Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto quarto
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ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Servo.
accolti abbiam d’Adméto entro la reggia,
ma niuno mai peggior di questo. Ei venne,
e a bella prima il Re trovando in pianti,
pure audace inoltrossi: udita poscia
l’afflizíon di questa intera casa,
ospizio a caso offertogli accettava,
indiscreto. E non basta: ove al portargli
alcuna cosa alquanto lenti noi
ce gli mostriamo forse, ei da se stesso
c’interpella, e la vuole. In man si reca
quindi ei d’ellera un nappo, e ne tracanna
prole di negra terra in copia il vino
schietto cotanto, che l’ardente vampa
d’esso l’accerchia giá: corone al capo,
rami ha di mirto, e canzonacce abbaia.
Doppio, e diverso, era ad udirsi il grido:
costui, cantante; che di Adméto i guai
nulla curava: e noi tutti, piangenti,
servi amorosi, la padrona nostra.
Benché pur l’occhio lagrimante, ascoso
noi tenessimo all’ospite: tal era
il comando del Re. Perciò quí stommi
trista schiuma: e frattanto uscía per sempre
di questa reggia Alceste: né il seguirla,
né le mani prostendere ver essa,
né alla Regina mia li ultimi pianti
dar potei. Deh, quant’era e ai servi tutti,
e a me, piú che signora ella pur madre!
E quante volte l’ire essa molcendo
del Re, di mille inciampi noi traea!
Non odio a dritto io forse ospite tale
sí inopportuno giunto?
SCENA SECONDA
Ercole, Servo.
cosí guardando mestamente torvo?
Fosco ministro agli ospiti venirne
sconviensi; accor li debbe animo gaio.
Tu all’incontro, vedendo ospite amico
del tuo Signor, con cosí funesta faccia,
con tal cipiglio, a esterni guai pensando,
tu lo ricevi? — Accostati: ch’io farti
vo’ piú saggio, insegnandoti. Nol sai,
qual sia la essenza dell’umane cose?
Cred’io, nol sappi: onde il sapresti? or, m’odi.
Forza è, ch’uom muoja; e a niun mortale è dato
il saper, s’ei fia in vita il dí che segue.
Dubbio ognor troppo tien Fortuna il corso;
né d’impararlo, o d’impedirlo, è nota
l’arte ad alcuno. Addottrinato or dunque
tu da’ miei detti, rasserena il volto,
e bevi, e dí per dí la vita estíma
esser tua, finché l’hai; del caso, il resto.
Molto anche onora infra le Dive tutte
ch’ella è cortese Dea. D’ogni altra cosa
lascia il pensiero; ed ai precetti miei, o
se retti pur ti pajono, t’arrendi.
Cosí pens’io. Su dunque, al vento i guai;
meco bevi, e incorónati, e sormonta
la presente sventura. Io n’ho certezza,
che di tua mesta ingombra mente in vece,
afferrerai di gioja il porto, al lieto
tintinnío delle tazze. Un uom son io,
e l’uom conosco: e gli accigliati e i mesti
tutti, a mio senno, in quel lor viver hanno
non vita no, ma sventurata pena.
Servo Tali cose, so anch’io: ma, un punto è questo,
che il banchettar né il rider non ammette.
Ercole Donna moria straniera: onde poi tanto
pianger dei tu? di questa reggia sono
vivi i Signori...
Servo Vivi? ah, della reggia
non sai per anco i danni.
Ercole Il Signor tuo,
m’avrebb’egli or deluso?
Servo Ei troppo amante
è degli ospiti, ah, troppo.
Ercole Ei l’è davvero;
poich’egli pur di sí gran pianto onora
estranio corpo.
Servo Estranio corpo? ah, certo
di casa era ei, molto, e pur troppo, il corpo!
Ercole Dunque alcuna domestica sventura
celava Adméto a me?1
spetta a noi, pianger dei Re nostri i guai.
Ercole Questo tuo dir fiere sciagure accenna,
e non estranie, no.
Servo Se fosser lievi,
certo in vederti banchettare, io mesto
non mi starei.
Ercole Dunque feroce oltraggio
gli ospiti miei mi feano?
Servo In questa reggia
tu non giungevi al certo ora opportuno,
quando abbrunati, e rasi il capo, in pianto
noi ti accogliamo.
Ercole Or, chi cessò quí dunque?
L’uno forse de’ figli, o il padre antiquo
di Adméto?
Servo Ospite, ah, no: bensí la sposa
cessò di Adméto.
Ercole Oh! che di’ tu? Ma, e voi
pur deste a me ciò non ostante albergo?
Servo Di a te negar questa sua reggia Adméto,
avea ribrezzo.
Ercole Ahi misero! qual moglie
perdevi, o Adméto!
Servo E non perí sola essa:
tutti perimmo.
