Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto terzo

Atto terzo

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Euripide - Alceste Prima (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (1797)
Atto terzo
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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Ercole, Coro.

Ercole   Ospiti, o voi di Fere abitatori

ditemi, Adméto entro sua reggia or stassi?
Coro Egli or vi sta, del buon Feréo l’erede.
Ma qual cagion te spinge, Ercole, a questa
Tessala Fere?
Ercole   Alto travaglio, a cui
il Tirinzio Euristéo mandami.
Coro   E dove?
Qual t’impose ei peregrinar novello?
Ercole L’aggiogata quadriga conquistargli
deggio del Trace Díomede.
Coro   Ahi, come
ciò far potresti? non ti è noto ei forse?
Ercole Noto ei non m’è: vengo ai Bistonii campi
or per la prima volta.
Coro   Aver non puoi
quei destrier, senza pugna.
Ercole   Eppur, scevrarmi
di tai fatiche, io nol potea.
Coro   Tu dunque,
o tornerai dopo aver morto il Trace,
o quívi morto da lui rimarrai.
Ercole Primo mio aringo nel pugnar fia questo?

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Coro Che piú ne avrai, perché tu ucciso l’abbi?

Ercole N’avrò i destrieri; e ad Euristéo trarrolli.
Coro A tai destrieri rimboccare il freno,
lieve impresa non è.
Ercole   Spiran lor nari
fiato di fiamma forse?
Coro   Han ratti denti,
ond’ei divoran l’uomo.
Ercole   Di montane
belve fia l’esca, di destrier non mai.
Coro Eppur di sangue i lor presepj aspersi
vedrai.
Ercole   Ma quei, che pur li nutre e affrena,
qual genitor vanta egli?
Coro   Il fero Marte:
e su i Traci egli regna, al par che ricchi,
belligeri.
Ercole   Travaglio ecco novello,
quel ch’or tu narri, il mio Destin mi appresta:
duro e sublime il mio Destin fia sempre.
Figli ognora di Marte a me fan fronte:
giá Licaón primiero, e Cigno quindi
ebbi a combatter; terzo ora vedrammi
questo Trace Díomede, e i suoi destrieri
e lui sfidarne a pugna. Ercol, d’Alcména,
niun mai vedrallo paventar nemici.
Coro Eccolo, il Re di questa terra: appunto
di sua reggia esce Adméto.


SCENA SECONDA

Adméto, Ercole, Coro.

Adméto   Oh! ben sii giunto,

di Perseo stirpe, o tu di Giove nato.
Ercole Salve, o tu pur, Re di Tessalia, Adméto.

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Admeto Salute a me? quanto il vorrei! Ma, grato

pur emmi il voto d’uom benevol mio.
Ercole Che fieno (oimè!) queste lugúbri insegne1
in ch’io ti veggio?
Adméto   Debbo oggi dar tomba
a un cadavere.
Ercole   Ognor dalla tua prole
tenga lontano un cotal danno Iddio!
Adméto Vivon per anco entro mia reggia i figli,
ch’io procreai.
Ercole   Forse il tuo padre antiquo
saria quei che mancò?
Adméto   Vivo è pur egli,
Ercole; e viva anco è mia madre.
Ercole   Oh cielo!
Forse perí la tua consorte Alceste?
Adméto In due modi su lei risponder posso.
Ercole Viva, in somma, od estinta?...
Adméto   Estinta e viva,
Del par mi accóra.
Ercole   Oscuro parli: io nulla
intendo.
Adméto   Or, non sai forse, che al mio fato
sottentrare debb’ella?
Ercole   Il so, che morte
essa volle in tua vece.
Adméto   Or come adunque,
devota a morte, esister puote?
Ercole   Ah! pria
del suo cessar, non piangerla.
Adméto   Cessò:
non men che i morti, è affatto un nulla,
chi per morire sta.

