Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto quinto
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ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Coro, Adméto, poi Ercole con una Donna
sconosciuta e velata.
di Alcména; e vien verso i tuoi Lari, o Adméto.
Ercole Liberamente, o Adméto, ad uom ch’è amico
favellar dessi, e non serrarsi in cuore
tacitamente i guai. Dianzi, quí giunto,
io di tue angoscie a parte entrar bramava,
a prova io posto amico: ma tu, nulla
pur mi dicevi dell’esposto corpo
della morta tua moglie: anzi, ospitale
tu mi accoglievi nella reggia, in guisa
d’uom, cui premesse un qualche estraneo lutto.
Ed io, credulo, il capo incoronavami,
e in queste afflitte tue stanze spandea
libazíoni ai Numi. Offeso io quindi
men querelo, ed a dritto io men querelo.
Ma pur non vo’ te contristar giá mesto:
e la cagion, per cui sí ratto io torni,
dirotti. In tua custodia or questa donna
serbar mi dei, finch’io tornato adduca
meco i Tracj destrieri, ucciso pria
de’ Bistonj il Tiranno. Ma, s’io mai
per familiar tua ancella abbiti in dono:
travaglio assai nel conquistarla io m’ebbi;
che di vittoria in premio or la mi traggo
da una pubblica giostra, ove agli atleti
doni condegni ai generosi sforzi
erano esposti. Ai vincitor di lievi
agili pugne, premio eran destrieri;
quei, che in piú fero agón di cesti o lotta
vinceano, armenti ne acquistavan pingui:
e in premio inoltre ivi era anco una Donna.
Io, che a sorte la vinsi, arrossirei
di trascurar sí gloríoso lucro:
quíndi, com’io tel dissi, a te il pigliarti
cura si aspetta di costei, ch’io adduco,
rapita no, ma guadagnata a costo
di nobile sudore. Il dí fia forse,
che di un tal don mi applaudirai tu stesso.
Adméto Né in tuo dispregio, né perch’io ti avessi
per mio nemico, a te il destino ascosi
della infelice moglie mia: ma il tacqui,
perché duol mi si fora aggiunto a duolo,
se ai Lari tu d’altr’ospite ito fossi.
Bastava a me giá quel primier mio pianto.
Ma questa donna tua, pregoti, ov’abbi
alcun mezzo, deh vogli, o Re, fidarla
a un qualch’altro fra i Tessali, che immune
sia dai mali ch’io provo. A te non manca
ospiti in Fere: esasperar tu dunque
deh non vogli or la mia recente piaga!
Mai non potrei, mirando entro mia reggia
tal donna, io starmi a-ciglio-asciutto: a infermo
non sovrapporre infermitade: oppresso
dalle sfortune mie giá son, pur troppo!
In qual mai parte della reggia or posta
la giovincella mi verria? (che tale
l’albergherei fors’io, dov’hanno stanza
quei del corteggio mio? ma, come pura
starebbesi ella a giovanetti in mezzo?
Non sono, Ercole, facili a frenarsi
i giovanetti: ed io d’una tua cosa
provida cura prendo. Od io ricetto
lá nel talamo forse le darei
della sepolta Alceste? ahi, come trarre
questa or al letto di quell’altra mia!
Doppio il biasmo ne temo: ogni uom di Fere
me traditor potria nomare a dritto,
s’io dell’estinta ottima moglie in vece,
assunto avessi al letto mio compagna
una altrui giovincella. E qual non deggio
riguardo, inoltre, a quell’adorata ombra,
la cui memoria d’onor tanto è degna. —
Ma tu, qual che ti sii, sappilo, o Donna,
le forme, e i modi, e la statura stessa
d’Alceste hai tu. Deh, trammi (oimè!) dagli occhi,
Ercole, per gl’Iddii te ne scongiuro,
trammi dagli occhi or questa donna; ond’io,
giá deserto, or non pera. — E’ mi par viva
veder la moglie, in rimirar costei:
palpita il core a un tal aspetto, e sgorgami,
dagli occhi un fonte. Ahi lasso me, deh quanto
amaro giá da questo lutto io colgo!
Coro Certo, infelice ell’è tua sorte, o Adméto;
ma sopportar quanto a te manda il Nume,
forza t’è pure.
Ercole Almen da Giove io tanta
possanza avessi, onde a quest’alma luce
dai sotterranei chiostri ricondurre
la tua donna, giovandoti in tal guisa!
Adméto Ben conosco il cor tuo: ma ciò, chi ’l puote?
Non ponno i morti in luce tornar mai.
il tuo danno sopporta.
Adméto È assai piú lieve
gli altri esortar, che il sopportare i danni.
Ercole Ma poi, qual pro’, se tu in perpetuo piagni?
Adméto Anch’io stesso il conosco; e al pianto pure
sforzarmi Amore.
Ercole Amar gli estinti, è pianto.
Adméto Perdeami Amore; ed è piú acerbo il male,
piú assai, ch’io dir nol posso.
Ercole Ottima moglie
(chi ’l niegheria?) ti manca.
Adméto Ottima, a segno,
che a quest’Adméto non sará in eterno
dolce la vita mai.
Ercole Recente or troppo
la piaga: il tempo saneralla.
Adméto Il tempo?
Ben dicesti: la morte.
Ercole Un’altra donna,
e il desio d’altre nozze...
Adméto Oimè! che parli?
Taci: da te non io ciò m’aspettava.
Ercole E che? non piú nozze mai dunque? ognora
vedove piume coverai?
Adméto Non havvi
donna, che omai giaccia d’Adméto al fianco.
Ercole Ma e che? giovar cosí all’estinta or credi?
Adméto Ovunque aggirisi ella, il dover mio
è di onorarla.
