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Capitolo decimo. 193

suo cortile, seduto con grande importanza su una pelle da gazzella.

Accoglienza fredda; non vuol riconoscere l’autorità della nostra guida. Lo riduciamo però a miglior consiglio, e come noi pensavamo stabilire qui il quartier generale per fare delle escursioni sul lago, domandiamo d’avere un tucul, disposti a pagarne l’affitto. Pareva le cose si disponessero per bene, quando arrivano un paio di preti a mettere dei bastoni nelle ruote; ci fanno perdere del gran tempo in discussioni, poi ci invitano di seguirli alla chiesa dove si deciderà. Vi suonano le campane e arriva una ventina di sacerdoti che cominciano a questionare fra loro e colla nostra guida. Le cose vanno per le lunghe e la pazienza scappa anche ai santi, per cui in modo risoluto faccio capire che sono disposto a pagare, ma voglio e subito una casa, altrimenti farò le mie lagnanze al re. Per tutta risposta mi dicono d’andarcene al lago a cacciare l’ippopotamo, che nel frattempo loro decideranno. Siamo stanchi, rispondo, e vogliamo riposare e non cacciare per ora, e pretendo mi diate una casa. Ci fanno allora accompagnare ad una capanna che ci dicono destinata, ma alcune donne strillano e non vogliono permetterci d’entrare: c’era un morto. Indispettiti torniamo alla casa del capo, piantiamo la nostra tenda nel suo cortile e dichiariamo che non ci muoveremo se non ci sarà data una buona abitazione.

I preti tornano e gridano; ma noi gridiamo più di loro, e ci mostriamo risoluti, finchè ci destinano un tucul, al quale andiamo senza fare alcun saluto a nessuno dei presenti.

Il capo, forse intimorito, viene subito a farci una visita e ci porta del pesce, galline, birra, pane e miele.

Sabato 31. Tanto antipatica e scortese è la popolazione, altrettanto simpatico ed originale è il villaggio, nel quale si incontrano frequenti avanzi di muraglie costrutte con grossi bloc-