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Ercole   Ma pur, non uno

son, l’esistere e il no.
Adméto   Tu il di’; non io.
Ercole Che piangi or dunque? qual tuo amico è estinto?
Adméto Una donna. Tu dianzi udisti; femmo
menzíon d’una donna.
Ercole   Estranea forse,
o del tuo sangue?
Adméto   Estranea, sí; ma pure
necessaria era alla mia casa.
Ercole   Or come
a morirvi venn’ella?
Adméto   Vi crebbe orfana.
Ercole Deh, non ti avessi in duol trovato, o Adméto!
Adméto Questo tuo dir, che fia? che stai per farti?
Ercole Ad altr’ospite andarmene.
Adméto   Non lice,
o Re: tal danno il ciel mi tolga!
Ercole   Ognora,
ov’egli approdi a lagrimante ostello,
fassi molesto l’ospite.
Adméto   Che vale?
Chi piú non è, non è. — Tu dunque il piede
poni in mia reggia.
Ercole   Il banchettar disdice
appo gli afflitti.
Adméto   Havvi appartate sale
atte a ciò: quivi introdurremti.
Ercole   Ah! lasciami:
ten sono io pur gratissimo.
Adméto   A niun conto
albergar puoi presso altri. Entra, precedi:
spalancati ecco gli atrj: ospite stanze
lá troverai: cibi a tua posta imponi
a chi per me quivi presiede. E voi,
chiudete lá le intermediarie porte

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infra l’ospite e noi. Troppo sconviensi

l’ascoltar pianti, a chi banchetta; e vuolsi
non funestar gli ospiti mai.


SCENA TERZA

Coro, Adméto.

Coro   Che festi?

in cosí gran calamitá pur osi
ospiti ammetter tu? Senno è d’Adméto?2
Adméto E s’io avessi il venuto ospite espulso
di mia reggia e cittá, piú laude or forse
voi men dareste? eh no: poiché men grave
la mia feral calamitá non fora
in nulla; io bensí inospite stimato,
a queste omai troppo infelici mura
aggiungerei la inospitale taccia.
Ercole, allor che all’arid’Argo io vengo,
ottimo ei presta a me l’ospizio.
Coro   E come
dunque or sí bene ad uom, qual dici, amico
celavi tu quest’orrida sventura?
Adméto Mai consentito ei non avria di porre
quivi entro il piè, se dei mie’ guai pur nulla
spiato avesse. Altri, cred’io, biasmarmi
di ciò potrá, come non saggio: eppure,
né inonorar, né espellere giammai
ospiti seppe il limitar d’Adméto.

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SCENA QUARTA

Coro.

STROFE I

           O magion d’Adméto, ospita molto

     e liberal mai sempre,
     te pure in spoglie pastorali avvolto
     giá degnossi abitare il Pizio Apollo:
     le cui soavi tempre
     dell’alma lira mai non fean satollo
     orecchio niun, che gli porgesse ascolto;
     quand’ei per queste valli tortuose
     tra le greggie lanose
     pastorecci cantava inni di spose.

ANTISTROFE I

           Pascean, liete al tuo canto, a te dintorno

     le macolate Linci;
     e, ritolte al boscoso Otrio soggiorno
     le biondeggianti torme dei Leoni,
     Febo immortal, tu vinci,3
     sposando il carme di tua cetra ai suoni:
     cozzante all’aure con lascivo corno
     lieve il villoso cavriol saltella
     tra questa pianta e quella
     degli abéti, cui chioma eccelsa abbella.

STROFE II

           Quindi avvien, che di armenti

     a dovizia fornito abiti, o Adméto,
     i Piani ampj ridenti

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     al Bebio ameno stagno appo-giacenti;

     che in ver l’Occaso nullo fan divieto
     fino ai Molossi al guardo;
     e dell’Egeo protendonsi sul lido
     ai naviganti infido
     fin dove al Pelio eccelso è il salir tardo.

ANTISTROFE II

           Ed or, sua reggia aprendo,

     entro vi accoglie il Re l’ospite Alcide;
     mentre ei stassi piangendo
     della sposa il recente eccidio orrendo.
     Ma, piú assai che il dolor, virtú conquide
     i generosi petti,
     cui Sapienza ogni suo don largiva.
     Ond’io fiducia ho viva,
     d’uom sí pio non veder men pii gli effetti.


SCENA QUINTA

Adméto, Coro.

Adméto O voi, di Fere cittadini astanti

benevoli, giá giá d’ogni suo fregio
il morto corpo adorno hanno i ministri,
e in alto il portan alla tomba e al rogo:
dunque or, com’usa, a salutar venite
nel viaggio suo ultimo l’estinta.
Coro Scorgo giá il padre tuo, con seníl piede
venirsene; e il di lui corteggio arrecasi
in man gli ornati di tua sposa; usata
pompa, ai defunti piamente accetta.

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SCENA SESTA

Feréo, Adméto, Coro.

