Abissinia/Capitolo IX

Capitolo IX

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CAPITOLO IX.

Nuovamente in carovana. — Passaggio del Taccazé. — Folta vegetazione. — L’ipopotamo. — L’Amara. — Incontro del Cighiè. — Strana struttura del terreno. — La salita di Wogara. — I principali corsi d’acqua d’Abissinia. — I talleri. — Gondar e lago Tzana visti da lontano. — Arrivo al campo reale. — Primo ricevimento del re.


Quando le prime gocce di pazienza cominciavano a traboccare dal calice, il giorno di rimetterci in carovana venne finalmente e fu deciso per lunedì 28 aprile. Il nostro Tagliabue è un po’ meglio, ma non potrebbe affrontare gli strapazzi di un lungo viaggio, per cui lo affidiamo ad un negoziante amico di Naretti che fra qualche giorno parte per Massaua.

Fin dal mattino facciamo trasportare il nostro bagaglio sulla piazza del mercato, e caricate le mule, le mandiamo ad aspettarci la sera ad Axum.

Fu un momento ben triste quello di salutare il povero Tagliabue che lasciavamo solo e in malferma salute, e ben triste dev’essere stato quel momento anche per lui. Speriamo che Dio lo assista nel viaggio, e possiamo al ritorno ritrovarlo completamente rifatto.

Al tramonto arriviamo noi pure in Axum, dove troviamo le tende piantate e il resto della carovana. Due giovani svedesi, della missione protestante, che da più di un anno stanno attendendo in Adua il permesso del re di presentarglisi, approfittano [p. 163 modifica] della nostra occasione e seguono le nostre orme, mantenendosi però completamente indipendenti.

Ghedano Mariam ci fece sapere che diede ordini perchè nei villaggi ci diano pane, tecc, carne e tutto quanto l’occorrente, ma cominciando da qui ci dicono che Axum è territorio sacro e riservato al potere ecclesiastico, non al civile, che quindi non hanno nessun obbligo verso di noi, e ci rifiutano persino un po’ di legna per cuocere il pane dei servi che dovettero così rinunciare al loro pasto.

Martedì 29. Grandi noie colle mule che si rifiutano al carico e cogli abitanti che ci seccano e ci soffocano di domande e di consigli. Finalmente verso le nove si parte. Proseguiamo verso ovest e sud-ovest sempre fra alture e altipiani, dove le prime piogge hanno per lo meno tolto l’impronta di assoluta aridità. Dapprincipio euforbie e acacie, parecchi arbusti, qualche ficus e in alcuni punti dei peschi selvatici, il cui frutto è verde, piccolo, lanoso, quasi immangiabile. A sud vediamo nelle nebbie la catena del Semien che si eleva a guglie acuminate: le alture che ne circondano sono generalmente arrotondate ed alcune volte hanno l’originale profilo orizzontale interrotto da coni e pareti verticali delle formazioni basaltiche. Alle due circa troviamo il nostro accampamento formato a Maiscium, a 2250 metri di elevazione, in un piccolo altipiano e poco lontano dal villaggio dello stesso nome. Il giorno appresso ci incamminiamo alle sette in coda al bagaglio. Aumenta la vegetazione, qualche grosso ficus e folti gruppi di palmizii dove v’è dell’acqua. La natura sempre la stessa, la direzione sud-ovest. Mentre pensiamo fare una breve sosta per rifocillarci, scorgiamo le nostre tende piantate. Siamo vittime di un intrigo dei nostri servi che hanno già tutto scaricato per non continuare più oltre, e sì che quando le mule sono cariche, il proseguire per loro non è poi gran fatica: ma l’indolenza è molta e il bene dell’intelletto è poco. Siamo a 2100 me[p. 164 modifica] tri, in un ampio vallone circondato da monti abbastanza verdeggianti ma poco popolati da villaggi; la posizione è detta Selahlaha.

Abbiamo grandi divari di temperatura: di giorno sole cocente e di notte assolutamente freddo.

Giovedì 1° maggio. Prima di giorno si suona la sveglia e così per le sei il bagaglio è partito e noi ci incamminiamo in coda a lui. Ci eleviamo passando di altura in altura dove la vegetazione non è gigantesca ma abbondante. Ulivi, euforbie, ficus predominano, poi molti cespugli ed arbusti fra cui eleganti gelsomini che coi loro fiori profumano l’atmosfera. In alcuni punti la via è molto erta e ingombra da pietre e rami che la attraversano, È un continuo muover di gambe e inchinarsi per non rompersi le ginocchia o lasciare un occhio infilato a qualche spino. Giunti all’estremo di un breve altipiano ci si presenta sotto una vastissima pianura che raggiungiamo, costeggiando le alture che da est ad ovest la circondano, e vi facciamo l’incontro di una grossa carovana che dalla provincia di Wolkait porta in Adua seme di cusso, cotone e scemma fatti, avvolti in stuoie o in pelli da bue. Alle otto passiamo il piccolo villaggio di Bellés che prende o dà il nome alla pianura nella quale sorge. Proseguiamo in direzione sud-ovest, scendiamo e risaliamo una fenditura ad uso crepaccio da ghiacciaio, nel fondo della quale scorre un torrente, e verso mezzogiorno troviamo ferma la carovana all’estremità opposta della pianura, rimpetto al villaggio di Addo-Anfito, a 2000 metri di elevazione. A sud la pianura si protende fino all’orizzonte frastagliato delle acuminate vette del Semien.

