Vita di Erostrato/Capitolo VI
Questo testo è completo. |
Volubilità della fortuna
◄ | Capitolo V | Capitolo VII | ► |
CAPITOLO VI.
Volubilità della Fortuna.
Era omai giunta la nave alla metà del suo tragitto. L’orizzonte fino allora sereno incominciò ad ingombrarsi da caligine improvvisa. Ella in breve si condensava in nubi tetre, e Borea fremeva in quelle. Già gorgogliavano i flutti da lontano, e i turbini sdegnati avvicinavano la tempesta alla nave, e già l’impeto loro oltraggiava le vele. L’esperto comito guardava con occhi sospettosi la imminente procella, la quale in breve tanto crebbe che l’aere tutta divenne tenebrosa. Sparve ogni lido, gonfiò il vento l’onda: raccolte le vele, fu la nave abbandonata alla fortuna. Oh Teti lusinghiera quando con ridente volto induci a solcarti il grembo insidioso. Ecco monti e abissi d’acque: sorge, e si avvalla con essi la nave: ogni sua scossa pare la estrema: mugge il flutto divoratore, e il tuono sovr’esso rimbomba. Il solo baleno frequente scopre il formidabile aspetto della morte. Una mano tremante mal regge il timone: i nocchieri già nudi si preparano al nuoto. Il pianto, i gemiti si confondevano col vento, col tuono, co’ flutti. Erostrato con intrepida voce confortava gli smarriti naviganti, e stringendo Glicistoma fra le braccia dissimulava il pericolo, promettea già prossima Lemno. Ella oppressa dal terrore, svenuta in quegli amplessi, era in quel punto meno infelice degli altri. Ecco percuote la catena agli scogli: la scossa tremenda annunzia la morte: l’onda scioglie lo sconquassato navilio: errano su quelle tavole, antenne, vele. Taluno implora il cielo, ma il flutto gli chiude le fauci per sempre. Altri a nuoto cerca salvezza, e in breve stanco si sommerge. Glicistoma divelta dalle braccia che in vano la stringevano, fu spinta nel mare: ed Erostrato a nuoto afferrò il timone che gli si offerse, e su quello ondeggiando rimase all’arbitrio della fortuna. La fanciulla semiviva per maravigliosa avventura galleggiava in parte della poppa avanzata salva dal naufragio. Un’onda altera come il Caucaso lanciò quel frammento nelle dirupi della spiaggia, ove confitto rimase. Non lungi approdarono a nuoto alquanti nocchieri, i quali per l’aere cielo volgendo invano le pupille afferravano con stanche mani gli scoglj, e le alghe: taluni venivano divelti in quello sforzo da nuove onde e tratti a sommergersi: taluni salivano carpone, e giacevano grondanti sulle rupi. Erostrato fu ivi spinto, e le prime sue voci furono di chiedere all’onde, al cielo, agli scogli la sua Glicistoma. I turbini dissipavano i suoi lamenti.
Apparve intanto l’aurora, verso la quale ognuno rivolse gli occhi atterriti: alla dubbiosa luce scoperta la scena funesta empieva così gli animi di spavento che resi muti da quello, taciti si ritrassero verso le più alte pendici. Ivi contemplavano gli estinti gettati sul lido, ed altri ancora ludibrio delle onde. Scorreano dalle guance loro le lagrime insieme alle stille del mare. Al più misero fra tutti Erostrato sembravano un sogno i suoi incredibili disastri. Egli mosso dallo spasimo del cuore, balzando fra questi aspri macigni, andava in traccia della naufraga compagna. Bramava insieme e temeva di scontrarla. Omai una mortale ambascia occupandogli il cuore, deliberava di gettarsi nelle onde e qual vittima placarle. Ma se gli si offerse la fanciulla prostrata sull’avanzo della nave. Vederla, lanciarsi a lei, stringerla, baciarla, fu un lampo. Quella scolorita, molle, oltraggiata dal pelago tiranno rimanea gelida a quegli impeti affettuosi. Ella serbava le sue forme leggiadre perchè non sommersa, ma spenta dal terrore. Ecco quella poc’anzi delizia degli occhi ora oggetto di pianto!
