della inferna palude.
Coro Or, deh, ti acqueta.
Ebbi un parente anch’io, che tor si vide
degno-d’-esser-compianto unico figlio
in sua magion dall’empia Morte: e quegli
pur con misura sopportò tal danno,
bench’orbo padre ei si restasse, e il crine
giá incanutito omai, precipitasse
ver l’estremo dell’arco della vita.
Adméto Oh tristo aspetto del mio albergo! or, come
entrar potrovvi? e in sí cangiata sorte,
come abitarvi? oimè, da quel di pria,
diverso ahi quanto! Allor, di faci mille
tronche dal Pelio monte ivami innanzi
pomposa luce; e, fra cantati carmi,
entrava io quivi per la man tenendo
l’amata moglie: ed eccheggiar si udía
fra i seguaci compagni il fausto nome
di lei, che piú non è. Beati entrambi
noi predicavan gl’Inni loro, a cielo
e la nobil prosapia ergendo, e il nostro
conjugal nobilissimo legame. —
Tutto or cangiò: non piú Imenéo, ma pianti
risuonan quí: non piú candide vesti,
ma negre vesti mi accompagnan entro
fino al vedovo talamo deserto.
Coro Te, di sventure ancor digiuno, in mezzo
di tua prospera sorte, assale or questo
dolor, nol niego: ma, tua vita hai salva.
Cessò la sposa; il vivo amor ten resta.
Nuovo è forse tal caso? ah, di lor mogli
quanti altri sposi ebbe giá Morte orbati!
Adméto Amici, oh quanto piú di me felice
la mia consorte io tengo! altrui, non pare;
ma cosí pure ell’è. Niun duol piú mai
alla mia Alceste giungerá: stassi ella,