Il capo del villaggio dove accampammo ieri venne a farci mille scuse per non averci dato il pane e una vacca, e ci offre in compenso sei talleri. Ci pare poco dignitoso l’accettarli, ma Naretti lo vuole, dicendo che in caso diverso la voce corre subito di villaggio in villaggio, e per tutto il viaggio non otter[p. 165 modifica] remo più niente. È uso che quando si viaggia sotto la protezione del re e scortati da un soldato, i villaggi devono dare tutto quanto è necessario alla sussistenza dell’intiera carovana. Si hanno però sempre mille noie e litigi ad ottenerlo, quantunque dicano che i contadini non ci perdono nulla venendo questo dedotto sul pagamento delle imposte; d’altronde non regge la coscienza di portar via il pane a questi miserabili che si vede ne hanno realmente poco. Consiglio dunque a chiunque voglia intraprendere un viaggio simile di non assogettarsi a questa generosità imposta, di portarsi delle provvigioni, comperare quanto necessita e accampare anzi possibilmente a qualche distanza dai villaggi.

Viene un individuo ferito al dorso, dove dice di aver ricevuta una fucilata e ci promette, se sappiamo estrargli la palla, una meschina gallina che merita piuttosto il titolo di pulcino. L’arte medica non farebbe certo fortuna in questo paese.

Verso sera, con un baccano infernale, arriva una carovana di forse 150 individui che cantano, gridano, suonano ghitarre e flauti di canna, per festeggiare il matrimonio del fratello del governatore che mette il suo campo a pochi metri dal nostro. Vanno così girando e gozzovigliando per parecchi giorni, e sono un vero flagello pei poveri paesi dai quali passano.

Il giorno seguente facciamo sette buone ore di marcia attraverso pianure comode per le cavalcature, ma monotone per noi, e ci fermiamo al villaggio di Zembellà a 1800 metri.

Sabato 3 ci incamminiamo alle sei e si continua per due ore nell’altipiano stesso, poi si comincia una ripida discesa fra vallate coperte da vegetazione fra cui primeggiano grossi alberi di gardenia dai fiori grandissimi, che quasi rendono l’atmosfera troppo carica del loro delicato profumo. Più ci abbassiamo, il caldo aumenta, fino a diventare soffocante. A mezzogiorno, sortendo da un folto bosco ci troviamo dinanzi il Taccazè che colle sue acque fangose scorre tranquillo e quasi imponente; lo [p. 166 modifica] passiamo a guado essendo meno di un metro di profondità al centro, e una sessantina di larghezza. Eccoci entrati nella provincia dell’Amara, ed eccoci forse chiusa la sortita per parecchi mesi, se il forte delle piogge ci sorprende prima che possiamo incamminarci pel ritorno. Scorre piuttosto incassato fra un vero ammasso di alture, ed ai lati è fiancheggiato da vegetazione folta, rigogliosa, gigantea; gli alberi secolari sono legati fra loro da una vera rete di liane, e centinaia di scimmie li popolano e ci divertono coi loro gridi, salti e modacci. Mettiamo il campo sotto colossali acacie e adansonie, poco sopra il livello dell’acqua che scorre a 950 metri di elevazione. L’incanto della posizione avrebbe bastato a farci passare intere giornate, ma per le poche ore che vi restiamo troviamo invece ad aggiungervi caccia di antilopi nelle colline, di anatre e oche nel fiume e dell’ipopotamo, che sollevando la testa fuori l’acqua e sbuffando, ci fece consumare buon numero di cartucce.

In questa stagione l’aria è buona presso i fiumi, ma dopo le piogge è altrettanto pestilenziale, e ciò deriva dalla grande vegetazione che impedisce la corrente d’aria, e dalla piccola vegetazione annuale e dalle masse di foglie che cadono e che vanno in putrefazione, dando così origine ai miasmi che sono un vero veleno.

La domenica mattina per tempo ci avviamo per una salita ertissima, dove in alcuni punti si arrampica materialmente di roccia in roccia, accompagnati da un’afa soffocante e da un sole infuocato. Dopo un paio d’ore siamo al ciglio dell’altipiano, voglio dire siamo usciti dalla grande infossatura in cui scorre il Taccazè, e siamo tornati alle aure più pure di 1500 metri d’elevazione.

Proseguiamo verso sud, in direzione della catena del Semien che ha l’aspetto di un vero caos di dirupi, castelli diroccati, aguglie, torri monche e simili. Le mule sono alquanto af[p. 167 modifica] faticate e quasi digiune da ieri l’altro, chè presso il fiume v’erano delle piante, ma non dell’erba, per cui, appena scorgiamo un pascolo nel quale, fra un gruppo di grandi alberi, sta una sorgente d’acqua, ci fermiamo, quantunque siano di poco passate le dieci. La località è detta Salamatu. E dietro consiglio dei servi, certo per capriccio loro più che per necessità, sostiamo qui tutto il giorno dopo, sempre a preteso beneficio delle mule. Ce la passiamo cacciando nei dintorni, dove sono gazzelle, pernici e faraone. Ci raggiunge un soldato del re che fu guida al nostro corriere, il quale, ci si dice, è per altra via andato a cercarci in Adua con un grande che S. M. mandava ad incontrarci e accompagnarci. Certo non vogliamo perdere delle giornate per aspettarlo, molto più nel dubbio che ci possa raggiungere, e quindi la mattina di martedì 6 per tempo ci rimettiamo in strada verso sud e sud-ovest, girando valli e passando alture; in generale tendiamo a scendere e ci fermiamo infatti alla una in località detta Angrè, a 1300 metri, presso il torrente Buja. In generale la vegetazione è piuttosto abbondante, foltissima poi presso i torrenti, dove sono affratellate palme, acacie, lauri, gelsomini e cento altre varietà di piante, di arrampicanti, e di parassiti. Due volte ebbimo oggi incontri di scimmie, ed una volta grossissime e si allontanarono di poco al nostro sopraggiungere, per disporsi sulle rocce del ciglio di un burrone a mirare il nostro passaggio.

