Vita di Erostrato/Capitolo VII
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Pianto funereo
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CAPITOLO VII.
Pianto funereo.
Niuno chieda ch’io narri compiutamente quant’erano percossi gli animi de’ genitori, perocchè non si può descrivere un’estrema costernazione. Testoride avea perduto il solo conforto della sua età, e vedea spenta la sua stirpe. Rimanea la sua mensa priva di figliuoli, di consorte, e se chiamava il più misero di tutti, siccome il primo a sofferire la vita, e l’ultimo a lasciarla. Ma in ciò miserrimo che non già per gradi gli era sopravvenuta così grave sciagura, anzi con subita mutazione dalla allegrezza al dolore profondo. Egli pertanto chiuso nelle sue stanze ricusava gli amichevoli conforti, di niun altro capace, fuorchè d’immergersi nel silenzio e nella solitudine quasi in pelago di lutto. I servi suoi in questo mentre correggevano gli oltraggi della tempesta nelle membra della disanimata vergine, con lavande fragranti, ed aromi preziosi, avvolgendola in monde e delicate vesti, e componendole i capelli con serto di fiori. E quando fu notte, si avviarono con pompa lugubre taciti e lagrimosi alla domestica tomba. Lo splendore delle faci illuminava il feretro. Un coro di tibie con flebili note richiamava il pianto sulle ciglia. Non più che uno stadio remoti dalla città erano gli avelli in edifizio marmoreo, fra cipressi maestosi. La mole del quale si vedea ornata nel circuito dalle immagini de’ trapassati. Nella cui sommità dominava il simulacro del tempo in atto di muovere la falce distruggitrice. Una porta ferrea stridendo si aprì, e diede accesso allo interno. Ivi in sotterranea cavità erano le tombe. Altre con antica semplicità, senza ornamenti, in modeste parole rammentavano i meriti del defunto; altre con elegante scoltura, e con fastose ricordanze mostravano quanto le ossa ivi chiuse fossero desiderose di eterna fama. In avello nuovo fu deposta la fanciulla al mesto canto di morte. Le sue ancelle spargeano fiori sovr’esso, e rammentavano lagrimando la sua bellezza, i dolci suoi costumi, l’amabil voce, la sua pietà verso gli Dei, e quanto le era stato funesto il giorno nuziale. La moltitudine concorsa invocava in preci sommesse gli Dei sotterranei ad accogliere pietosi quello spirito, e gli concedessero quella pace nell’Eliso, la quale gli aveano negata in questa vita gli abitatori del cielo. Si chiusero per fine le porte, e fu disciolta l’adunanza.
Mentre si compievano questi riti, Agarista insufficiente a confortare se stessa, era costretta a frenare gl’impeti del figliuolo. Il quale poichè lungamente quasi marmoreo simulacro di se, immobile, muto avea gli occhi dimessi, trapassando alle smanie percuoteva il petto, e i fianchi, oltraggiava le belle chiome, squarciava le vesti, prorompea in grida, e trascorrendo per le stanze vi spandea il lutto, lo spavento, e la commiserazione. Già le pupille oscurate dal dolore odiavano la luce. Fuggiva da loro il sonno, non più vi sgorgava il pianto: già n’era esausta la fonte nel cuore impietrato. Mirava sovente i lini delicati, i veli, le armille le collane preziose, le ornate vesti preparate alla sposa, e sospirando le baciava. Veggendo poi il talamo deserto non mai intiepidito da Imene cadeva su quelle piume abbattuto, invocando la compagna per sempre disgiunta. Ivi non già in sonno delizioso languiva, ma in funesto letargo, dal quale poi destato ritornava a imperversare nell’albergo lagrimoso. La madre, i servi, le ancelle seguendolo, ora con dolci offizi si studiavano calmare così fiera ambascia, ora discrete lasciavano che ella sfogando veemente gli uscisse alquanto dal petto.
