.

In tutti i gruppi di piante arboree, si trovano, [p. 11 modifica]dice Humboldt, esempii di individui di smisurata grandezza, e dell’età di parecchie centinaja, anzi migliaja d’anni. Ricorderò alcuni di questi mirabili monumenti naturali incominciando da cose nostre. Sul monte Etna in Sicilia esiste forse tuttora un Castagno di colossali dimensioni e di lunghissima età il Castagno dei cento cavalli. È tradizione in quell’isola, che venuta Giovanna d’Arragona a visitare l’Etna, sorpresa dal nembo si riparasse col suo seguito di cento Cavalieri sotto questo albero, il quale colla fronzuta sua chioma bastò a schermirli tutti quanti dalla pioggia. Di poco per gigantesca mole cede ad esso il vanto la Dracena delle Canarie descritta dall’Humboldt. Il suo tronco roso dal tempo prende nella parte più larga ben 80 piedi all’ingiro, tantochè vi si potè scavare una cappella, intorno alla quale il minuto popolo si raccoglie per fare preghiere alla sera. Colla Dracena delle Canarie gareggiano il cipresso Gaggia che adombra il Cimitero di S.ta Maria di Jesla nella Provincia di Oazaca al Messico. Cortes nella Relazione a Carlo V sulla conquista di quel paese lo ricorda per la maggior meraviglia da lui veduta, e dice, che sotto l’ombra di questo enorme vegetabile pigliò riposo il suo piccolo esercito. Nè meno mirabile per colossali proporzioni è una conifera scoperta non sono molti anni alla nuova California, che i botanici hanno chiamata Wellingtonia (Sequoja) gigantea, e colla quale è bene che noi ci [p. 12 modifica]intratteniamo alcun poco. — Seguendo a ritroso una delle correnti dello Stanislas, dove la Serra Nevada a 5 leghe da Murphy nella Contea di Calaveras forma una svolta profonda, s’innalzano in piccolo tratto di terreno da ben 90 piante di questa Wellingtonia di tanta sterminata mole, che d’innanzi a sì strani giganti estatico il riguardante, e come impaurito si arresta. I loro fusti perfettamente cilindrici, e diritti slanciandosi nudi di rami a più di 200 piedi di altezza spiccano a guisa di colonnato dal denso fogliame delle piante circostanti (anch’esse altissime) in quella medesima maniera che tu vedi lungo i nostri prati e fossati il pioppo d’Italia signoreggiare da Sovrano colla piramidale sua chioma sui bassi tronchi dei salici tenuti a capitozza. Il diligente naturalista Remy testimonio oculare volle pure per nostra istruzione e meraviglia misurare alcuni di codesti alberi, che abbattuti giacevano sul suolo distesi; e noi ne approfittiamo assai volontieri, poichè nulla di più eloquente delle cifre usate a tempo. Pertanto il Bigtree, ossia grand’albero (così si chiama il più considerevole, essendo piaciuto al proprietario del luogo porre ad ognuno di essi un nome) sopra una circonferenza di 95 piedi si distende per 300 in lunghezza, per guisa che sull’enorme tronco, fu potuta costruire una casetta con giuoco di birilli. Il gruppo di famiglia si compone di un’ammasso di 26 alberi tra i quali [p. 13 modifica]primeggia per colossali dimensioni quello che dicono il Padre. Gira esso non meno di 11O piedi, e tuttochè nel cadere siasi scapezzato, prende ancora 320 piedi per lo longo. Il perchè avvisiamo, che non si discosterebbe dal vero chi facesse l’albero nella sua interezza alto ben 425 piedi, con che avremmo un’altezza che di un buon terzo eccede la guglia del Duomo di Milano. La Madre, che figura seconda in quel gruppo, volge 95 piedi, e si sublima 327 dal suolo. Finalmente per non andare in infinito, una nicchia, che si sprofonda nel tronco incavato della Capanna del Zio Tom (tale nome porta un’altro di quegli alberi giganteschi), è di tanta capacità, che 25 persone vi posson0 stare a tutt’agio sedute.

Quale può essere l’età di questi colossi arborei? La scienza non ha che dati assai incerti per rintracciarne l’origine, la quale sembra risalire ad un’epoca tanto remota, quanto la formazione della crosta terrena di quel continente.