Verso mezzogiorno incontriamo gente e mule portanti carichi con tappeti e spade dalle impugnature d’argento, ciò che ci fa supporre che qualche grande sia poco lontano da noi. Domandiamo, ed è infatti il Cighiè, capo civile ed ecclesiastico di Axum, che viene dal campo del re. Dopo poco lo incontriamo, seguito da moltissima gente in parte armata, in parte portante i suoi effetti, tende, cuscini, croci, vasi pel tecc, ecc. È un bel vecchio dalla barba bianca e dal tratto simpatico; cavalca una mula [p. 168 modifica] con bardatura a ricami in pelle a diversi colori e gualdrappa ricamata con filo e lavori in argento. Amico di Naretti, ci fece a tutti quanti festosa accoglienza, volle scendessimo tutti dalle mule, ci sedemmo in circolo, alcuni servi stesero uno scemma sulle teste per difenderci dal sole e ci fu servito dell’eccellente tecc. Si improvvisò così un accampamento molto originale e fantastico, circondati come eravamo da tanti servi, soldati, muli e cavalli.

Mercoledì 7. È un continuo succedersi di alture che rendono faticosissimo il cammino non essendovi strade tracciate e dovendo sempre salire la vetta di una per ridiscendere e risalire sull’altra, Si direbbe uno sconvolgimento di materia liquida che d’un tratto si solidificò, un vero mare in burrasca, e non si può raccapezzarvi un seguito di valli nè di monti, se non la catena del Semien, parallelamente alla quale camminiamo, attraversando di quando in quando qualche torrente che da esso scende. Dopo cinque ore di faticosa marcia ci fermiamo a Adercai, presso il torrente Maitaliet, a 1600 metri. Lungo la via il suolo è spesso nero, di aspetto desolante, che per disporlo alla coltivazione fu incendiato tutto quanto di flora lo copriva, e solo sporgono dallo strato di ceneri i mozziconi carbonizzati delle piante che vi vivevano. Dove ancora si conserva, l’erba secca è alta e forte da sembrare canneto; frequenti grossi mucchi di terra, nidi e abitazioni di formiche.

Per noi Italiani non si potrebbe trovare parola che meglio di Abissinia qualifichi il paese che rappresenta, il vero paese degli abissi. Non parliamo delle alte catene che sono di costituzione spaventosa e frequentissimi nascondono i punti inaccessibili, ma prescindendo da questo, l’Abissinia va considerata da un punto di vista tutt’affatto opposto agli altri paesi; cioè, mentre in qualunque altra regione, dal livello medio su cui si cammina, la natura offre alla nostra ammirazione delle catene di monta[p. 169 modifica] gne, qui bisogna considerare come piano elevato l’altipiano stesso che costituisce il suolo del paese, ed ammirare i burroni e le vallate che si sprofondano sotto questo livello. Così abbiamo viaggiato per intere giornate nella media di 1500 metri di elevazione, siamo discesi a 950 per passare un fiume e risalimmo subito ancora a 1500, e lo stesso si ripete per tutti i torrenti. E persino nei piccoli altipiani secondarii, spesso si incontrano larghe e profonde fenditure dalle pareti di nuda roccia e dal fondo coperto da vegetazione, che è forza girare all’origine o passare scendendo al fondo, se possibile, perfettamente come si opera all’incontro di un crepaccio in un ghiacciaio.

Abbiamo nella notte l’incomoda visita di una dirottissima pioggia. Ripartiti la mattina seguente incontriamo dopo due ore il torrente Ansia e dopo quattro ore l’altro torrente Enzo, che scendono piuttosto impetuosi e che è forza passare a guado. Sulla via incontriamo la carovana di Degiatch Area, governatore di questa provincia, che ci presenta dei vasi di tecc e di miele. Sempre il noioso e faticoso saliscendi di una sequela di alture, e dopo il passaggio dell’ultimo torrente una ertissima salita ci porta in posizione detta Golima, dove ai piedi di una parete di rocce basaltiche verticali, troviamo la carovana ferma verso le quattro. La direzione sempre sud-ovest, l’elevazione 1750 metri.

Venerdì 9. Costeggiamo il monte fino ad incontrare sulla destra un avvallamento che ci permette di passare sull’altro versante per scendere nel fondo della valle e guadare il torrente Zerima che ha un letto larghissimo, ma ora vi scorre poca acqua. Verso mezzogiorno raggiungiamo l’accampamento di Naretti, ma i nostri servi per un puntiglio nato fra loro, hanno voluto proseguire.

