Vita e morte del Re Riccardo II/Atto primo
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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VITA E MORTE
del
RE RICCARDO II
ATTO PRIMO
SCENA I.
Londra. — Una stanza nel palazzo regio.
Entrano il re Riccardo, Giovanni di Gaunt, e molti Nobili.
Ricc. Giovanni di Gaunt, nobile Lancastro, vecchio pieno d’anni e di onori, conformandoti alla tua promessa e al tuo giuramento, hai tu qui condotto il tuo intrepido figlio Enrico di Hereford, per sostenere dinanzi a noi l’audace sfida ch’egli addirizzò al duca di Norfolk, Tommaso Mowbray? Non avemmo agio prima d’ora d’intender le due parti.
Gaunt. Attenni ciò che promisi, mio sovrano.
Ricc. Dimmi ancora; l’hai tu interrogato? Sai s’ei mandasse quel cartello per odio antico, o se prorompesse nella collera virtuosa di un buon suddito, per qualche tradimento, di cui egli conosca Mowbray colpevole?
Gaunt. Da quanto seppi indagare e’ fu per qualche trama pericolosa di Mowbray in danno di Vostra Altezza, e non per un’ira personale e inveterata.
Ricc. Fàlli comparire entrambi in nostra presenza; vogliamo udire noi stessi l’accusatore e l’accusato parlar liberamente, aggrottandoli l’un coll’altro. (escono alcuni del seguito) Entrambi sono alteri e violenti; e nella loro rabbia, sordi come il mare, rapidi come il fuoco. (rientra il seguito con Bolingbroke e Norfolk)
Boling. Possano molti anni pieni di giorni felici allietare la vita del mio amato sovrano!
Norf. Possa ogni giorno accrescere la beatitudine del giorno che lo precede, fino a che il Cielo, invidiando alla terra i suoi fortunati destini, aggiunga alla vostra corona un titolo immortale!
Ricc. Vi ringraziamo entrambi: nullameno v’ha uno di voi che ne adula, ed io l’argomento dal motivo che qui vi conduce. Non vi accusate voi l’un l’altro di alto tradimento? Cugino di Hereford, che rimproveri tu al duca di Norfolk, Tommaso Mowbray?
Boling. Anzi tutto trascriva il Cielo nel suo libro eterno quello che sto per dire: avvegnachè sia per uno zelo di fido suddito, per un tenero amore che ho pel mio principe e per la sicurezza de’ preziosi suoi dì, che con cuore scevro d’ogni odio iniquo io qui compio la parte di accusatore. — Tommaso Mowbray, io mi rivolgo a te, e vuo’ sii accorto sul saluto che t’indirizzo: perocchè di quel ch’io dirò il mio corpo risponderà su questa terra, la mia anima in Cielo. — Tu sei un traditore e uno spergiuro. — Eri troppo ben nato per precipitare così, e sei divenuto troppo malvagio per vivere. Più il cristallo del firmamento è terso, e vie più le nubi che l’ingombrano sembrano nere e deformi. Una volta ancora, e ti sia eterna la nota, io qui ti chiudo la bocca col nome di traditore empio; e fo voto, se così piace al mio buon re, di non escire da questo luogo, prima che la mia spada, snudata per la giustizia, non abbia provato quello che la mia bocca afferma.
Norf. La moderanza delle mie parole non faccia sospettare del mio coraggio. Non è una guerra di femmine, nè son gli aeri clamori di due lingue sdegnate che possono definire questa contestazione. Il sangue che debbe compierla ribolle nelle nostre vene. Nondimeno non posso gloriarmi di pazienza tanto inconcussa da restar sempre placido e nulla rispondere a così gravi ingiurie: sebbene il rispetto che m’ispira Vostra Altezza incateni la mia lingua, e m’impedisca di formulare senza ritegno una libera risposta. Ove privo di tal risguardo, la mia lingua, rotto il freno, non si arresterebbe che quando gli avesse fatto rientrare nella bocca i nomi di tradimento e di traditore. Obbliando però il regio sangue da cui discende e l’affinità ch’egli ha col mio sovrano, io lo sfido e gli fo onta in faccia. Io lo chiamo qui vile calunniatore, abbietto uomo; e per provargliene, gli darei ogni buon partito e gli andrei incontro, quand’anche mi convenisse correre a piedi fino alle Alpi agghiacciate, o in qual sia altro paese inospite in cui non mai Inglese stampasse un’orma. Dopo ciò, la seguente dichiarazione valga a difesa della mia lealtà; per tutto il bene che mi è concesso di sperare, ei mente, quant’uomo può mentire.
Boling. Vile, triste uomo, vedi, io ti getto il mio quanto. Abbiuro qui il regio parentado, e oblio la nobiltà del sangue da cui discendo. E la paura e non il rispetto che ti fa aver ricorso a questo sembiante. Se il terrore che accompagna il delitto ti ha lasciate bastanti forze per sollevare quel pegno del mio onore, inchinati e prendilo. Per quel pegno e per tutti i riti solenni della cavalleria, io ti darò ragione, corpo a corpo e arma contro arma, di ciò che ho detto e di tutto quello da cui potesse dissentire la tua malvagità.
