Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto quinto

Atto quinto

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Euripide - Alceste Prima (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (1797)
Atto quinto
Atto quarto

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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Coro, Adméto, poi Ercole con una Donna

sconosciuta e velata.

Coro Ma questi è al certo, qual mi sembra, il figlio

di Alcména; e vien verso i tuoi Lari, o Adméto.
Ercole Liberamente, o Adméto, ad uom ch’è amico
favellar dessi, e non serrarsi in cuore
tacitamente i guai. Dianzi, quí giunto,
io di tue angoscie a parte entrar bramava,
a prova io posto amico: ma tu, nulla
pur mi dicevi dell’esposto corpo
della morta tua moglie: anzi, ospitale
tu mi accoglievi nella reggia, in guisa
d’uom, cui premesse un qualche estraneo lutto.
Ed io, credulo, il capo incoronavami,
e in queste afflitte tue stanze spandea
libazíoni ai Numi. Offeso io quindi
men querelo, ed a dritto io men querelo.
Ma pur non vo’ te contristar giá mesto:
e la cagion, per cui sí ratto io torni,
dirotti. In tua custodia or questa donna
serbar mi dei, finch’io tornato adduca
meco i Tracj destrieri, ucciso pria
de’ Bistonj il Tiranno. Ma, s’io mai

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non ne tornassi (il che non sia!) costei

per familiar tua ancella abbiti in dono:
travaglio assai nel conquistarla io m’ebbi;
che di vittoria in premio or la mi traggo
da una pubblica giostra, ove agli atleti
doni condegni ai generosi sforzi
erano esposti. Ai vincitor di lievi
agili pugne, premio eran destrieri;
quei, che in piú fero agón di cesti o lotta
vinceano, armenti ne acquistavan pingui:
e in premio inoltre ivi era anco una Donna.
Io, che a sorte la vinsi, arrossirei
di trascurar sí gloríoso lucro:
quíndi, com’io tel dissi, a te il pigliarti
cura si aspetta di costei, ch’io adduco,
rapita no, ma guadagnata a costo
di nobile sudore. Il dí fia forse,
che di un tal don mi applaudirai tu stesso.
Adméto Né in tuo dispregio, né perch’io ti avessi
per mio nemico, a te il destino ascosi
della infelice moglie mia: ma il tacqui,
perché duol mi si fora aggiunto a duolo,
se ai Lari tu d’altr’ospite ito fossi.
Bastava a me giá quel primier mio pianto.
Ma questa donna tua, pregoti, ov’abbi
alcun mezzo, deh vogli, o Re, fidarla
a un qualch’altro fra i Tessali, che immune
sia dai mali ch’io provo. A te non manca
ospiti in Fere: esasperar tu dunque
deh non vogli or la mia recente piaga!
Mai non potrei, mirando entro mia reggia
tal donna, io starmi a-ciglio-asciutto: a infermo
non sovrapporre infermitade: oppresso
dalle sfortune mie giá son, pur troppo!
In qual mai parte della reggia or posta
la giovincella mi verria? (che tale

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mostranla i fregi e il giovenil vestire);

l’albergherei fors’io, dov’hanno stanza
quei del corteggio mio? ma, come pura
starebbesi ella a giovanetti in mezzo?
Non sono, Ercole, facili a frenarsi
i giovanetti: ed io d’una tua cosa
provida cura prendo. Od io ricetto
lá nel talamo forse le darei
della sepolta Alceste? ahi, come trarre
questa or al letto di quell’altra mia!
Doppio il biasmo ne temo: ogni uom di Fere
me traditor potria nomare a dritto,
s’io dell’estinta ottima moglie in vece,
assunto avessi al letto mio compagna
una altrui giovincella. E qual non deggio
riguardo, inoltre, a quell’adorata ombra,
la cui memoria d’onor tanto è degna. —
Ma tu, qual che ti sii, sappilo, o Donna,
le forme, e i modi, e la statura stessa
d’Alceste hai tu. Deh, trammi (oimè!) dagli occhi,
Ercole, per gl’Iddii te ne scongiuro,
trammi dagli occhi or questa donna; ond’io,
giá deserto, or non pera. — E’ mi par viva
veder la moglie, in rimirar costei:
palpita il core a un tal aspetto, e sgorgami,
dagli occhi un fonte. Ahi lasso me, deh quanto
amaro giá da questo lutto io colgo!
Coro Certo, infelice ell’è tua sorte, o Adméto;
ma sopportar quanto a te manda il Nume,
forza t’è pure.
Ercole   Almen da Giove io tanta
possanza avessi, onde a quest’alma luce
dai sotterranei chiostri ricondurre
la tua donna, giovandoti in tal guisa!
Adméto Ben conosco il cor tuo: ma ciò, chi ’l puote?
Non ponno i morti in luce tornar mai.