Ci riposiamo fino alle due, poi proseguiamo e dopo una leggiera salita ridiscendiamo per seguire il corso di un torrente asciutto e tortuoso che attraversiamo almeno una dozzina di [p. 170 modifica] volte. Non abbiamo guide, e nessuno cui domandar consiglio quando ci troviamo ad una biforcazione della vallata; seguitiamo quindi dove ci pare più ragionevole dover essere la nostra direzione, ma il dubbio ci accompagna dello sbagliar strada. Passa un’ora, ne passano due e più, il cammino si fa sempre più cattivo e a cento doppii aumenta ad ogni passo il timore d’essere su falsa strada; la vallata ci appare chiusa e davanti ci sta un’ertissima salita che è pur forza superare, e a divagarci abbiamo parecchi incontri di grossissime scimmie. Dal colmo dell’altura si stende dietro noi un estesissimo panorama di tutto il territorio che attraversammo da Adua in qua; un vero ammasso di coni e di avvallamenti, perfettamente l’effetto di una carta geografica in rilievo. A sud la catena imponente del Semien che si protende verso ovest, dove ci sta dinanzi la parete quasi verticale del monte di Wogara che dovremo oltrepassare, e del quale ci fecero pitture così nere, dicendolo tanto erto che le mule cariche non lo possono salire, ed è forza farvi trasportare il bagaglio a dorso d’uomo. Discendiamo di pochi metri in un altipiano in gran parte coltivato, sparso di acacie e di enormi gruppi di gelsomini affratellati alle rose, e in fondo al quale sorge un’altura la cui vetta è coronata da piante e sul cui versante, a diversi gruppi è sparso un villaggio. Lì presso è piantata la nostra tenda che vediamo con somma gioia, perchè il sole volge al tramonto, e sempre abbiamo compagna l’ansia dell’esser fuori strada. Il villaggio è detto Dibbi-bahar, a 2200 metri. La posizione è bella, il pascolo abbondante, e ciò ci rallegra, perchè prevediamo che domani si dovrà fermarsi qui in attesa dell’altra carovana. È stata oggi una vera giornata campale pel cammino e quaresimale pel pasto, chè la via fu lunga e faticosa, la colazione di un po’ di chissera o pane del paese e il pranzo la stessa cosa con un po’ di miele. Non si ha pericolo, almeno, di soffrire imbarazzi allo stomaco. La sera però possiamo [p. 171 modifica] comperare un bue che domani ci rifocillerà del digiuno d’oggi. Oltre al resto, dalle due alle tre, abbiamo avuto, come da parecchi giorni, l’accompagnamento di forti acquazzoni.

Domenica 11. Appena fatto giorno ci mettiamo in moto ed oltrepassata un’altura che ci stava alle spalle, ci troviamo sul ciglio d’una costa che per originalissima natura si innalza a fare quasi diga, che taglia un profondo vallone che sotto ci si distende.

Oltre questa la salita comincia e si va facendo sempre più dura, finchè raggiunto il pendio del monte che ci stava di contro, si sale per tali gradinate di roccia che meglio che camminarvi bisogna arrampicarvi, e in molti punti è forza scaricare le mule e far portare il bagaglio a dorso d’uomo. Quanto faticassero uomini e mule non è a credere, e fortunatamente tutto passò senza tristi incidenti, chè un passo fallito poteva avere ben serie conseguenze. Verso le undici arriviamo al termine della salita più terribile, e ci troviamo in un piccolo altipiano, in bellissima posizione, con verdi pascoli sparsi di gruppi d’alberi, un vero parco inglese a 2750 metri. Proseguiamo poi per un sentiero che sale fra boschi in cui predominano mirti, tuie, piante dalle foglie della magnolia, ma più scura e meno lucida, rose, gelsomini e molti arrampicanti. Il sentiero è molto erto ancora, e ci porta alla vetta a 2950 metri, da dove si stende dietro noi l’esteso ed originale, ma monotono panorama delle montagne che veniamo d’attraversare dal Taccazè in poi; alla nostra sinistra sempre l’irta catena del Semien di cui calpestiamo uno sprone, e rimpetto a questo, l’infinito orizzonte che va a confondersi con una miriade di alture che si succedono decrescendo verso le pianure del Sudan; avanti a noi una distesa di colli verdeggianti, gruppi d’alberi e tratti completamente bianchi per le masse di fiori simili a gigli che vi stanno sparsi. Siamo in provincia di Wogara e alle due piantiamo le tende rimpetto al villaggio di [p. 172 modifica] Dewark. Il capo ci fa sapere che, ammalato, non può visitarci, ma spera vederci; andiamo a trovarlo nel suo affumicato tucul dove sta accovacciato accanto al fuoco con un braccio fasciato perchè fracassato da una palla ricevuta or fa un anno nello Scioa; e così se ne sta inerte e soffrente da tanto tempo.

Fu cordialissimo, ci trattò di tecc, volle regalarci un montone e del miele e chiese qualche medicamento.

Stanche le mule di questa giornata campale, siamo consigliati di fare il giorno appresso una tappa piuttosto corta. L’aspetto della campagna è molto cambiato dai giorni scorsi, e qui abbiamo lunga distesa di terreni ondulati, solcati di quando in quando da fenditure in cui scorre un po’ d’acqua; verdeggiante il suolo, e sparso di grosse macchie di acacie dal fiore bianco; aspetto bello, grandioso, vero parco popolato da piccoli villaggi sulle creste delle alture e da molto bestiame pascolante. Dopo circa quattro ore di marcia, mettiamo il campo presso il villaggio di Doquà a 2750 metri. Questi villaggi sono tutti costrutti su di uno stampo, e tolta la prima impressione d’originalità, hanno per vero dire poco di artistico; i più grandi hanno la chiesa al centro, nel punto più elevato e spesso circondata da tuie pendule. La sera, dal villaggio ci portano una vacca, quattrocento pani e sessanta uova; si capisce che ci avviciniamo al campo del re, e la paura frutta generosità.