Norf. Lo prendo, e giuro per questa spada, che mi fece glorioso del titolo di cavaliere, che risponderò in tutti quei modi, che si addicono a un generoso; e una volta salito a cavallo possa io non discenderne che estinto, se sono un traditore o se ho combattuto per una causa ingiusta.
Ricc. Qual’è l’accusa di cui il nostro cugino aggrava Mowbray? Conviene sia forte perchè possa ispirarci il più lieve sospetto intorno alla sua fedeltà.
Boling. Di quanto ho detto risponderà la mia vita. Questo Mowbray ha ricevuto otto mila monete come deposito per la paga dei soldati di Vostra Altezza, e le ha ritenute per impiegarle nelle sue libidini, da insigne traditore e odioso ladro. Di più dico, e lo proverò col combattimento o qui o altrove, al termine anche dei paesi più lontani che mai occhio inglese vedesse, che tutte le tradigioni che da diciotto anni sono state tramate nel regno, hanno per principal autore il perfido Mowbray. Affermo infine e sosterrò tutte queste accuse con danno della sua colpevole vita, ch’egli ha macchinata la morte del duca di Glocester, ch’ei ne ha suggerita l’idea ai suoi nemici bramosi di atterrarlo, e per conseguenza, che è esso che come un vil traditore ha forzata quell’anima innocente ad escire in mezzo alle onde del suo sangue. Ora un tal sangue, come quello del sagrificatore Abele, grida verso di me dal fondo delle mute caverne della morte, e mi chiede giustizia e rigoroso castigo, talchè, giuro per la nobiltà della mia gloriosa nascita, che questo braccio lo placherà, o perderò la vita.
Ricc. A quale altezza s’innalza la sua audacia! Tommaso di Norfolk, che rispondi a ciò?
Norf. Oh se il mio sovrano volesse volgere altrove un istante il volto e comandare alle sue orecchie di essere per breve insensibili, finchè risposto avessi alla calunnia atroce d’uomo nelle cui vene scorre parte del vostro sangue; finchè detto avessi quanto Iddio e gli uomini dabbene aborrano sì odioso mostro!
Ricc. Mowbray, i nostri occhi e le nostre orecchie sono imparziali; foss’egli nostro fratello, foss’ei l’erede del nostro trono, come non ci è che nipote; e giuro, per la potenza del mio scettro, che sì stretta affinità non gli darebbe alcun privilegio, e non farebbe piegare in suo favore l’inflessibile fermezza della nostra anima. Egli è nostro suddito, Mowbray, come te. Parla dunque liberamente e senza timore.
Norf. Allora, Bolingbroke, dal fondo del tuo cuore fino alla spergiura tua bocca, tu menti. Della moneta che avevo per Calais, tre quarti sborsai pei soldati di Sua Altezza: serbai l’altro, secondo la convenzione, per pagamento di ciò che m’era dovuto dal mio re, e pel soddisfacimento di un alto credito procedente dall’ultimo viaggio che feci in Francia per andarvi a cercare la regina. Comincia dall’ingoiare questa mentita. — Quando a Glocester, io non l’ho ucciso. Confesso bensì con mia vergogna, che in quella circostanza neglessi il mio dovere malgrado il giuramento che avevo di compierlo; e a voi, rispettabile duca di Lancastro, venerabile padre del mio nemico, ho teso una volta agguati, delitto che tormenta la mia anima e la strazia di rimorsi; sebbene prima dell’ultima volta in cui ricevei l’ostia sacra, lo abbia riconosciuto, e chiestovene solennemente perdonanza, e fidevole mi stia d’averla ottenuta. Questo è il mio delitto. Per tutti gli altri ch’ei m’imputa, simili accusazioni procedono dall’odio del traditore più vile e abbominevole che mai esistesse. È ciò che sosterrò arditamente a costo della mia vita; e a volta mia io gli getto ai piedi il guanto dell’onore. Con danno del sangue più puro che sta acchiuso nelle sue viscere, gli proverò che sono un leale gentiluomo, e per affrettare tal istante scongiuro con tutto il cuore Vostra Altezza di decretare il giorno del combattimento.
Ricc. Nobili, cui il furore trasporta, la mia autorità vi contenga. Purghiamo codesta collera senza spargimento di sangue. Noi prescriviamo questa ricetta senz’essere medici, avvegnachè un odio profondo sia molto nocivo e i nostri dottori ne dicano che la stagione non corra propizia al sangue: dimenticate, perdonate, riconciliatevi. — Buon zio (a Gaunt), questa contesa finisca dove ha cominciato: noi calmeremo il duca di Norfolk: voi, il vostro figlio.
Gaunt. Ben si addice alla mia età il far da paciere. Restituisci, mio figlio (a Boling.), il guanto al duca di Norfolk.