Intanto i Genitori in Lemno allorchè videro il mare sconvolto, soffrivano una trista sollecitudine. Speravano che i prudenti nocchieri avrebbero aspettata la calma, pur temevano anco che non fossero partiti per la impazienza degli sposi. Per la quale perplessità contemplavano i flutti burrascosi finchè splendeva il giorno; quando poi il velo della notte si distese su quelli, l’uno vegliava dolente ragionando co’ suoi della temuta sciagura, e l’altra gemendo con le ancelle sue ardeva incensi a’ Penati supplicandoli a rattenere il tridente scotitore di Nettuno. Volevano pur entrambi sciogliere incontanente molte navi per diversi lidi, ma ricusava ogni nocchiere di solcare onde così feroci. Elle però incominciarono a placarsi quando il sole usciva dal grembo loro. Ben venti navigli salparono incontanente in traccia, uno de’ quali trapassando la spiaggia di Imbro si avvide, che in quella taluni con disperati movimenti delle braccia imploravano soccorso. Vi approdarono pertanto, e riconobbero ch’essi erano i naufraghi di Lemno, e da loro intesero la perversa fortuna. Giace fra Lemno e Samotracia la isoletta di Imbro la quale è cinta all’occidente da scoglj detestati da’ nocchieri. Su quelli si erano ridotti i tristi avanzi della pompa d’Imene. Ivi la sposa scesa alla tomba quando era in procinto di salire il talamo: ivi lo sposo in lagrime vedovili appena coronato di rose nuziali. Questi immobile e muto al pari dello scoglio ove sedea, con gli occhi fisi alle misere spoglie di Glicistoma non udiva lo invito pietoso de’ nocchieri di Lemno a salpare con essi: ma quasi l’anima sua fosse trapassata in lei, non se ne poteva svellere, con gemiti feroci vie più contemplandola. Per la qual cosa eglino con afflitto contegno raccolsero la estinta, e la deposero il più acconciamente che potevano entro la nave. Quegli allora come ombra seguace del corpo si gettò sospirando nella poppa, e seco gli altri naufraghi gli si collocarono d’intorno. Immantenente i remiganti percorsero le onde ormai tranquille: splendea sovr’esse il sole. Alla cui vampa Erostrato come desto da letargo di morte, esclamò: «Vivo io forse, o è un sogno funesto? Come respiro se a questa per cui io vivea è negata l’aura? Come non partì con la sua, l’anima mia in eterno amore congiunta? Ahi ch’io pur troppo qui rimasi vedovo inconsolabile, e me ne fa testimonianza il mio cuore squarciato. Tu sei pur quella, che dovea col volgere d’un ciglio placare Nettuno, come ora giaci rifiuto delle sue onde? Come non ti raccolse Teti nella sua conca, perchè le Nereidi non ti recarono festose al lido? Oh belle membra albergo di anima più bella di voi, occhi arbitri del mio cuore, voce soave, molli braccia, candido seno quali or mi mostrate oltraggi della morte! E tu mare perfido perchè ora quasi deridendo la mia angoscia placido contempli il tristo effetto della tua atrocità.» Così gemendo cadde vinto dall’affanno sulla vergine deplorata. Si affaticavano intanto i nocchieri nell’officio loro per giugnere a Lemno. Ivi sulla spiaggia erravano i genitori con ansiose pupille intente al mare. Nel quale poichè videro la nave, scesero al porto ove ella in breve approdò. Svenne Agarista quando riconobbe quant’erano sventurate le nozze. Poscia vinto dal dolore il contegno matronale, scomposte le chiome e le bende, chiamava se medesima stolta consigliera di quella spedizione, e barbara la Dea sotto gli auspicj della quale fu intrapresa. Testoride fatto immobile simulacro di angoscia tenea le pupille come di smalto fitte nella figliuola. Non il talamo, anzi il feretro la raccolse; presso il quale con fronte china, e le mani in grembo traeva i lenti passi il sospiroso genitore. Agarista con le braccia al collo dell’afflitto figliuolo gli tergea pietosa le molte lagrime col velo. Quegli avea lo sguardo come di chi dorme ad occhi aperti, e la morte gli sedea sul ciglio. Risuonarono le vie di Lemno di modesto sussurro narrandosi la sventura negli atrj de’ templi, nelle adunanze del foro, e udendola ciascuno diveniva pietoso.