Ercole Io, nel vedervi in pianto,
e i mesti visi, e i tronchi crini, avvisto
quasi me n’era: ma deluso tosto
m’ebbe ei, dicendo, a peregrina donna
farsi i funébri onori. A mal mio grado
da pria varcava il limitar; pur bevvi,
e incoronato io banchettai quí poscia,
dove in sí ria sventura orbo sen giace
uom sí ospitale. Ma n’è tua la colpa:
tu mel tacesti; mentre angoscia tanta
dov’è la pompa sepolcral? ch’io corra
ad incontrarla.
Servo In su la via, che mena
a Larissa, vedrai, fuor del sobborgo,
la luccicante tomba.
SCENA TERZA
Ercole.
alma mia, che bastavi a imprese tante,
mostra or qual prole generasse a Giove
figlia di Elettrión la illustre Alcména.2
Forza è ch’io salvi la pur dianzi estinta
donna, e che Adméto io contraccambj, in vita
la sua Alceste di nuovo in questa reggia
stabilmente tornandogli. Or, si vada:
pormi vo’ a guardia della fosco-alata
Regina de’ cadaveri, cui penso
presso al sepolcro ritrovar, mentr’ella
delle vittime il sangue ivi tracanna:
lá, se l’aguato a me riesce, a un tratto
fuori balzando infra mie braccia avvinta
Morte terrò tenacemente tanto,
ch’uom nullo svincolarmela potrá
mai, finché a me non rilasci ella Alceste
dai suoi artigli libera. Ma, s’io,
deluso poscia, al sanguinoso desco
non la trovassi, all’Orco, entro la buja
allora; e, ai preghi datomi, ritrarre
spero alla luce, e ricondurre in mano
del mio ospite Alceste. Unico al mondo
infra gli ospiti Adméto, ei non negommi
ricovro pur, benché da grave angoscia
percosso ei stesso; e ascosemi, magnanimo,
il suo dolore; ed onorommi. Or quale
fra i Tessali, in amar ospiti, il vince?
E qual fra i Greci? Ah, non mai fia ch’ei dica,
d’aver servito ei generoso a ingrato!
SCENA QUARTA
Adméto, Coro.
di mie vedove stanze! Oimè! oimè!
Dove andrò? Dove starmi? Che favello?
Che taccio? Oh, come morir pur potrei?
Sventurato, deh, quanto generommi
la madre mia! Beati i morti, dico;
sol quelli invidio, e lor magion sospiro.
Né piú mi allegro in mirar questo Sole;
né, in su la terra l’orme mie stampando;
dacché pur toltomi sí amato ostaggio,
diedelo a Pluto la spietata Morte.
Coro Inoltra, inoltrati nel cupo lá
della reggia.
Adméto Ahi me misero!
Coro Soffristi
lamentevoli guai.
Adméto Misero me!
Coro Nel duol sepolto io ben ti veggio.
Adméto Ahi Fato!
Adméto Oh me infelice!
Coro Il non piú mai vedersi
davanti il volto dell’amata moglie,
trista cosa è pur troppo!
Adméto Ahi! qual rimembri
nome, che il cor saettami! qual danno
aver può l’uomo in fatti, che pareggi
il perder ei l’amata moglie? Avessi,
celibe pur, non abitata io mai
questa reggia con essa! Oh fortunati
quei, che non figli ebber né moglie! Un’alma
sola han cosí; perderla quindi è lieve:
ma duol ben altro, e intollerabil vista,
dei figli orfani ell’è la inferma etade,
e il talamo da Morte devastato,
a chi potea né padre esser né sposo.
Coro Fato, ahi Fato invincibile!
Adméto Ahi me misero!
Coro Ma non porrai tu meta niuna al pianto?
Adméto Oimè! oimè!
Coro Grave, è vero, l’angoscia: eppure...
Adméto Oimè!
Coro D’uopo è soffrir: non tu primier perdevi...
Adméto Ahi me lasso!
Coro La sposa: altri, ne opprime
una qualch’altra manifesta doglia:
mortali siamo.
Adméto O lunghi lutti, o dura
reminiscenzia dei sepolti amici,
deh, perché voi nella tomba profonda
precipitar non mi lasciaste? almeno
con quella egregia oltre l’egregie tutte
giacerei morto. Avute avriasi Pluto,
d’una in vece, du’ alme in saldi nodi
congiunte fedelissime nel varco
Coro Or, deh, ti acqueta.
Ebbi un parente anch’io, che tor si vide
degno-d’-esser-compianto unico figlio
in sua magion dall’empia Morte: e quegli
pur con misura sopportò tal danno,
bench’orbo padre ei si restasse, e il crine
giá incanutito omai, precipitasse
ver l’estremo dell’arco della vita.