E qui siamo naturalmente condotti a dire dell’età storicamente comprovata di alcuni alberi non meno celebri per la prodigiosa longevità, che per le dimensioni colossali. A giudicare dalla grossezza a cui può arrivare la quercia, che è senza contrasto il più robusto degli alberi d’Europa, non è difficile dimostrare, che qualche individuo tocchi 10 o 12 secoli di età. Narra Plinio come a suoi tempi sorgesse tuttavia sul vaticano un Leccio più [p. 14 modifica]antico di Roma, nel quale una iscrizione etrusca in caratteri di rame indicava fino da quai remoti tempi fosse stato quel leccio oggetto della pubblica venerazione. Tassi (Taxus baccata) di 2000 e perfino di 3000 anni si trovano anche oggidì alle isole Brittaniche. E Labillardière ne’ suoi viaggi in Siria propende a credere che alcuni cedri da lui veduti sul Libano potessero ben essere dei tempi di Salomone. Al castagno dell’Etna, che ho menzionato più sopra, danno i botanici da 3600 ai 4000 anni. Nella zona torrida intere foreste di Cesalpinie, di Swietenie, di Imenee sono per avventura giusta la felice espressione di Humboldt monumenti di più migliaja d’anni. Ma su quanti alberi produce la terra per longevità ha la palma incontrastata quel Baobab del Senegal (Adansonia digitata) chiamato per antonomasia l’albero dei mille anni. Basti il dire che Adanson calcolò che alcuni Baobab da lui veduti non potevano contar meno di 5200 anni di vita, cosa da rimanerne confusa e spaventata l’immaginazione più ardita, dappoichè non dirò la guerra di Troja, e le Piramidi d’Egitto, ma tutti ancora gli Imperi che si fondarono in Oriente sarebbero di lungo posteriori al primo sorgere di questi Titani della vegetazione.

E sarà chi stupisca veggendo come il carattere monumentale di esseri così giganteschi eccitasse mai sempre negli uomini un sentimento profondo di rispetto, una specie di culto religioso? La [p. 15 modifica]Dracena di Orotava, il Cipresso Gaggia di Oazaca, il Baobab di Grand-Galarques erano sacri ai naturali del paese, come sacri presso i Greci e i Romani l’Olmo di Efeso, l’Ulivo di Atene, e il Platano della Licia, come lo è anche oggidì ai buddisti del Ceilan il Fico d’India di Anourahdepoura.

Se vi fate a considerare le tante cosmogenie che la fantasia degli orientali creò alterando, confondendo le tradizioni primitive, troverete che alle origini, ai destini della umana schiatta sempre si collega la storia di un qualche albero fatale. Eccovi nella genesi l’albero della Scienza del bene e del male «d’ogni altro albero gusti l’uomo liberamente, questo non assaggi, se nò morrà». Secondo un mito dei Persiani nel Zendavesta Dio ha mandato a Zoroastro un sottile Cipresso dal Paradiso, perchè fosse piantato d’innanzi la porta del tempio del fuoco in Caehemyr, dicendo: «per di là essere la strada al Paradiso». Nell’Eden di Maometto trovasi l’albero Tuba. All’ombra de’ suoi rami, favoleggia l’araba leggenda, il cavaliere può cavalcare a galoppo ben 70 anni. Tra le sue frondi annidano augelli grossi quanto i camelli, colle foglie ch’ei lascia cadere gli abitatori del Paradiso si fanno ogni sorta di abbigliamenti; quando spira il vento fra le sue frondi n’escono armoniosi suoni a rallegrare i convitti, e le splendide veglie degli eletti. Tutti gli antichi libri degli Orientali [p. 16 modifica]specialmente delle schiatte semitiche sono pieni di lodi degli alberi. Dagli alberi i prosatori e poeti loro tolgono le più belle immagini, i più acconci paragoni; degli alberi si valgono a simboleggiare gli affetti più puri, i sentimenti più soavi dell’animo. Al bel fusto della Palma leggermente ondeggiante, quando è commossa dal vento, i Poeti arabi paragonano spesso la persona e il portamento delle loro innamorate. I decantati Cedri del Libano sono per gli scrittori dei popolo Ebreo simbolo della potenza, della gloria. Da tempo immemorabile per tutto l’Oriente il Fico è l’immagine più popolare della innocente e beata vita patriarcale, il Gelso dell’industria operosa. E appunto dall’Oriente è a noi venuto il pio costume di ombreggiare col Cipresso le vie ai cimiteri, col Salice dai rami piangenti le tombe dei cari estinti. Ma anche in questo i Greci come in ogni altra cosa, che tocchi il bello, a cui li disponeva sì maravigliosamente la natura dell’ingegno loro, per vaghezza di comparazioni, per leggiadria di colori passarono innanzi ad ogni altro popolo della antichità pagana. Non pochi alberi erano nelle credenze di quella nazione gentilmente immaginosa posti sotto la speciale tutela di questo o di quel Dio, a Lui sacri e devoti. Chi non sa che il Pino era dai Greci dedicato a Cibele, il Pomo granato a Mercurio, il Noce e la Quercia a Giove, il Lauro ad Apolline, l’Olivo a Minerva, il Mirto a Venere, ed il Pioppo ad Ercole? [p. 17 modifica]Era ben naturale adunque, che i Greci dapprima, e poscia ad esempio di essi i Romani traessero gli alberi ad aver parte in tutte le relazioni della vita pubblica e privata nelle più solenni circostanze. In Grecia gli egregi cittadini si coronavano di pieghevoli ramiceili di quercia; d’alloro si fregiavano le chiome del Poeta e del Monarca, onde il Petrarca l’ebbe a dire «Onor d’Imperatori e di Poeti», di Pioppo si coronavano gli atleti, mentre le grazie ivano liete del Mirto. I carri trionfali, e i trofei avevano tutto all’intorno gli ornamenti di frondi d’alloro. L’Oleandro si donava al vincitore nei giuochi olimpici, la Palma al vincitore sul campo di battaglia; simbolo di pace l’Olivo sta nella mano degli Ambasciatori e in quella dei supplicanti. Degli alberi ancora si giovarono Greci e Romani a interpretare prodigi; degli alberi a spiegare i sogni; dagli alberi traevano responsi ed oracoli venerati. E a chi non sono note le vocali quercie di Dodona, l’oracolo pelasgico più famoso innanzi che gli Elleni si fossero di tutta Grecia impadroniti?