Ricc. E tu, Norfolk, rendigli il suo.
Gaunt. Ebbene, Enrico? L’obbedienza te lo comanda. Io non dovrei ripeterlo due volte.
Ricc. Su, Norfolk, l’imponiamo; non vi ha risposta: restituiscigli il suo guanto.
Norf. Ai tuoi piedi, mio sovrano, mi prostro. Puoi disporre della mia vita, ma non del mio onore. Il mio dovere ti sottomette l’una; ma il mio bel nome, che, in onta della morte, vivrà sulla mia tomba, tu non puoi oscurare. Io sono accusato, vilipeso, insultato, trafitto nel cuore dal dardo venefico della calunnia, e non v’è altro balsamo che possa guarire la mia piaga fuori del sangue del cuore di colui, la di cui bocca ha esalato il veleno.
Ricc. Ben sarà forza che questa rabbia si freni. Dammi il suo guanto. I lioni addomesticano i leopardi.
Norf. Sì, ma non possono cancellarne le macchie. Lava il mio disonore e cederò il mio guanto. Mio amato e diletto signore, il tesoro più puro che possa dar questa vita terrena è una riputazione incontaminata. Togliete questo bene, gli uomini non son più che una materia dorata, un’argilla dipinta. Il diamante prezioso, racchiuso con dieci sbarre di ferro in uno scrigno, è il coraggio in un cuor leale. Il mio onore e la mia vita; tutti e due non fan che uno. Se mi togliete l’onore, non ho più vita. Perciò, mio caro signore, lasciate ch’io lo difenda, avvegnachè sia per lui ch’io vivo, per lui che debbo morire.
Ricc. Cugino, gettate quel pegno; datene l’esempio.
Boling. Il Cielo salvi la mia anima da bassezza sì vergognosa! Mi mostrerei io colla fronte umiliata dinanzi a mio padre, smentendo la mia fierezza col volto pallido di un supplicante, e ciò in faccia a questo abbietto ch’io sprezzo? Prima che la mia lingua oltraggi il mio onore con tal viltà e si disdica con tanta vergogna, i miei denti la sbraneranno e la sputeranno sanguinosa in volto colui in cui sta l’ignominia. (Gaunt esce)
Ricc. Noi non siamo nati per chieder grazia, ma per dar comandi; e poichè non possiamo imporvi di essere amici, pensate a venire, o le vostre teste me ne risponderanno, a Coventry il giorno di san Lamberto. È là che le vostre spade e le vostre lancie porran fine alla contesa del vostro odio: e giacchè non valiamo a riconciliarvi, vedrete la giustizia decidere sull’onore del vincitore. — Lord maresciallo, ordinate ai nostri ufficiali di essere in armi, e di tenersi parati agli eventi di questa guerra domestica. (escono)
SCENA II.
La stessa — Una stanza nel palazzo del duca di Lancastro.
Entrano Gaunt e la Duchessa di Glocester.
Gaunt. Oimè! Il sangue che scorre per le mie vene è una parte del sangue di Glocester; e la sua voce mi sollecita più fortemente che i vostri clamori a perseguitare i suoi crudi carnefici. Ma poichè il castigo sta fra le mani che compierono il delitto che non possiam punire, mettiamo la nostra causa in arbitrio del Cielo. Il Cielo, dacchè il tempo avrà maturata l’ora della vendetta, la farà scendere sulla testa dei colpevoli.
Duch. Il titolo di fratello non sveglierà dunque in te maggior ardore? Non rimane nel tuo sangue alcuna scintilla che l’amore dei tuoi raccenda? I sette figli di Eduardo, al cui numero tu appartieni, erano sette belle piante germogliate da una sola radice. Le une disseccaronsi pel corso della natura; le altre vennero recise dal destino: ma il mio sposo, la mia vita, il mio Glocester, florido ramo escito dal tronco reale, fu abbattuto nella state sua dal sanguinoso pugnale dell’omicidio. Quel vaso prezioso rimase franto dalla mano dell’odio, e il sangue di Eduardo inondò la terra! Ah! Gaunt, il suo sangue era il tuo. Il letto, il seno, il latte, i fianchi che ti han formato, lui pure formarono: e sebbene sembri vivere, tu fosti trafitto dal colpo che lo trafisse, e acconsenti alla morte del padre tuo, vedendolo tranquillamente perire nel tuo infelice fratello, imagine viva del tuo genitore. Non chiamar questa pazienza, Gaunt; è disperazione. Tollerando che si uccida così tuo fratello, tu mostri scoperto il cammino che conduce ai tuoi giorni; e insegni al feroce omicidio di assassinarti. Quella che noi appelliamo pazienza nelle anime volgari, è bassezza e viltà nei cuori magnanimi. Che altro ti direi io? Per metter la tua vita in sicuro, il miglior mezzo è di vendicare la morte di Glocester.