Grande è l’importanza della catena che abbiamo passata ieri per l’orografia d’Abissinia. Presa infatti a considerare questa in blocco, vi troviamo il gruppo del Semien e la catena del Lasta che formano da spartiacque, dando origine verso sud ai torrenti che vanno ad unirsi all’Havasch che va a scendere nelle provincie dello Scioa, e verso nord ai torrenti che vanno ad ingrossare il Nilo; questi poi possiamo dividere in due categorie, la cui distinzione è appunto dovuta alla cresta di Wogara che ieri attraversammo, e questa cioè dà luogo al versante che scende [p. - modifica]Chiesa di Doquà costrutta entro mura portoghesi [p. 173 modifica] a nord-est, le cui acque vanno a raggiungere il Taccazè, che nato nelle più alte regioni del Semien, ne gira verso nord e nord-ovest il gruppo principale, riceve nel suo corso tutti gli affluenti del versante occidentale, si unisce all’Atbara che scende dal Galabat, si fonde col Mareb, e col nome di Atbara si versa nel Nilo poco superiormente a Berber. L’altro versante che è delineato dalla costa di Wogara volge invece a sud-ovest, e le sue acque vanno a versarsi nel lago Tzana, da dove sortendo per il Nilo Azzurro, dopo non breve corso si uniscono a Cartum a quelle del Nilo Bianco, e presso Berber ritrovano le compagne che cadute forse a pochi metri di distanza sulle vette dei monti Etiopici, percorse vie quasi opposte, vengono a ritrovarsi nel più storico dei fiumi, dopo centinaia di chilometri di percorso.

Martedì 13 ci rechiamo a visitare la chiesa, interessante perchè sorge entro una costruzione antica portoghese, rettangolare, merlata, con torri agli angoli, aperture ad arco ed internamente divisa in specie di corridoi a volta. Il tutto però in rovina e credo che fra non molto si ridurrà ad un mucchio di avanzi e nulla più.

Alla partenza siamo circondati da tutte le vecchie megere del villaggio che piangono e strillano, pregandoci lasciare la vacca che ieri sera ci hanno offerto e che per loro è preziosa; ma Naretti impassibile non cede, malgrado i nostri suggerimenti, e il magro animale segue la carovana bastonato ad ogni passo da un servo. Proseguiamo verso ovest, poi giriamo a sud-ovest; ritorna il carattere delle alture abissinesi a profilo orizzontale e scendenti a scaglioni simili a fortificazioni; poca vegetazione, pascoli meno verdeggianti e poche acacie. In un immenso bacino, sui pendii delle alture che lo determinano sono sparsi parecchi villaggi, e al centro sorge un’altura isolata, quasi un cono tronco. Al vertice scorgiamo un insolito movimento, molte persone incontriamo per via, molti gruppi troviamo fermi sotto le acacie [p. 174 modifica] ombrellifere, artisticamente disposti con donne accovacciate, buricchi carichi coi soliti involti di pelle, cavalli originalmente bardati, servi con fucili e lance e scendi.

È il mercato settimanale che si tiene qui sopra, come punto centrale ai villaggi del bacino nel quale ci troviamo. Attraversiamo il mercato che non ha che sale, pelli, bestiame, qualche tessuto del paese, e ai piedi del versante opposto dell’altura troviamo fatto il nostro accampamento. Il posto è detto Ciambilghé, a 2700 metri. Vengono parecchi capi e grandi dei villaggi circostanti a fare discussioni e offerte che poi all’atto pratico si riducono, come di solito, a ben poca cosa o a nulla affatto.

Richiedono gli Abissinesi che i talleri abbiamo le perle del diadema e del fermaglio alla spalla nell’effige di Maria Teresa, molto visibili, più pretendevano nel Tigrè che fossero nuovi, lucenti. Qui mandiamo i servi al mercato per fare qualche acquisto, ma se ne tornano a mani vuote, dicendo che si credono i talleri falsi e fabbricati da noi perchè troppo puliti.

Non ebbimo che accendervi vicino un po’ di polvere per renderli forse non apprezzabili da un nostro antiquario, ma accettabili da questa brava gente che si trovò pienamente soddisfatta degli stessi talleri che rimandammo dopo due minuti.

Mercoledì 14. Il capo del villaggio non volle ubbidire alla guida del re che ci accompagna, per cui questi lo lega con una corda e lo trascina minacciandolo di condurlo così fino in presenza di S. M. Proseguiamo verso sud e sud-ovest, a seconda delle divergenze che ci obbligano di fare le alture.

Il terreno è in generale ondulato, e passiamo come una sequela di bacini circolari rinserrati da lievi alture, ma aperti verso sud-est, dal qual lato hanno i loro scoli nelle lontane vallate del Semien. Molti pascoli, ma poco bestiame, paese ricco per natura, ma spopolato e povero per mancanza di braccia e per ignoranza. Verso le due ci fermiamo al villaggio di Coraggit, a [p. 175 modifica] 2950 metri. Abbiamo compagni dei venti di nord-est che ci risparmiano le piogge che da lontano si vede tentano di avanzare. La notte e la mattina molto freddo e molta umidità. Proseguiamo il giorno appresso volgendo a sud, su di un lungo altipiano fatto a lingua, dalle posizioni più alte del quale si scorgono ad est le profonde vallate che vanno al gruppo del Semien, e ad ovest le posizioni del Gondar e delle vaste pianure che dietro questo si distendono, e dopo cinque ore di tappa ci fermiamo a Mariam-oaha (acqua di Maria) a 2720 metri, in posizione assai romantica e isolata. Una massa di aquile e di avoltoi piombano attorno al campo e fendono l’atmosfera colle loro lunghe e ardite spire sopra le nostre teste; un’enorme aquila dal becco arcuato e dalle gigantesche zanne, uccisa con un colpo di fucile, misura da un estremo all’altro delle ali, poco meno di tre metri.