Feréo A travagliarmi ne’ tuoi mali, o figlio,

men vengo. Or tu, saggia e valente sposa
(chi ’l niegheria?) perdesti: eppur, quest’anco
di sopportar ti è forza, abbenché duro
insopportabil sia. Ricevi or dunque
questi ornamenti a seppellirsi eletti:
vuolsen fregiare il costei corpo: è dessa,
che pur morí per darti vita, o figlio;
che me non volle di mia prole orbato
veder marcire in lúgubre vecchiaja;
che al sesso tutto immensa laude, in somma,
recava, osando questa egregia impresa. —
O tu, che a me questo mio pegno hai salvo,
che noi cadenti rialzasti, ah mite
omai ti accolga di Pluton la reggia! —
Nozze eran queste; io ’l dico: e all’uom ben giova
o tali, o niune, celebrarne.
Adméto   A queste
esequíe tu, non invitato, or vieni:
né dirò, che il vederviti mi aggradi.
Niun de’ tuoi doni sará mai, che adorni
costei, che nulla al seppellirsi ha d’uopo
aver da te. Tu, condolerti allora
ch’io per morire stavami, dovevi.
Ma allor tu assente, i giovani lasciavi,
tu attempato, morirsene: ed or questa
tu piangeresti estinta? Ah, no, non eri
vero mio padre tu; né madre, quella
che pur di aver me dato in luce ha fama.
Di servil sangue io nato, il non mio latte
dalla consorte tua succhiai furtivo.

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Ti mostrasti qual t’eri: e a te non figlio

io mi professo. In timidezza, hai vinto
ogni uomo tu; che d’anni carco, e all’orlo
giá del sepolcro, pur morir pel figlio,
né volesti, né osasti. A morte andarne
bensí lasciaste questa estrania donna:
straniera, è ver, di sangue; ma, di affetti
sola mia degna e genitrice e padre.
Eppur di egregia gara avevi palma,
se tu morivi pel tuo figlio. Un breve
avanzo di tua vita ricomprava
la vita intera di costei: né in pianto
i’ mi vivria di tal consorte orbato.
Felice al tutto, quanto altr’uom giammai
vissuto t’eri: Re da’ tuoi primi anni,
me figlio erede del tuo regno avevi;
né, morendo, lasciavi orfana casa
da lacerarsi infra straniere genti.
Né dir potrai, che abbandonato a Morte
mi avessi tu, perch’io spregiare osassi
mai la vecchiezza tua: ch’anzi tu spesso,
e la madre anco, laude a me non lieve
piaceavi dar pel riverente mio
vero amoroso filíal contegno.
A procrearti nuovi figli or dunque
piú non indugia omai: quelli nudrirti
denno in vecchiezza; quelli il morto tuo
corpo adornare e seppellir; non io:
questa mia man non ti dará mai tomba.
Morto io son, quanto a te: che s’io pur miro
la luce ancor, di chi me la serbava
dico esser figlio, e di sua vecchia etade
esser l’amato nutritore. Indarno
vituperando e la vecchiaja e il lungo
tempo del viver loro, i vecchi in detti
braman morir; ma, se Morte si appressa,

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piú non è grave a lor vecchiezza, e niuno

piú vuol morire.
Coro   Or, deh, cessate: è troppa
giá per se stessa la presente angoscia:
perché inasprir, tu figlio, il cor del padre?
Feréo Figlio, insanisci? alcun tuo compro schiavo
di Lidia o Frigia, malmenar ti estimi?
Tessalo, e nato di Tessalio padre,
e schietto liber’uom son io; noi sai?
Troppo arroganti giovanili detti
in me tu scagli; né impunito andrai.
Te generato di mia casa erede
ebbi, e tal ti educai: ma ingiusta legge
nel divenirti io padre accettai forse,
di morir io per te? Fra’ Greci ignota
usanza ell’è, morir pe’ figli i padri.
Felice, o no, nascevi tu a te stesso:
e da noi, quanto aver dovevi, avesti.
Tu in somma regni, e in ampio regno; e vaste
possessíon ti lascierò pur io;
che tante a me lasciò ’l mio padre. Or dunque,
in che ti offesi io mai? di che ti scevro?
Non per me tu, né morir io pur deggio
per te giammai. Del Sole almo la vista
giovati? e credi al genitor non giovi?
Lungo è l’Orco pur troppo; il viver, breve;
ma dolce in un: tu il sai, che incontro a Morte
battagliasti pur tanto, e rossor nullo
di viver oltre al tuo giorno prefisso
prendesti; e, spenta la tua moglie, or vivi.
E me poi tu di timidezza accusi,
tu vinto, o timidissimo, da Donna,
che in tua vece moría: leggiadro in vero
garzoncellino! E il ritrovato è astuto;
per non morir tu mai, l’indurre ognora
qual ti abbi moglie a dar per te sua vita.