Gaunt. Tal causa non ha che Dio per giudice. È il rappresentante di Dio, il suo luogotenente consacrato su i suoi altari e sotto i suoi occhi, che fu autore di tal morte; s’ei commise un delitto, Iddio lo vendichi; per me, non potrei mai alzare un braccio armato contro il suo angusto ministro.
Duch. Da chi dunque, oimè! potrei io essere esaudita?
Gaunt. Dal Cielo, che è il campione e il difensore delle vedove.
Duch. Ebbene, mi dorrò con lui. Addio, vecchio Gaunt. Tu vai a Coventry per vedere il combattimento del nostro cugino Hereford e del fellone Mowbray. Oh! offese dello sposo mio statevi sulla punta della lancia di mio cugino, onde penetrare con essa nel petto di Norfolk: o se non cade arrovesciato nel primo orto, il peso de’ suoi delitti lo precipiti dal suo spumante corridore, e gli faccia misurare col corpo l’arena, vinto e calpestato dal prode Bolingbroke! Addio, vecchio Gaunt; quella che fu un tempo sposa di tuo fratello, non ha più ora a compagno che il dolore, con cui le è forza terminare i suoi dì.
Gaunt. Sorella, addio; convien ch’io vada a Coventry: possa tu essere così felice nella tua solitudine, quant’io nel mio viaggio!
Duch. Una parola, ancora. — Il dolore allorchè è profondo e vero è un peso che non si sgrava mai dal cuore. Io mi accomiato da te senza averti ancora nulla detto, perocchè l’afflizione toglie il senso e crede aver finito quanto non ha pur cominciato. — Raccomandami a mio fratello Edmondo York. Sì, questo è tutto... pur, non dipartirti: sebbene io t’abbia detta ogni cosa, non lasciarmi sì tosto; potrei rammentarmi d’altro. — Digli.... oh, che?..... digli di affrettarsi di venir da me a Plashy. Oimè, che verrebbe egli a vedervi quel buon vecchio, se non stanze deserte, muraglie nude, seggi vuoti, sale spopolate e niuno vestigio umano! E qual altro saluto riceverebbe al suo arrivo, fuor de’ miei gemiti! No, raccomandami soltanto a lui: ei là non venga per attestar la tristezza che empie quei luoghi: misera, me misera, di là io pure vuo’ dipartirmi e morire! I miei occhi piangenti ti salutano coll’ultimo vale. (escono)
SCENA III.
Una lizza è apprestata e un trono. — Araldi, Cavalieri, ecc.
Entrano il Lord Maresciallo e Aumerle.
Mar. Milord Aumerle, è armato Enrico di Hereford?
Aum. Sì, interamente; e anela di prendere il campo.
Mar. Il duca di Norfolk, pieno di allegrezza e d’audacia, non aspetta che il segnale della tromba incitatrice.
Aum. I due campioni son dunque pronti; e non manca più che l’arrivo di Sua Maestà. (squillo di trombe; entra il re Riccardo, che va a sedere sul trono; Gaunt e parecchi nobili prendono il loro posto. Allo squillo di una tromba si ode rispondere un altro squillo; quindi entra Norfolk armato e preceduto da un araldo)
Ricc. Maresciallo, chiedete a questo campione il motivo che qui lo conduce in armi: chiedete del suo nome, e fatelo giurare sulla giustizia della sua causa.
Mar. In nome di Dio e del re, di’ chi sei, e perchè vieni così armato da cavaliere: contro cui intendi combattere, e qual’è la tua contesa? Rispondi veracemente, sulla tua fede di cavaliere e sul sacramento tuo; onde il Cielo e il tuo valore poscia ti difendano!
Norf. Il mio nome è Tommaso Mowbray, duca di Norfolk. Qui venni, astrettovi da un giuramento (preservi il Cielo un cavaliere dal violarne mai!); venni per difendere la mia lealtà e la mia fede verso Iddio, il mio re e i discendenti miei, contro il duca di Hereford che mi chiama, e a cui, colla grazia di Dio e il soccorso di questo braccio, proverò che è un traditore al mio Dio, al mio re ed a me. Il Cielo mi difenda, come santa è la causa per cui combatto! (si asside squillo di trombe; entra Bolingbroke in armi preceduto da un araldo)
Ricc. Maresciallo, dimanda a quel cavaliere che si avanza armato, chi è, perchè viene in arnese di guerra, e a norma delle nostre leggi fallo deporre sulla giustizia della sua causa.
Mar. Qual è il tuo nome? E perchè vieni qui innanzi al re Riccardo, nel suo regio agone? Contro cui vieni e qual è il tuo piano? Parla da vero cavaliere, e così il Cielo ti assecondi!
Boling. Sono Enrico di Hereford, di Lancastro e Derby, e vengo per provare, col soccorso di Dio e del mio valore, che Tommaso Mowbray, duca di Norfolk, è un vile e tenebroso traditore al Dio del cielo, al re Riccardo ed a me; così il Cielo mi difenda com’io combatto pel vero!