Il venerdì si continua sullo stesso altipiano che va restringendosi fino a diventare un vero dorso di mulo, finchè ci si presenta, quasi a tagliarci la via, un’altura dal ciglio orizzontale, sulla quale ci troviamo a 2900 metri, e ci si presenta ad ovest il Gondar steso su un colle, alla vetta del quale si distinguono degli edificii rettangolari, le rovine dei palazzi portoghesi; e a sudovest una striscia biancastra, luccicante pel sole che vi riflette i suoi raggi, ci indica il lago Tzana. Ecco due punti che formavano buona parte delle mie aspirazioni, e che già posso distinguere coll’occhio mio. A rivederci fra poco più davvicino, e intanto proseguiamo per assistere all’altro spettacolo, il ricevimento e l’accampamento del re dei re, l’imperatore d’Etiopia.

A volte attraversiamo ridenti pascoli, a volte folta vegetazione con acacie, ulivi, euforbie, gelsomini, grossi cespugli di rose dal fiore semplice e bianco. Più avanziamo, meglio si distende sotto noi il lago che appare assai vasto e sparso di isole. Ci fermiamo per la notte a Ambaciarà, meschino villaggio di poche capanne, e continuiamo il sabato, presso a poco collo stesso pae[p. 176 modifica] saggio che va però assumendo carattere più alpestre, per circa quattro ore, per fermarci ad Amba-Mariam, a 2920 metri, nel centro di un vasto altipiano tutto coltivato ed assai fertile, e sparso di molte abitazioni che sono tutte capanne come quelle del Tigré, ma forse più meschine, chè difettano maggiormente quelle col muro circolare, e quasi tutte hanno per parete una semplice siepe di rami secchi, tutt’al più impastati con fango. Nei cortili si vede qualche musa ensete, e sparso nei campi un grosso albero dal portamento elegante e dal legno durissimo, detto querc, il cusso che nelle masse ricorda il nostro castano, ma ha un verde più chiaro, il tronco rossastro, e porta grossi grappoli dai quali si fa il decotto usato contro il tenia.

La domenica 18 attraversiamo in direzione sud-est il vasto bacino che ci sta davanti, poi principiamo una discesa entro un vallone orrido e pittoresco; è profondo, massi conici di nuda roccia sporgono qua e lì, le pareti dei monti sono alternate da strati a lieve pendio su cui alligna vegetazione, e strati verticali di prismi basaltici. Noi corriamo sul pendio di uno di questi monti, la vegetazione è abbastanza fitta senza essere grandiosa; frequenti piccole sorgenti di acqua, sempre circondate da belle palme e muse. Cominciamo nuovamente a salire, giriamo più a sud, ed oltrepassato un enorme masso dalle pareti basaltiche, scorgiamo alla nostra destra, in fondo ad un vallone, il lago Tzana che lambe la catena sulla quale camminiamo. A 2900 metri troviamo ancora un altipiano che attraversiamo per trovarci poi dinanzi una forte e tortuosa discesa, percorsa la quale raggiungiamo le nostre tende piantate vicino al villaggio mussulmano di Derita a 2250 metri, entro un bacino assai vasto, circondato specialmente ad est da monti piuttosto alti.

Come prima influenza del cambiamento di religione, i capi vengono subito ad offrirci del caffè, cose non mai usata dai cofti. [p. 177 modifica]

Un povero pazzo, completamente nudo, gridando a squarciagola corse attorno al nostro campo mettendo lo scompiglio nelle mule, poi, vedendo che di un montone ammazzato si erano gettate le interiora, si slanciò come jena su queste e si mise a rosicchiarle.

Mentre contempliamo questo compassionevole spettacolo, un altro se ne aggiunge; un grosso falco, che forse vecchio abitatore di queste vallate, sapeva con chi aveva a fare, per ben due volte ebbe tanto ardire da lanciarsi a prender la preda fra mano e bocca del disgraziato.

Lungo la via da Adua in qua, incontrammo spesso piccole compagnie di povera gente che la miseria consigliò di traslocare da un villaggio all’altro, e che torna nel Tigré da dove sfuggì la carestia. Sono tutti miserabili, macilenti, coperti da pochi cenci, coll’impronta della fame e delle sofferenze scolpite nelle carni. Le donne sono cariche dei loro bambini che portano sospesi sul dorso con pelli ricamate con conchiglie, e di panieri e zucche; nei primi portano gli avanzi del pane fatto la mattina o il giorno innanzi, nelle seconde, burro, berberia, acqua ed ogni altra cosa. Le lavorano bene, adattandovi un coperchio e maniglie di liste di pelle; sostituiscono insomma quello che da noi si fa con vetro, terra cotta, metallo o porcellana. Le piccole, tagliate a metà servono inoltre da bicchiere. Credo che proprio da questo frutto si sono sperimentati tutti gli usi possibili e immaginabili.

Oggi incontrammo pure una carovana che veniva dal Goggiam con caffè. I carichi erano portati in parte da boricchi e in parte da giovani alte, nere, seminude, dal tipo schiacciato. Sono schiave sciangalla, per modo che arrivati in Adua si fanno le due vendite, del caffè e di chi lo ha portato...

