la piú soave agli uomini, Ciprigna;
ch’ella è cortese Dea. D’ogni altra cosa
lascia il pensiero; ed ai precetti miei, o
se retti pur ti pajono, t’arrendi.
Cosí pens’io. Su dunque, al vento i guai;
meco bevi, e incorónati, e sormonta
la presente sventura. Io n’ho certezza,
che di tua mesta ingombra mente in vece,
afferrerai di gioja il porto, al lieto
tintinnío delle tazze. Un uom son io,
e l’uom conosco: e gli accigliati e i mesti
tutti, a mio senno, in quel lor viver hanno
non vita no, ma sventurata pena.
Servo Tali cose, so anch’io: ma, un punto è questo,
che il banchettar né il rider non ammette.
Ercole Donna moria straniera: onde poi tanto
pianger dei tu? di questa reggia sono
vivi i Signori...
Servo Vivi? ah, della reggia
non sai per anco i danni.
Ercole Il Signor tuo,
m’avrebb’egli or deluso?
Servo Ei troppo amante
è degli ospiti, ah, troppo.
Ercole Ei l’è davvero;
poich’egli pur di sí gran pianto onora
estranio corpo.
Servo Estranio corpo? ah, certo
di casa era ei, molto, e pur troppo, il corpo!
Ercole Dunque alcuna domestica sventura
celava Adméto a me?1
- ↑ Quest’Ercole parrá forse d’intendimento duretto anzi che no. Ma Euripide avendolo voluto cosí, fedelmente cosí lo restituisce il Traduttore. Forse che il vino gli toglieva la memoria d’aver egli detto ad Adméto al v. 535. del Testo; e 567 della Versione: Il so, che morte essa (Alceste) volle in tua vece.