Adméto Oh tristo aspetto del mio albergo! or, come
entrar potrovvi? e in sí cangiata sorte,
come abitarvi? oimè, da quel di pria,
diverso ahi quanto! Allor, di faci mille
tronche dal Pelio monte ivami innanzi
pomposa luce; e, fra cantati carmi,
entrava io quivi per la man tenendo
l’amata moglie: ed eccheggiar si udía
fra i seguaci compagni il fausto nome
di lei, che piú non è. Beati entrambi
noi predicavan gl’Inni loro, a cielo
e la nobil prosapia ergendo, e il nostro
conjugal nobilissimo legame. —
Tutto or cangiò: non piú Imenéo, ma pianti
risuonan quí: non piú candide vesti,
ma negre vesti mi accompagnan entro
fino al vedovo talamo deserto.
Coro Te, di sventure ancor digiuno, in mezzo
di tua prospera sorte, assale or questo
dolor, nol niego: ma, tua vita hai salva.
Cessò la sposa; il vivo amor ten resta.
Nuovo è forse tal caso? ah, di lor mogli
quanti altri sposi ebbe giá Morte orbati!
Adméto Amici, oh quanto piú di me felice
la mia consorte io tengo! altrui, non pare;
ma cosí pure ell’è. Niun duol piú mai
alla mia Alceste giungerá: stassi ella,
Non io cosí; che mal sottratto a morte,
oltrepassato i giorni miei, vivrommi,
ora imparando, lagrimevol vita.
Come, deh, come in questa reggia il piede
potrò inoltrar? Chi chiamerovvi a nome?
Chi chiamerammi? avrò mai gioja ivi entro?
Dove, aimè, volgerommi? orrida regna
solitudin mortifera lá entro.
Quand’io vedrò della consorte il letto
deserto! e i seggi, in cui sedevasi ella!
e d’ogni intorno squallida ogni cosa:
e i figli, che abbracciandomi i ginocchi,
piangeran la lor madre! e piangeranno
lor donna, ond’orba è la magione, i servi.
Di mia reggia l’interno, ecco qual fia:
fuor d’essa poi, duro travaglio al core
ogni nozza Tessalica, ogni lieta
adunanza di donne, porgerammi.
E come, in fatti, sostener potria
l’aspetto io mai di giovani donzelle
d’etá conformi a questa giá mia sposa?
Giá il susurrar d’ogni nemico ascolto:
«Vedil tu? questi, a gran vergogna, è in vita;
«egli il morir non sosteneva; e in vece
«di se stesso, la propria moglie sua
«gittò, codardo, in grembo a Morte; e tiensi
«d’esser pur egli un uomo; e i genitori,
«che non morir volean per esso, abborre».
Ecco qual fama, oltre i miei tanti affanni,
pur troppo avrommi. Or, che degg’io piú vita
bramare, o amici, inonorata, e orrenda?
STROFE I
volgendo andassi i Fasti,
forza, che al Fato eterno incontro basti.
Non quei, che tu cantasti
carmi fra i Traci, o sacro vate Orféo;
non quanti altri mai farmachi alla prole
di Esculapio poteo
Febo donar, con cui sanarci ei suole:
nulla è, che scampi i miseri mortali
dagli artigli fatali.
ANTISTROFE I
e ai simulacri avanti;
usa e i voti spregiare,
e le vittime, e gl’Inni, e i caldi pianti;
necessitá, che vanti
ogni cenno di Giove a fin condurre;
deh vogli or mite, se mai pria mel fosti,
nessun tuo duol mi addurre!
Tu l’adamante e il ferro hai sottoposti;
senza arrossir, tutto a tue voglie pieghi,
né un tuo nodo mai sleghi.
STROFE II
or questa dura inestricabil Dea.
Ma, scoglio tu contro sua possa rea,
fa che il tuo pianger taccia:
ah! mai non trasse il pianto
alma da Stige alla superna traccia.
Anco i figli dei Numi han morte il manto.
Cara fu a noi la donna tua, vivente;
e cara ell’è, giacente:
che d’ogni egregia il fiore
quella era in ver, cui ti accoppiava Amore.
ANTISTROFE II
tumulo umíl di accatastate genti
l’avello, in cui della tua sposa algenti
posan sepolti i membri;
ma, qual divina cosa,
propizio un Nume al passeggier rimembri.
«Ecco, (ei prorompe in voce ossequíosa)
«ecco, questa è, che del marito in vece
«morir se stessa fece.
«Salve, o Diva beata;
«o veneranda, arridi ai voti grata».
- ↑ Quest’Ercole parrá forse d’intendimento duretto anzi che no. Ma Euripide avendolo voluto cosí, fedelmente cosí lo restituisce il Traduttore. Forse che il vino gli toglieva la memoria d’aver egli detto ad Adméto al v. 535. del Testo; e 567 della Versione: Il so, che morte essa (Alceste) volle in tua vece.
- ↑ Il Testo dice: Alcména Tirinzia. Il Traduttore ha scambiato Tirinzia nell’epiteto illustre, perché in un verso Italiano male si accoppiavano Elettríone, e Tirinzia, suoni barbari.