Lunedì 19: in direzione sud-ovest andiamo discendendo per una bella vallata, larga, verde, in alcuni punti fitta di ricca vegetazione, e raggiunto il vasto piano in cui va a spegnersi, gi[p. 178 modifica] riamo dolcemente a sud, per proseguire su d’un piano inclinato sparso di acacie, fra cui alcune gommifere, e grossi ficus.

Passiamo un torrente che ai tempi dell’Abissinia fiorente, pare scorresse impetuoso, perchè i Portoghesi vi costrussero un ponte di cinque arcate, e alle tre circa ci fermiamo ad Amoraghedé, a poche ore dal campo reale. Dove raggiungemmo la pianura, avevamo 1950 metri di elevazione, e dove abbiamo stabilito l’accampamento, siamo risaliti a 2120 circa.

Martedì 20. Abbiamo avuto nella notte uno di quegli acquazzoni equatoriali, che pareva volesse sprofondarci colla tenda. La mattina tutti i servi sono messi a nuovo colle loro camice pulite e con quel po’ di roba che si ebbero da noi in regalo; chi un paio di pantaloni, chi una camicia di flanella, chi un fazzoletto in testa, chi un paio di scarpe rotte, chi un gilet; in complesso una scena variata, originale e ridicola, e il ridicolo maggiore lo dava Francisco, un servo del Sudan, colla sua faccia mista da buffone e da idiota, nera come ebano, con scarpe, pantaloni, giacchetta e cappello all’europea, la cintura da revolver e una lunga lancia in mano; un vero tipo da buttafuori da compagnia di saltimbanchi. Tutto è pronto, ma dobbiamo ancora aspettare, che nella lunga tappa di ieri alcune bestie rimasero in strada, e fra queste quella che porta la cassa colla croce da cavaliere di Salomone del nostro Naretti, e senza il distintivo non vuol presentarsi a sua Maestà.

Alle nove finalmente lasciamo il bagaglio, come di prammatica nelle circostanze solenni, e noi partiamo soli. Francisco inforca un magro cavallo bianco, e questo completa la macchietta. Si finisce di salire il piano inclinato, poi si comincia un’erta salita entro una valle per raggiungere un vasto altipiano nel quale continuiamo la nostra via. Sono vaste distese di pascoli, di terreni coltivati, di alture che si innalzano coperte da folta vegetazione, e noi andiamo continuamente attraversando or degli uni [p. 179 modifica] or delle altre. Il grande movimento che incontriamo lungo la via ci mostra sempre più che andiamo avvicinandoci alla meta. Sono truppe di buoi, che pagati quale tributo, si spediscono ai mercati o alle provincie per ricompensa, vendita, dono od altro; sono soldati licenziati che se ne vanno ai villaggi loro assegnati per farvisi mantenere, o che fanno ritorno alle case loro; sono contribuenti che tornano coi somari, muli o cavalli vuoti dopo aver pagato le imposte, sono capi di villaggi che furono dal re per presentare omaggi o reclami, sono gente fortunata che torna libera da un giudizio reale. Sulle vette di un’altura scorgiamo una gran chiesa; è la grandiosa chiesa del Salvatore che aveva cominciato a costrurre re Teodoro; non siamo dunque tanto lontani dalla meta, e facciamo una fermata sotto un’acacia, dove il buon Naretti indossa la sua camicia rossa a fiori gialli, vi appende la croce del prezioso cavalierato e si avvolge nello scemma ricamato dell’ordine; la sua signora mette pure il suo manto e l’elegante bornus da gran dama. La carovana acquista importanza e ci avviciniamo al supremo momento.

Molti villaggi sparsi, molto terreno coltivato, in complesso bel paesaggio; in un punto vediamo contemporaneamente seminare e raccogliere frumento in due campi attigui. Giriamo un’altura, coronata da folta verdura, e sui pendii della quale siede un grosso aggruppamento di capanne, e ci si presenta uno spettacolo senza confini, di moto, di originalità, di estensione.