Mar. Sotto pena di morte alcuno non si attenti di toccar pure le barriere di questa palestra, tranne il maresciallo e gli uffiziali a cui incombe il presiedere a questi nobili combattimenti.
Boling. Lord Maresciallo, lasciatemi baciare la mano del mio sovrano e genuflettere dinanzi a Sua Maestà perocchè Mowbray, ed io, siamo come due uomini che fan voto di compiere un lungo e faticoso pellegrinaggio: prendiam dunque solennemente commiato dai nostri amici, e riceviamo l’addio della loro tenerezza.
Mar. L’appellante saluta rispettosamente Vostra Maestà; desidera baciarvi la mano, e prender congedo da voi.
Ricc. Discenderemo per stringerlo fra le nostre braccia. — Cugino Hereford, la tua fortuna risponda alla giustizia della tua causa in questo regio combattimento! Addio, mio sangue; cui se oggi spargi potremo compiangere, ma non vendicare.
Boling. Alcuno di questi illustri testimoni non profani una lacrima per me, se il sangue che ho nelle vene è versato dalla lancia del mio avversario. Colla baldanza del falco, che si avventa sopra piccolo augello, io corro a combattere Mowbray. — Mio diletto signore (al Lord Maresciallo) da voi mi accomiato non che da lord Aumerle, mio nobile cugino; debbo mescolarmi colla morte, ma non sono un infermo languido e debole. Sono giovine, pien di vigore, e sento con forza la vita; e in questo istante, come nei banchetti inglesi, in cui si differisce all’ultimo il più caro brindisi onde terminare il festino con ciò che è più dolce, o tu, (a Gaunt) autore dei miei giorni, che m’infondesti questi spiriti che or mi ribollono in seno e mi innalzano tanto da afferrar la corona che mi mostra la vittoria al disopra del mio capo, tu rendi colle tue preghiere la mia armatura impenetrabile; arrota colla tua benedizione la punta della mia lancia ond’ella trapassi come cera la corazza di Mowbray, e il nome di Giovanni di Gaunt riprenda un nuovo lustro per la generosa condotta di suo figlio.
Gaunt. Il Cielo ti faccia prosperare nella giustizia della tua causa! Sii celere come il lampo nell’assalto, e i tuoi colpi raddoppiati cadano come folgore sull’elmo del tuo pericoloso avversario: si animi il tuo giovine sangue; sii valente, e vivi!
Boling. San Giorgio e la mia innocenza compiano il giusto voto. (si asside)
Norf. (alzandosi) Qual che si sia l’evento che il Cielo o la fortuna preparano, in me vive o morrà un gentiluomo schietto, equo, probo, e fedele al trono del re Riccardo. Non mai schiavo scuoto con cuor più libero le catene di sua prigionia, nè accolse con maggior gioia lo strumento prezioso che lo redimeva, che la mia anima non ne provi celebrando questa festa guerriera col mio avversario. — Potente sovrano, e voi miei compagni e miei pari, accogliete dalla mia bocca questo voto: scorrano i vostri anni felici! Gaio e gioioso, come se andassi al banchetto, volo al combattimento: l’innocenza ha il cuor tranquillo.
Ricc. Addio, milord: io discerno il valore e la virtù dipinta nel tuo occhio. — Ordinate i combattenti, Maresciallo, e si incominci. (il re e i lôrdi tornano ai loro seggi)
Mar. Enrico di Hereford, Lancastro e Derby, ricevi la tua lancia; e Dio difenda il diritto!
Boling. (alzandosi) Forte come una torre e pieno di speranza grido: amen.
Mar. Va (a un uffiziale) reca questa lancia a Tommaso duca di Norfolk.
1° Aral. Enrico di Hereford, Lancastro e Derby, sta qui per Iddio, il suo sovrano e se stesso, sotto pena di essere chiarito fellone e spergiuro, onde provare al duca di Norfolk, Tommaso Mowbray, ch’egli è un traditore al suo Dio, al suo re ed a lui, pel che lo sfida ad avanzarsi e a combattere.
2° Aral. Qui sta Tommaso Mowbray, duca di Norfolk, che sotto pena di esser mostrato fellone e spergiuro, sì per difendere se stesso, che far manifesto che Enrico di Hereford, Lancastro e Derby è sleale a Dio, al suo sovrano ed a lui, coraggiosamente e con libero desiderio anela al segnale della battaglia.
Mar. Squillate, trombe; e avanzatevi, combattenti: (suona la carica) indugiate; il re ha gettato il troncone della sua lancia.
