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atto quarto | 107 |
Non io cosí; che mal sottratto a morte,
oltrepassato i giorni miei, vivrommi,
ora imparando, lagrimevol vita.
Come, deh, come in questa reggia il piede
potrò inoltrar? Chi chiamerovvi a nome?
Chi chiamerammi? avrò mai gioja ivi entro?
Dove, aimè, volgerommi? orrida regna
solitudin mortifera lá entro.
Quand’io vedrò della consorte il letto
deserto! e i seggi, in cui sedevasi ella!
e d’ogni intorno squallida ogni cosa:
e i figli, che abbracciandomi i ginocchi,
piangeran la lor madre! e piangeranno
lor donna, ond’orba è la magione, i servi.
Di mia reggia l’interno, ecco qual fia:
fuor d’essa poi, duro travaglio al core
ogni nozza Tessalica, ogni lieta
adunanza di donne, porgerammi.
E come, in fatti, sostener potria
l’aspetto io mai di giovani donzelle
d’etá conformi a questa giá mia sposa?
Giá il susurrar d’ogni nemico ascolto:
«Vedil tu? questi, a gran vergogna, è in vita;
«egli il morir non sosteneva; e in vece
«di se stesso, la propria moglie sua
«gittò, codardo, in grembo a Morte; e tiensi
«d’esser pur egli un uomo; e i genitori,
«che non morir volean per esso, abborre».
Ecco qual fama, oltre i miei tanti affanni,
pur troppo avrommi. Or, che degg’io piú vita
bramare, o amici, inonorata, e orrenda?
STROFE I
volgendo andassi i Fasti,