Avanti a noi, sparso in ogni direzione, il campo dell’esercito reale. Sono ammassi di capanne grandi e piccole, vecchie e nuove, di tende bianche e nere; un formicolio di gente, un avvicendarsi di gruppi a piedi, a mulo, a cavallo, di piccoli accampamenti separati che pare vivano di vita propria, un luccicare di armi e uno sventolare di toghe bianche e rosse, un susurro e un gridio, un vero vortice sfrenato di moto e d’animo che si spande a perdita di vista sulle lievi alture e nei larghi avvallamenti [p. 180 modifica] che da ogni lato si distendono e circondano un’altura elittica, pure tutta sparsa di attendamenti, e la cui vetta è cinta da una muraglia sulla quale si innalzano alcune acacie e qualche tetto conico. È questa la reggia; è là che fra pochi minuti ci troveremo al cospetto del re dei re. Attraversiamo il forte dell’accampamento; tende e capanne meschine, ma a migliaia; soldati che se ne stanno rannicchiati a crocchi, altri che ci vengono incontro per curiosità, donne che lavorano alla farina, al pane, al tecc, altri che stanno costruendo il loro tugurio. Il movimento e l’originalità non sono certo gli elementi che fanno difetto; peccato che gli occhi nostri non bastino ad abbracciare tanta immensità di cose belle, nuove, grandiose, e tanto meno la penna possa ritrarle in modo da rendere solo una lontana idea di quanto ci si parava dinanzi. A pochi passi dalla vetta ci fermiamo e scendiamo da cavallo; una folla immensa ne circonda e mille commenti si fanno su noi; siamo invitati a proseguire. Un imberbe, dall’occhio vivace e dal naso arcuato ne viene incontro, saluta con enfasi Naretti e ci annuncia che eravamo aspettati solo domani; è il primo cerimoniere di Sua Maestà. Per una piccola porta custodita da soldati entriamo nella cinta; attraversiamo un gran tucul in cui stanno molti soldati seduti a discutere e giuocare e custodire le artiglierie che scorgiamo in un angolo; passiamo in altro vasto tucul in cui stanno cavalli e mule del re e il trono delle udienze coperto con tela, ma del quale mi è dato scorgere qualche lembo di stoffa di seta e ricami in argento. Il momento sublime è imminente e l’emozione prende una gran parte alla freddezza che sarebbe necessaria, quando per osservare si vorrebbe essere tutt’occhi e tutt’orecchi. Usciti da questo secondo tucul, a pochi passi se ne presenta un terzo in cui siamo immediatamente ammessi; piccolino, ma di una eleganza originale; il suolo coperto da tappeti d’Europa: sopra un divano fra cuscini di seta, accovacciato all’abissinese, avvolto nel suo scemma, [p. 181 modifica] che con una mano rialza fino a coprirsi metà del viso, il capo scoperto e divisi i capelli in cinque larghe trecce, sta il grande re dei re. Su un cuscino il revolver, appeso alla parete, dietro lui, il suo fucile e il suo scudo di guerra ornato di placche d’argento. Entriamo, facciamo un inchino, ci stende la mano che ognuno stringe, poi ci disponiamo in semi-circolo avanti al reale angareb.

Per mezzo di ras Alula, suo grande amico, domandò della nostra salute, del nostro viaggio, e dopo poche parole ci licenziò invitando Naretti ad un’udienza per l’indomani, offrendoci ancora la mano. Mi parve avesse l’aria preoccupata, fisonomia sofferente, parlava a bassa voce, una freddezza glaciale; la mano, solo offerse, ma non strinse la nostra, ed era scarna e gelida.

Usciti da qui ci fecero girare la cinta, finchè confinante con questa, dal lato di levante, trovammo uno steccato nel quale entrammo; era il recinto a noi destinato; grande onore e prova di fiducia, perchè proprio confinante coi reali palagi. Vi troviamo un gran tucul ed uno in costruzione, che gli ordini non erano stati ancora completamente eseguiti, per cui riservando la capanna ai Naretti, vennero subito a piantare una gran tenda che ci venne destinata; nientemeno che la tenda particolare del re quando sta in campagna; è assai vasta, ma semplice, di stoffa di cotone bianco del paese, fatta a fettucce e sostenuta da un palo al centro e molte corde alla periferia.

I due protestanti s’erano accollati a noi e ci seguirono dal re e nel nostro campo, con una impudenza eccezionale, mi è forza dirlo, dacchè seppi che volevano abusare di noi e non avevano nessun permesso del re per presentarglisi. Come colla religione si fa presto a compromettersi in questo paese, Naretti ne parlò subito a qualcuno della Corte, dichiarando che non avevano nulla a fare nè con lui nè con noi, e fu quindi subito fatta piantare un’altra tenda per loro. [p. 182 modifica]

Cominciarono i dignitari di Corte a venir a visitare Naretti, congratulandosi pel suo ritorno, e dragomanno, e tesoriere, e cerimoniere stavano con noi quando udimmo cinque colpi da cannone. Sarebbe ridicolo l’appropriarcene l’onore, che non avendo noi veste ufficiale, anche il re d’Abissinia non consuma la sua polvere per festeggiare l’arrivo di gente che non sa chi sia; ma amici di Naretti e da lui introdotti alla presenza reale, ci fece gran piacere questo segno di distinzione a suo riguardo e ci confortò dell’impressione fredda del primo ricevimento, che ognuno aveva provata, ma che nessuno osava esser primo a confessare. Abbiamo poi subito saputo che la freddezza è nel carattere di re Giovanni, che d’altronde era preoccupato e per la sorpresa del nostro arrivo inaspettato, e per una sentenza che suo malgrado aveva dovuto dare la mattina, e che si eseguiva appunto quando noi arrivavamo, tagliando mano e piede ad un ladro. Ci aggiunsero anzi che pel nostro arrivo erano già destinati cento soldati ad incontrarci e riceverci con salve di moschetteria.

Il prete di un villaggio ove accampammo uno dei giorni scorsi, viene a domandarci mille scuse, perchè sapeva che i suoi parrocchiani non ci avevano trattati come si conveniva, e in segno di perdono ci offre due vacche; viene l’incaricato dal re pei nostri viveri e ci porta pure tre vacche, trenta coltelli di ferro da restituirsi alla partenza, trenta candele del paese, vasi di tecc, berberia, burro, miele, pani in grandi cesti; e ogni recipiente portato da un servo e coperto da un cencio rosso. La scena, per sè, il saperci ospiti del temuto re dei re, l’originalità dell’ambiente erano tutto quello di più solenne e di più fantastico che si possa immaginare, e certo il momento sarebbe stato anche commovente, se la forza alle lagrime non avesse mancato pel grande appetito che tutti ne abbatteva in mezzo a tanta abbondanza. [p. - modifica]Il nostro accampamento presso Re Giovanni a Debra-Tabor