Ricc. Entrambi depongano i loro elmi e le loro lancie, e ritornino ai loro posti. — Ritiratevi (al Mar.) e le trombe suonino mentre noi dichiariamo i nostri voleri a questi duchi. — (lungo squillo) Avvicinatevi, (ai combattenti) e udite quello che col nostro consiglio abbiamo decretato. La terra del nostro regno non sarà contaminata da un sangue che le è caro e che essa vi diè; e i nostri occhi odiano l’atroce spettacolo di ferite civili fatte da spade cittadine. Noi crediamo che fossero gl’impulsi orgogliosi di un’ambizione sconfinata, e i moti gelosi di un odio rivale che vi eccitarono a risvegliare la pace che dormiva con sonno puro e tranquillo nel seno della nostra isola. Cotesti primi romori, cotesto strepito di tamburi, questi acri squilli di trombe risonanti, e l’urto spaventoso delle vostre armi, potrebbero spaventare la bella Dea, farla fuggire dalle nostre placide contrade, o obbligare i nostri bracci a tuffarsi nel sangue dei nostri fratelli. Per prevenire simili mali, noi vi esiliamo dal nostro territorio. — Voi, cugino di Hereford, sotto pena di morte, non rivedrete il nostro bell’impero, prima che dieci estati abbiano arricchite le nostre pianure, e seguirete le vie straniere del bando.
Boling. Il vostro volere avrà effetto. — La consolazione che mi rimane è che il sole che qui riscalda splenderà del pari sopra di me; e i raggi d’oro ch’ei vi presta in questi climi doreranno pure i luoghi del mio esilio.
Ricc. Norfolk, una condanna più rigorosa t’è riservata, e provo qualche angoscia a proferirla. Le ore che per te scorreranno lentamente non ti mostreranno mai i limiti del tuo triste bando. Questa parola che non lascia alcuna speranza, non ritornare mai più, la pronunzio contro di te, sotto pena della tua vita.
Norf. Dura sentenza, mio augusto sovrano, e ben imprevista per me! Ho meritato da Vostra Maestà giudicio più mite che nol sia tal cacciata crudele, lungi dalla mia patria, nel vuoto comune dell’aere. Ora mi è forza obliare l’idioma della mia terra, che appresi dalla culla e parlai per quarant’anni! La mia lingua sarà omai per me un organo così inutile, come lo è l’arpa senza corde racchiusa nella sua custodia, o posta fra le mani di un uomo che ne ignora i concenti e l’armonia. Voi avete imprigionata nella mia bocca la mia lingua, racchiusa dalla doppia barriera dei miei denti e delle mie labbra, e la stolta, insensata e sterile ignoranza è il carceriere che deve guardarmi. Io sono troppo vecchio per accarezzare una seconda nudrice e divenire di nuovo discepolo. La vostra sentenza, togliendomi la favella, mi condanna a un silenzio che consuona colla morte.
Ricc. Ti duoli invano: dopo il nostro decreto il lamento vien troppo tardi.
Norf. Così dunque mi parto e mi allontano dalla luce del mio paese, per immergermi fra le tenebre di una notte eterna. (ritirandosi)
Ricc. Fermatevi un istante ancora e fate innanzi a noi un giuramento: toccate la nostra spada colle vostre mani proscritte, e rotatevi per l’obbedienza che dovete al Cielo (perocchè quella che a noi dovete noi l’abiuriamo esiliandovi) di osservare il sacramento che vi facciamo proferire. — Giurate, (così vi aiutino il Cielo e l’onestà) che non mai nel vostro esilio ritornerete amici; che non mai que’ foschi sguardi con cui vi minacciate si addolciranno; che non mai, nè per lettere, nè per parole, dopo la manifestazione sinistra del vostro odio nato nella vostra patria, vi ricomporrete; che non mai vi riunirete onde tramare contro di noi, contro i nostri sudditi e il nostro regno.
Boling. Lo giuro.
Norf. Io ancora osserverò ciò che prescrivete.
Boling. Norfolk, fin qui io t’ho parlato come nemico, e fra poco, se il re ce lo avesse permesso, una delle nostre anime sarebbe volata in Cielo, bandita da questa fragile prigione di carne, come il nostro corpo è adesso bandito da questo paese: ma poichè ti tocca fuggir da questo regno, e ti rimane tanta via da percorrere, non recar con te il desolante carico di una coscienza lorda, e confessa i tuoi tradimenti.
Norf. No, Bolingbroke: se mai io fui traditore, il mio nome sia cancellato dal libro della vita, ed io esiliato dal celeste soggiorno, come lo sono da questi luoghi. — Ma quel che tu sei, Dio, tu ed io lo sappiamo: e ben temo che il re non abbia in breve a pentirsi. — Addio, mio sovrano: ora più non posso smarrire la mia via: perocchè, eccetto quella che conduce in Inghilterra, l’universo mi sta dinanzi. (esce)
Ricc. Zio, leggo nei tuoi occhi il dolore del tuo cuore: (a Gaunt) la tristezza dipinta sul tuo viso ha diminuito quattr’anni al di lui esilio. — Dopo che i ghiacci di sei inverni si saranno disfatti, ritorna dal tuo bando (a Boling.) e sarai qui il ben accetto.
Boling. Qual lunghezza di tempo si racchiude in una sola parola! Quattro mortali inverni, e quattro primavere voluttuose scompaiono con un detto; tale è la potenza dei re.