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E gli amici, che in ciò ti ricusáro,

rampogni poi, sendo peggior tu stesso.
Taci: e pensa, che cara ogni uom la sua
tien, qual tu la tua vita: onde, se oltraggi
a me dirai, molti ne udrai piú veri.
Coro Ed ora, e dianzi, giá sen disser troppi.
Dunque, tu antiquo, il tuo figliuol non vogli
punger piú omai.
Adméto   Di’ pur, poich’io giá dissi;
ma, se il ver duolti, non dovevi or primo
fallire in me.
Feréo   Fallo ben altro il mio
era, s’io mai per te moriami.
Adméto   Forse
pari è il morir, giovane o vecchio?
Feréo   In una,
non in du’ alme, vivere l’uom debbe.
Adméto Vorresti, il veggo, piú invecchiar che Giove.
Feréo Tuoi genitor tu, non offeso, oltraggi?
Adméto Il viver lungo è a te diletto, il sento.
Feréo Ma, di te stesso in vece, or non sotterri
il costei corpo tu?
Adméto   Trofei son questi,
o timidissim’uom, di tua viltade.
Feréo Che uccisa io l’abbia, nol dirai tu al certo.
Adméto Deh, possa tu, quando che sia, di questo
tuo figlio aver pur d’uopo!
Feréo   Abbiti in copia
mogli, ond’elle per te muojano in copia.
Adméto Di ciò tu adonti, e n’hai ben donde: amasti4
il viver tu; donna spregiollo.
Feréo   È dolce
quest’alma luce del Dio Febo, è dolce.

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Adméto Indole trista, e non virile, or mostri.

Feréo E in sotterrar tu il vecchiarello, forse
non rideresti?
Adméto   E sí morrai tu pure,
ma morrai senza gloria.
Feréo   A me non cale,
morto ch’io son, che che si dica.
Adméto   Ahi quanto
colma pur d’impudenza è la vecchiezza!
Feréo Non impudente la infelice Alceste
ti si mostrava, ma demente.
Adméto   Or vanne;
e questo corpo seppellir mi lascia.
Feréo Men vo. Ben dei tu seppellirla; uccisa
l’hai tu per certo: e il fio ne pagherai
a’ suoi parenti, tu. Che d’uom non merta
il nome Acasto, ah no, se in te vendetta
non fa del sangue dell’uccisa suora.
Adméto Male a te stesso, e alla tua moglie, accada:
qual vi si debbe, orbi invecchiate entrambi,
benché pur vivo abbiate il figlio. E in fatti,
meco mai piú, mai non daravvi albergo
un tetto istesso. Itene omai. Deh, fosse
lecito pur degli Avi tuoi la casa
farti interdir dal Banditore! al certo
io la t’interdirei. — Ma noi frattanto,
poiché il subir questa sventura è forza,
andianne: abbiasi il rogo il morto corpo.


SCENA SETTIMA

Coro.

O tu, infelice, generosa, ardita,

sovra le donne tutte ottima donna,

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pace sia teco. Il sotterraneo Pluto

benignamente accolgati, condotta
da Mercurio benevolo: e, se quivi
piú si onorano i buoni, abbiti il seggio
tu della sposa di Plutone al fianco!


  1. Dice il Testo: Che fia questa tosatura funesta, per cui ti distingui? Principal parte del bruno era fra’ Greci il tosarsi.
  2. Il Testo dice: Che, sei tu pazzo, o Adméto? Queste sono le sole infedeltá, che il Traduttore si va permettendo.
  3. Il Testo non aggiunge nessun epiteto alla parola Febo. In questi squarci lirici, attesa la servitú del metro, e della rima, il Traduttore si è un pocolino piú emancipato dal Testo.
  4. Il Testo dice soltanto: Questo etti disdoro; poiché tu non volesti morire. Si sono aggiunte quelle poche parole, per meglio spiegare qual fosse il disdoro.