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Ercole Dunque or ti affrena, e moderatamente

il tuo danno sopporta.
Adméto   È assai piú lieve
gli altri esortar, che il sopportare i danni.
Ercole Ma poi, qual pro’, se tu in perpetuo piagni?
Adméto Anch’io stesso il conosco; e al pianto pure
sforzarmi Amore.
Ercole   Amar gli estinti, è pianto.
Adméto Perdeami Amore; ed è piú acerbo il male,
piú assai, ch’io dir nol posso.
Ercole   Ottima moglie
(chi ’l niegheria?) ti manca.
Adméto   Ottima, a segno,
che a quest’Adméto non sará in eterno
dolce la vita mai.
Ercole   Recente or troppo
la piaga: il tempo saneralla.
Adméto   Il tempo?
Ben dicesti: la morte.
Ercole   Un’altra donna,
e il desio d’altre nozze...
Adméto   Oimè! che parli?
Taci: da te non io ciò m’aspettava.
Ercole E che? non piú nozze mai dunque? ognora
vedove piume coverai?
Adméto   Non havvi
donna, che omai giaccia d’Adméto al fianco.
Ercole Ma e che? giovar cosí all’estinta or credi?
Adméto Ovunque aggirisi ella, il dover mio
è di onorarla.
Ercole   Io laudoti; ti laudo,
ma pur ne avrai taccia d’insano.1

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Adméto   E s’abbia:

purché tu mai sposo non chiami Adméto.
Ercole Della consorte un fido amante io scorgo,
e ammiro in te.
Adméto   Tronca mia vita fora,
di tradirla nell’atto, ancor ch’estinta.
Ercole Ma intanto accogli entro tua reggia or questa;
nobile ell’è.
Adméto   Deh, no; te ne scongiuro
pel genitor tuo, Giove.
Ercole   Eppur, gran fallo
nel rifiutarla fai.
Adméto   Rimorso al core
or mi fora ben altro, l’accertarla.
Ercole Arrenditi: che forse anco opportuno
questo mio don ti fia.
Adméto   Deh, non avessi
tu nell’agón vinta pur mai costei!
Ercole Tu pur, nel vincerla io, meco l’hai vinta.
Adméto Sia: ma si apparti or questa donna.
Ercole   All’uopo
andrassen’ella; ma veder dei pria,
se ciò ti giovi.
Adméto   È d’uopo, andarsen’ella;
fuorché tu poi per adirarten fossi.
Ercole Tal cosa io so, che fammi or teco tanto
insistere.
Adméto   Dunque or, benché non grata
cosa a me facci, il tuo voler tu adempi.
Ercole Ma il dí verrá, che men darai tu laude:
arrenditi or soltanto.
Adméto   Entro la reggia
scortatela voi dunque, poiché darle
ricetto è forza.
Ercole   Ai tuoi ministri io mai
non l’abbandonerei.

