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atto terzo 95
piú non è grave a lor vecchiezza, e niuno

piú vuol morire.
Coro   Or, deh, cessate: è troppa
giá per se stessa la presente angoscia:
perché inasprir, tu figlio, il cor del padre?
Feréo Figlio, insanisci? alcun tuo compro schiavo
di Lidia o Frigia, malmenar ti estimi?
Tessalo, e nato di Tessalio padre,
e schietto liber’uom son io; noi sai?
Troppo arroganti giovanili detti
in me tu scagli; né impunito andrai.
Te generato di mia casa erede
ebbi, e tal ti educai: ma ingiusta legge
nel divenirti io padre accettai forse,
di morir io per te? Fra’ Greci ignota
usanza ell’è, morir pe’ figli i padri.
Felice, o no, nascevi tu a te stesso:
e da noi, quanto aver dovevi, avesti.
Tu in somma regni, e in ampio regno; e vaste
possessíon ti lascierò pur io;
che tante a me lasciò ’l mio padre. Or dunque,
in che ti offesi io mai? di che ti scevro?
Non per me tu, né morir io pur deggio
per te giammai. Del Sole almo la vista
giovati? e credi al genitor non giovi?
Lungo è l’Orco pur troppo; il viver, breve;
ma dolce in un: tu il sai, che incontro a Morte
battagliasti pur tanto, e rossor nullo
di viver oltre al tuo giorno prefisso
prendesti; e, spenta la tua moglie, or vivi.
E me poi tu di timidezza accusi,
tu vinto, o timidissimo, da Donna,
che in tua vece moría: leggiadro in vero
garzoncellino! E il ritrovato è astuto;
per non morir tu mai, l’indurre ognora
qual ti abbi moglie a dar per te sua vita.