Gaunt. Ringrazio il mio sovrano, che per mia deferenza volle abbreviare di quattr’anni l’esilio di mio figlio; ma non approfitterò di tale grazia: perocchè prima che i sei anni ch’ei deve passare esulando, abbiamo mutate le loro lune e descritto il loro corso, la vecchiezza mi avrà ucciso. Del fanale della mia vita che il tempo ha logorato, che mi riman’egli fuorchè un debole bagliore che già già si estingue? Prima ch’ei ritorni, la morte mi avrà precipitato nell’eterna notte, e i miei occhi chiusi per sempre non rivedranno più il figlio mio.
Ricc. Perchè, zio? Tu hai molti anni da vivere.
Gaunt. Ma non un minuto, o re che tu possa darmi. Tu puoi abbreviare i miei giorni e le mie notti coll’omicida dolore, ma non accrescermi un dimani: tu puoi sovvenir gli anni e la vecchiezza nel solcar rughe sulla mia fronte, ma non una cancellarne: la tua parola coopera col tempo per affrettare la mia morte, e morto una volta, il prezzo del tuo regno non potrà vendicarmi in vita.
Ricc. Tuo figlio è bandito in forza di matura deliberazione, a cui la tua voce stessa die’ il suo suffragio. Perchè dunque ti adoperi ora a censurare la nostra giustizia?
Gaunt. Sonovi cose che, dolci al palato, riescono aspre allo stomaco. Voi mi sollecitaste come giudice, sebbene avessi amato assai più che mi si fosse comandato di parlare come padre. Ah! se invece di mio figlio avessi dovuto giudicare uno straniero, sarei stato più indulgente per iscusarne le colpe. — Io vi guardava tutti; sperava che alcuno dicesse che ero troppo severo in bandir così mio figlio: ma voi permetteste alla mia lingua balbettante di fare al mio cuore quella cruda piaga. Cercai di tutelarmi dal rimprovero di parzialità; e colla sentenza che proferii mi tolsi la vita.
Ricc. Cugino, addio; e voi, zio, congedatevi egualmente da lui; noi lo esiliamo per sei anni, e convien ch’ei parta. (squillo di trombe; escono Riccardo e il suo seguito)
Aum. Addio, cugino: poichè la vostra presenza non ci farà più conoscere in quali luoghi vi siate, le vostre lettere almeno valgano a dichiararcelo.
Mar. Milord, io non mi accomiato da voi; perchè vi accompagnerò finchè la terra vorrà sostentarci.
Gaunt. Oime! perchè non parli? Perchè non corrispondi alle mostre de’ tuoi amici?
Boling. Non ho bastanti parole per farvi i miei addii; abbastanza non ne ho per dar sfogo al dolore di cui il mio cuore trabocca.
Gaunt. L’esilio che ti affligge non sarà che un’assenza passeggiera.
Boling. Durante tal’assenza, il piacere starà lungi da me; e il dolore mi sarà sempre presso.
Gaunt. Che sono sei inverni? E’ passano ben presto.
Boling. Sì, pei felici; ma la sventura fa di un’ora un giorno.
Gaunt. Immagina sia questo un viaggio che imprendi per tuo diletto.
Boling. Il mio cuore non si lascierà inebbriare da ciò; sentirà ch’è un viaggio forzato e ne gemerà.
Gaunt. Dissipa la tua tristezza, pensando che ogni passo, che ti allontana dalla tua patria, accelera il fortunato istante del tuo ritorno.
Boling. Dite piuttosto che ogni passo che farò, mi ricorderà la vasta distanza che mi separa dagli oggetti che amo. Non dovrò io fare un lungo tirocinio nei paesi stranieri a cui m’incammino? E allorchè alfine avrò racquistata la mia libertà, qual’altra gloria ne avrò, fuorchè di essere stato durante tutto un tal tempo vittima del dolore?
Gaunt. Tutti i luoghi, che l’occhio del Cielo vede, sono pel saggio porti di salvezza e asili di felicità. Afforzati di questo precetto nel tuo inevitabile destino. Mio figlio, non vi sono virtù che pareggino la necessità. Induciti a credere che non è il re che ti ha bandito, ma che fosti tu che bandisti il re. — La sventura si aggrava con maggior potenza sopra coloro che si curvano dinanzi a lei; dimentica che è il re che ti ha esiliato, e pensa che fu tuo padre che ti mandò in cerca di avventure d’onore; o immagina che la peste roditrice spazia nel nostro atmosfera, e che tu fuggi verso climi più puri. Ricorda ciò che il tuo cuore ha di più caro; e fingi sia nei luoghi ove vai, e non in quelli che lasci. Ascolta i nostri concenti nel canto degli uccelli; mira nei verdi cespi, che calcheranno i tuoi piedi, i ricchi tappeti delle tue stanze, e i crocchi delle nostre belle nei gruppi dei fiori; raffigura che i tuoi passi cadano con misura in gradevole danza, e i tuoi mali dilegueranno: perchè il dente corruttore della sventura poco strazia colui che lo sfida e lo disprezza.