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Adméto   Tu stesso dunque

lei, se a te piace, entro la reggia adduci.
Ercole Anzi in tua man rimetterolla io stesso.
Adméto Non toccherolla io, certo: ma introdursi
ella ben puote.
Ercole   Alla tua destra sola
affidarla poss’io.
Adméto   Tu mi vi sforzi,
o Re, bench’io nol voglia.
Ercole   Osa; distendi
tua man, su dunque, e l’ospita alfin tocca.
Adméto La stendo io giá; qual se il Gorgoneo teschio
toccar dovessi.
Ercole   Or, presa l’hai?
Adméto   L’ho presa.
Ercole Serbala or dunque: e sí dirai tu un giorno,
ch’ospite egregio ei fu di Giove il figlio.
In lei, su via, rimira; e s’ella alquanto
alla tua donna si assomigli, indaga.
Felice oh tu! dal pianto omai ti arretra.
Adméto Oh Dei! che dirommi io? miracol nuovo
inaspettato questo. E fia pur vero?
Questa mia moglie io veggo? o un qualche Iddio
vaneggiar fammi in tal fallace gioja?
Ercole No, non vaneggi: e tu in costei ben vedi
la tua consorte.
Adméto   Bada, or ciò non fosse
un qualche inferno Spettro.
Ercole   Ercol non tieni
prestigiator finora.
Adméto   Ed io pur veggo
quella mia donna, ch’io giá seppelliva?
Ercole Sí, quella stessa, sí: né maravigliomi
che prestar fede a sí gran sorte or nieghi.
Adméto Lei palpo, è ver: ma favellarle posso
come alla viva moglie mia?

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Ercole   Favella:

che appien possiedi quanto mai bramasti.
Adméto Oh volto, oh forme della sposa mia
amatissima! Or dunque, oltre ogni speme,
io che piú mai non mi credea vederti,
or ti posseggo?
Ercole   Or sí, tu la possiedi:
né a te la invidj alcun dei Numi omai.
Adméto O del massimo Giove altera prole,
deh felice-sii-tu! chi procreotti,
deh ti conservi! che tu solo a vita
m’hai ricondotto. Ma costei, dall’Orco
come ritratta a questa luce or l’hai?
Ercole Pugnando io dei Démoni col Sire.
Adméto Morte, vuoi dirmi: e dove l’affrontasti?
Ercole Presso alla tomba stessa io l’afferrava
con mani insidíose.
Adméto   Or, perché dunque
muta si sta la donna mia?
Ercole   Non lice
a te l’udire i detti suoi per anco,
pria ch’ella appien da questi inferni Dei,
giunto il dí terzo, abbia redento il suo
giá consecrato capo. Ma tu intanto,
entro traggila; è tua: benigno poscia,
da quel giusto che sei, te provin sempre
gli ospiti, Adméto. Addio. Volo alla pugna
ch’io proponeami giá, di quí partendo,
far pel figlio di Sténelo, Euristéo,
Re di Micéne.
Adméto   Deh, con noi rimanti;
ospite mio ti voglio.
Ercole   Altra fiata
ciò fia poi: forza intanto emmi, ch’io sudi.
Adméto Felice dunque abbi l’impresa: e questa
mia reggia poscia al tuo tornar ti accolga.

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SCENA ULTIMA

Adméto, Coro.

Adméto A voi, di Fere cittadini, e a quanti

havvi Tetrarchi di Tessaglia, impongo
che canti e feste instituite or sieno
pel fortunato memorando evento:
fumino all’are odori in copia, e aggiunte
sieno vittime opime all’alte preci,
poiché omai piú di pria tornata in fiore
abbiam la vita: ch’io, d’esser beato
piú che nol fossi io mai, non farò niego.2
Coro            Mille havvi modi, onde il voler Celeste
     fra noi si adempia: e mille volte, o Numi,
     le non sperate cose esser voi feste,
     e svanir le sperate:
     per orme inopinate
     guidanci in porto gli Olimpiaci Lumi. —
     Tal fu l’evento della egregia Alceste.


  1. Il Testo dice: Ma tu di pazzia sei multato. Spiegando la metafora col senso piano, e adoprando il verbo al futuro in vece del presente, il traduttore a bella posta ha indebolita alquanto l’espressione dell’ospite.
  2. In questi ultimi versi il Traduttore si è oltre il solito alquanto dilungato, per accrescere appunto la pompa e dignitá dell’ultime parole di Adméto, e del Coro.