Ercole Io laudoti; ti laudo,
ma pur ne avrai taccia d’insano.1
purché tu mai sposo non chiami Adméto.
Ercole Della consorte un fido amante io scorgo,
e ammiro in te.
Adméto Tronca mia vita fora,
di tradirla nell’atto, ancor ch’estinta.
Ercole Ma intanto accogli entro tua reggia or questa;
nobile ell’è.
Adméto Deh, no; te ne scongiuro
pel genitor tuo, Giove.
Ercole Eppur, gran fallo
nel rifiutarla fai.
Adméto Rimorso al core
or mi fora ben altro, l’accertarla.
Ercole Arrenditi: che forse anco opportuno
questo mio don ti fia.
Adméto Deh, non avessi
tu nell’agón vinta pur mai costei!
Ercole Tu pur, nel vincerla io, meco l’hai vinta.
Adméto Sia: ma si apparti or questa donna.
Ercole All’uopo
andrassen’ella; ma veder dei pria,
se ciò ti giovi.
Adméto È d’uopo, andarsen’ella;
fuorché tu poi per adirarten fossi.
Ercole Tal cosa io so, che fammi or teco tanto
insistere.
Adméto Dunque or, benché non grata
cosa a me facci, il tuo voler tu adempi.
Ercole Ma il dí verrá, che men darai tu laude:
arrenditi or soltanto.
Adméto Entro la reggia
scortatela voi dunque, poiché darle
ricetto è forza.
Ercole Ai tuoi ministri io mai
non l’abbandonerei.
lei, se a te piace, entro la reggia adduci.
Ercole Anzi in tua man rimetterolla io stesso.
Adméto Non toccherolla io, certo: ma introdursi
ella ben puote.
Ercole Alla tua destra sola
affidarla poss’io.
Adméto Tu mi vi sforzi,
o Re, bench’io nol voglia.
Ercole Osa; distendi
tua man, su dunque, e l’ospita alfin tocca.
Adméto La stendo io giá; qual se il Gorgoneo teschio
toccar dovessi.
Ercole Or, presa l’hai?
Adméto L’ho presa.
Ercole Serbala or dunque: e sí dirai tu un giorno,
ch’ospite egregio ei fu di Giove il figlio.
In lei, su via, rimira; e s’ella alquanto
alla tua donna si assomigli, indaga.
Felice oh tu! dal pianto omai ti arretra.
Adméto Oh Dei! che dirommi io? miracol nuovo
inaspettato questo. E fia pur vero?
Questa mia moglie io veggo? o un qualche Iddio
vaneggiar fammi in tal fallace gioja?
Ercole No, non vaneggi: e tu in costei ben vedi
la tua consorte.
Adméto Bada, or ciò non fosse
un qualche inferno Spettro.
Ercole Ercol non tieni
prestigiator finora.
Adméto Ed io pur veggo
quella mia donna, ch’io giá seppelliva?
Ercole Sí, quella stessa, sí: né maravigliomi
che prestar fede a sí gran sorte or nieghi.
Adméto Lei palpo, è ver: ma favellarle posso
come alla viva moglie mia?
che appien possiedi quanto mai bramasti.
Adméto Oh volto, oh forme della sposa mia
amatissima! Or dunque, oltre ogni speme,
io che piú mai non mi credea vederti,
or ti posseggo?
Ercole Or sí, tu la possiedi:
né a te la invidj alcun dei Numi omai.
Adméto O del massimo Giove altera prole,
deh felice-sii-tu! chi procreotti,
deh ti conservi! che tu solo a vita
m’hai ricondotto. Ma costei, dall’Orco
come ritratta a questa luce or l’hai?
Ercole Pugnando io là dei Démoni col Sire.
Adméto Morte, vuoi dirmi: e dove l’affrontasti?
Ercole Presso alla tomba stessa io l’afferrava
con mani insidíose.
Adméto Or, perché dunque
muta si sta la donna mia?
Ercole Non lice
a te l’udire i detti suoi per anco,
pria ch’ella appien da questi inferni Dei,
giunto il dí terzo, abbia redento il suo
giá consecrato capo. Ma tu intanto,
entro traggila; è tua: benigno poscia,
da quel giusto che sei, te provin sempre
gli ospiti, Adméto. Addio. Volo alla pugna
ch’io proponeami giá, di quí partendo,
far pel figlio di Sténelo, Euristéo,
Re di Micéne.
Adméto Deh, con noi rimanti;
ospite mio ti voglio.
Ercole Altra fiata
ciò fia poi: forza intanto emmi, ch’io sudi.
Adméto Felice dunque abbi l’impresa: e questa
mia reggia poscia al tuo tornar ti accolga.
SCENA ULTIMA
Adméto, Coro.
havvi Tetrarchi di Tessaglia, impongo
che canti e feste instituite or sieno
pel fortunato memorando evento:
fumino all’are odori in copia, e aggiunte
sieno vittime opime all’alte preci,
poiché omai piú di pria tornata in fiore
abbiam la vita: ch’io, d’esser beato
piú che nol fossi io mai, non farò niego.2
Coro Mille havvi modi, onde il voler Celeste
fra noi si adempia: e mille volte, o Numi,
le non sperate cose esser voi feste,
e svanir le sperate:
per orme inopinate
guidanci in porto gli Olimpiaci Lumi. —
Tal fu l’evento della egregia Alceste.
- ↑ Il Testo dice: Ma tu di pazzia sei multato. Spiegando la metafora col senso piano, e adoprando il verbo al futuro in vece del presente, il traduttore a bella posta ha indebolita alquanto l’espressione dell’ospite.
- ↑ In questi ultimi versi il Traduttore si è oltre il solito alquanto dilungato, per accrescere appunto la pompa e dignitá dell’ultime parole di Adméto, e del Coro.