Boling. Oh! basta egli il pensare ai ghiacci del Caucaso per poter sopportar fra le mani carboni accesi: o agli ardori d’una state avvampante per immergersi nudo, senza esserne assiderato, fra le nevi del dicembre? Si spegne la fame colla sola idea di un lauto banchetto? No. La ricordanza di beni lontani non fa che accrescere il sentimento dei mali presenti. L’artiglio crudele del dolore non avvelena mai di più la ferita, come quando la scalfisce piuttosto che aprirvi una larga piaga.
Gaunt. Su, vieni, mio figlio, t’insegnerò il tuo cammino. Se, coi tuoi motivi, avessi la tua gioventù, non ti lascierei partir solo.
Boling. Addio dunque, terra inglese; dolce suolo, addio; madre e nudrice che ancora mi porti, io ti lascio! ovunque andrò, di una cosa mi sentirò fastoso; quella di essere, comecchè bandito, un figlio leale d’Inghilterra. (escono)
SCENA IV.
La stessa. — Una stanza nel castello del re.
Entrano il re Riccardo, Bagot e Green; Aumerle vien dopo.
Ricx. Sì, l’osservammo. — Cugino Aumerle, fin dove accompagnasti il grande Hereford?
Aum. Condussi il grande Hereford, poichè così vi piace di nominarlo, fino alla maggior via del campo.
Ricc. E, dimmi, quante lagrime vennero sparse al momento della separazione?
Aum. In fede, nessuna da me, a meno che il vento di nord-est, che ci soffiava allora crudamente in viso, non abbia stimolato i nostri nervi ottici, e onorati così, per caso, di una stilla di piante i nostri addii ipocriti.
Ricc. Che disse nostro cugino allorchè lo lasciasti?
Aum. Mi disse, addio: e siccome il mio cuore non poteva sofferire che la mia lingua profanasse questa parola, avvisai di imitare l’oppressione di un dolor profondo che mi toglieva la voce. In verità; se la parola addio, da me pronunziata, avesse potuto moltiplicare gli anni e allungare le ore del suo troppo breve bando, oh! allora mille addii gli avrei dati; ma non essendo in tal parola sì fatta potenza, io non la proferii.
Ricc. È nostro cugino; ma è assai incerto il tempo che lo ricondurrà dall’esilio al suo paese; è assai incerto, che il nostro parente rivegga mai i suoi amici. Noi stessi e Bushy e Bagot e Green, abbiamo osservato le carezze ch’ei prodigava al minuto popolo; come cercava addentrarsi nel cuore di quello, usando modi bassi e familiari; qual venerazione tributava a’ miserelli, facendo opera di acquistarsi l’affetto degli infimi artieri con sorrisi e sommissione paziente alla sua fortuna, quasi avesse voluto rapirmi il loro amore e portarlo con sè in esilio. Egli si toglieva il berretto dalla testa per salutare la più vil merciaia della piazza; e udii due braccianti che gli dicevano: Dio vi conduca: ricevendo tosto da lui, che piegato avea il ginocchio, questa risposta; vi ringrazio, miei compagni, miei buoni amici; quasi la nostra Inghilterra fosse suo patrimonio, ed ei l’erede primo offerto alla speranza de’ nostri soggetti.
Green. Ora è partito; e con lui vadano tutti questi pensieri. Volgiamoci adesso ai ribelli dell’Irlanda, cui conviene, mio principe, affrettarsi a fronteggiare, prima che maggiori differimenti accrescano i loro mezzi di nuocervi.
Ricc. Andremo noi stessi a questa guerra; e avvegnachè i nostri tesori, riguardata l’affluenza della nostra corte e l’estensione della nostra generosità, son divenuti un po’ lievi, noi ci vediamo costretti a far appalto del nostro regno per supplire alle presenti strettezze. Se i redditi che da ciò ne verranno non bastassero, lascieremo mandati in bianco ai luogotenenti che governeranno in nostra assenza; ed essi avran comando di sottoscriverli con nomi di ricchi, allorchè saran giunti a conoscerli, tassandoli di grandi somme che ci mancheranno pei nostri bisogni, perocchè siamo fermi di partir tosto per l’Irlanda. (entra Bushy) Bushy, quali novelle?
Bus. Il vecchio Giovanni di Gaunt, signore, è pericolosamente infermo; egli è stato assalito da dolori subitanei, e manda a pregare con istanza Vostra Maestà di andarlo a visitare.
Ricc. Dov’è?
Bus. Nella sua casa di Ely.
Ricc. Cielo, ispira al suo medico il pensiero di sussidiarlo a discendere sollecitamente nella tomba. I suoi scrigni fornirebbero vestimenta ai nostri soldati in questa guerra. Venite, signori; andiamo tutti da lui; e preghiamo il Cielo, che, usando della massima sollecitudine, arriviam troppo tardi. (escono)