Isolati e aggruppati gli alberi erano ad un modo oggetto di venerazione e di ossequio, quelli come simbolo di solitaria grandezza, questi come caro soggiorno dei Numi,


Haec fuere numinum templa, (Plinio.)


e Virgilio cantava;

Habitarunt Di quoque sylvas.


Giove, Apollo, Minerva, Venere, Cupido, Bacco [p. 18 modifica]avevano i loro boschi, tagliare i quali era empia cosa. Presso gli Ateniesi ci andava giusta le leggi loro pena il capo a chi avesse abbattuto un’albero, reciso un ramo in un boschetto sacro agli Eroi; e gli Argivi credettero castigo degli Dei la pazzia e il suicidio di Cleomene Re di Sparla per aver egli fatto appiccar fuoco al sacro bosco di Argos, dove un drappello dei loro sbaragliato si riparava. Nè meno sacri e venerandi furono gli alberi e le foreste ai rozzi popoli del Settentrione. Avevano i Galli e i Germani sacra fra gli alberi principalmente la quercia, al piede della quale celebravano i sacrificii e le arcane cerimonie del loro culto, e dopo la quercia il sambuco, e il visco parassito, = altri tempi, altre are = come tutte medesimamente le genti scandinave non ebbero sulle prime altri tempj che le boscaglie, i tronchi e le cavità degli alberi annosi. Gli Dei di sì fatte nazioni amavano nascondersi agli occhi della moltitudine nel più fitto delle selve, misteriosamente là, dove non era permesso ad uomo porre il piede, fuori che ai Druidi o Sacerdoti per attendere alla preghiera. E valga il vero «qual luogo più acconcio (dice il celebre autore dello spettacolo della natura, il sig. Planche) qual luogo più acconcio troveresti per elevare i pensieri verso il sommo fattore delle cose di una oscura antichissima foresta! Il cupo silenzio che regna là entro, la luce del giorno adombrata da folta verzura, la maestà e la bellezza di tanti [p. 19 modifica]alberi secolari ci invitano al raccoglimento e alla meditazione. Contemplando quelle forme colossali cotanto superiori alla nostra piccolezza, noi non possiamo non domandare a noi medesimi, chi ha osato concepire opere sì vaste, chi effettuarle? Chi ha seminati quegli alberi, la cui superba cima tocca le nubi? Chi li fece abbarbicare sì fortemente, che vagliano a sostenersi per lo decorso di più e più secoli contro l’impeto degli aquiloni? Chi apre le catarrate del cielo per farne scaturire le rugiade e le pioggie occorrenti a coronarli d’anno in anno di novella verzura e renderli per così dire immortali? Chi se non l’ineffabile divina sapienza creatrice e conservatrice dell’Universo e di tuttociò che in esso contiensi?» — Alla vista di questi impassibili testimonii delle età che furono, che sopravvissero invitti a quei terribili rivolgimenti, onde tanti imperi crollarono, tanti sorsero sulle loro rovine, non può fare l’uomo, se pure il suo cuore non è chiuso ad ogni nobile sentimento, ch’ei non innalzi un’inno di ringraziamento e di lode a Colui, d’onde gli vennero tanti e sì preziosi tesori.