Glicistoma gli avea il giorno precedente alle nozze cinta di sua mano una fascia di porpora ed oro da lei tessuta maestrevolmente, e insieme postogli al fianco un pugnale coll’elsa gemmata, nel cui splendido acciaro era incisa tale sentenza ti renda invitto Amore. Pendevano e l’una, e l’altro quasi trofeo nuziale all’ara de’ Penati. Alla quale Erostrato nel suo trascorrere avendo rivolti gli occhi, gli s’infiammò il petto di angosciosa disperazione. E però lanciandosi a quel ferro con risoluto silenzio già l’immergeva nel cuore, se i vigili seguaci accorrendo non l’avessero impedito. Ma appena bastava la forza loro perchè il furore suo rattenuto diveniva più tremendo. Come vento chiuso freme, così egli rombava con voci inarticolate. Nè cessava con lotta vigorosa di chiedere la funesta libertà di manomettere se medesimo. In quel punto Agarista gettandogli affettuosamente le braccia sugli omeri, e declinata sul di lui petto «Come rimango, diss’ella, se tu di questa vita ne vai? Queste son pur quelle braccia, le quali ti accolsero bambino: questo è quel seno in cui ti ricoverasti dalla culla abbandonato. Deh lo stesso ora ti sia di conforto, nè fa’ ch’io debba dolermi di averti nodrito! Questa solo riconoscenza ti chiedo, che siccome ebbi cura del principio di tua vita, così tu l’abbi della fine della mia. Deh ti calga di me: serbati per sodisfarmi questo debito. Con quella pietà con la quale ascoltai i tuoi vagiti, ora tu ascolta questa mia voce dolorosa. Ma se tu ingrato mi abbandoni, che altro mi rimane se non di scendere alla tomba.» Mentre ella così dicea stillavano le sue lagrime sul petto di lui, il quale ammollito da quelle cadde fra gli amplessi de’ servi. Poi con voce repressa diceva: «perchè, donna pietosa, m’hai tu serbato a vita così dolente?... quant’era meglio che io anzi conoscerla cadessi nel mare profondo! Eccomi già due fiate salvo dalle sue tempeste, ma in preda a più infauste». Volea proseguire ma l’affanno gli chiuse le fauci. Agarista con sospiri tergeva gli occhi, e continuava gli amorevoli conforti. Gli astanti rispettavano in silenzio l’ambascia della venerevole lor donna.
Testoride intanto, di non altro pasciuto che del suo dolore meditava solingo come onorare la memoria della perduta figliuola. Prima di consegnarla al talamo ne avea serbata la immagine scolpita da artefice valente, per vederla di continuo nelle sue stanze. Ora gli divenne cagione di tristezza, alla cui vista gli si ottenebravano gli sguardi. E però la trasmise al monumento fra quelle degli antenati, disposte nel portico ond’era circondato quell’edifizio. Vi fu incisa nella base la funesta avventura di sua morte con flebili sentenze. Erostrato non meno sommerso nel dolore inconsolabile, trapassava i giorni per lui tenebrosi visitando que’ luoghi, ne’ quali aveva conversato con la deplorata fanciulla. «Qui, dicea sospiroso, ella sedea sull’erbe fiorenti, mentre zefiro le scuotea molle i dorati capelli. Questo faggio stese le fresche sue ombre a difenderci dagli ardori del meriggio: questo sasso fu il trono, in cui Amore ci promise le sue delizie fallaci.» Il nome di lei inciso nelle pareti, e nelle piante da lui stesso, e il suo medesimo da lei scolpito nella buccia di molte, erano spine al suo cuore, in cui già stava indelebile quel nome. Oppresso omai da così prepotenti angosce cadeva in sopore profondo, ma in quello pure l’amata sembianza dominatrice d’ogni suo pensiero gli si offeriva or luttuosa, or lusinghiera: talvolta non come viva soltanto ma di bellezza celeste. Si lanciava egli per stringerla fra le braccia, e quella sorridendo con grazia divina mostrava dolce pietà nel vederlo deluso. Dalla perturbazione dei quali sogni destato, riconoscea se stesso vie più infelice, perocchè ove il sonno concede altrui la obblivione de’ mali, esso ne ritraeva o cruccio maggiore, o ingannevoli conforti. Meditava anco sovente il vasto imperio di Amore. Il cielo, il mare, il mondo ne fanno continua testimonianza. Il mormorio de’ ruscelli, l’aura che lieve scuote da’ fiori la fragranza, le colombe che gemono nelle torri superbe de’ magnati, il mugghio degli armenti sembrano un inno concorde di natura a quel nume. Il vedovo infelice in cotanta gioja dell’universo altro non ritraeva in contemplarla, fuorchè un odioso paragone di se con quella. Onde compreso da smania: «tristo cielo, sclamava, magione di tristi Dei, a che ne giova empierti d’incensi e di voti quando su noi altro non versi che un nembo di pianto? E voi numi che magnificate aver cura di noi, come rimanete beati veggendo noi sempre, e tanto miseri? Dove è la pietà vostra, se niun de’ mali impedite? dove la sapienza se governate da stolti? I malvagi vi deridono, voi tacete: i devoti v’implorano, voi siete sordi. In che vi offese la innocente Glicistoma? Ella ha invano invocata Giunone alle sue nozze: Nettuno la sommerse. Templi fastosi onde è sparso ogni regno, meglio arderne taluno in vendetta de’ vostri oracoli menzogneri.»