Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos/Capitolo VI

Capitolo VI

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VI.


L’estate a Massaua. — Progetto d’una escursione a Keren. — I Bogos, loro origine e loro costumi. — Il diritto di Mogareh. — Partenza. — Il Samhar e la sua costituzione geologica. — Assus, Gaba, il Dubbur-Sciair. — Villaggio circolare di Maldi. — Il kolqual. — Uccelli abissini. — Il baobab. L’abbagumba. — Le tombe dei Bogos. — Keren. — La casa dei naturalisti. — Commercio di rettili e d’insetti. — Ritorno. — Incontro degli agasen. — Caccia nella valle di Kesseret. — La notte appiè del monte delle scimmie. — Un vapore in porto.


Dopo il mio ritorno in Massaua, i primordii della stagione estiva si fecero sentire con un caldo intenso, continuo, opprimente che rendeva fiacco il corpo e torpido lo spirito 1. I pochi Europei residenti nell’isola erano partiti, quale in una direzione quale in un’altra, o si apprestavano alla partenza per sottrarsi agli ardori di quel torrido clima, e così diveniva sempre più completo e più tristo il mio isolamento, non confortato mai da lettere o notizie d’Europa.

Intanto, siccome erano pervenute a buon punto le mie raccolte d’animali marini, e d’altra parte s’avvicinava il tempo dell’anno men propizio alle ricerche scientifiche, cominciai a pensare al ritorno e a disporre in conseguenza le cose mie.

Pur tuttavia, trovandomi così da presso all’altipiano etiopico, io non sapeva risolvermi a rimpatriare senza aver veduto neanche alla sfuggita un lembo di quella regione tanto celebrata dai viaggiatori e dai naturalisti per le sue bellezze naturali, di quella Svizzera africana che raccoglie in sè gli aspetti seducenti della natura tropicale e le scene severe e maestose del paesaggio alpino. E siccome mi stava a cuore di rivedere gli [p. 84 modifica]amici Beccari ed Antiiiori, cui avevo promesso una mia visita all’epoca della nostra separazione, divisai di recarmi per pochi giorni a Keren, principale villaggio dei Bogos, proponendomi al ritorno di abbandonare Massaua colla prima occasione propizia, e speravo che questa mi si sarebbe offerta assai presto, poichè si aspettava in porto, per la metà di giugno, un vapore inglese, il quale doveva depositare un carico di carbone e poi partirsene alla volta di Suez o di Aden.

I Bogos, o meglio Bilen, come si nominano da sè medesimi, discendono da una tribù emigrata nel 1600 dagli altipiani del Lasta ed appartengono alla schiatta bellicosa degli Agau (reputati da taluno aborigeni dell’Abissinia), di cui conservano il linguaggio, ancorchè lievemente alterato. Secondo Munzinger, possiedono 20 villaggi ed il numero loro ascende a forse 10,000, quasi tutti dediti alla pastorizia 2. Lejean stima invece che sieno circa 18,000, distribuiti in 17 villaggi 3. Sapeto enumera 25 villaggi Bogos; ma un tal computo, che risale a parecchi anni fa, non è forse più esatto al presente 4.

Questa piccola tribù, ben distinta pe’ suoi costumi e pe’ suoi usi dai popoli limitrofi, possiede una giurisprudenza sua propria, la quale, sebbene non sia scritta, si conserva da tempi immemorabili, passando da una generazione all’altra come preziosa eredità. Il fitha Mogareh, ossia diritto di Mogareh, dal nome dell’altipiano che servì di dimora al fondatore della tribù, fu ampiamente illustrato da Munzinger in un’opera intitolata: «Ueber die Sitten und das Recht der Bogos.» Esso non manca di certe analogie coll’antico diritto romano, nato forse in una società che trovavasi in condizioni poco diverse da quelle degli odierni Bogos e che aveva gli stessi bisogni.

I membri della comunità sono divisi in patrizi (simagile) 5 e plebei (tigré), formando i primi soltanto una terza parte della [p. 85 modifica]popolazione totale. Ogni plebeo è obbligato ad affidare la difesa dei proprii interessi ad un patrizio, che in molte circostanze si costituisce suo protettore e mallevadore, ed in compenso percepisce dal proprio cliente cospicui tributi. I plebei godono diritto d’asilo nella casa del simagile.

Sussiste anche fra essi la condizione di schiavo, la quale è però meno dura che in ogni altro paese, in grazia di certe disposizioni protettrici. Un Bogos può essere schiavo per nascita, per vendita, perchè si trova nella impossibilità di pagare i suoi debiti, od anche per sua spontanea volontà. Comunque sia, lo schiavo gode facoltà di scegliersi un padrone; di più si può anche riscattare col pagamento del valore di 10 vacche, che corrisponde presso a poco a 160 franchi. Il padrone, riguardato dalla legge come padre dello schiavo, è responsabile dei delitti che questo può commettere, e se fosse ucciso, egli ha diritto di vendicarne la morte.

Ogni giovane, in seguito ad una cerimonia che rammenta la presa della toga virile presso gli antichi Romani, diventa a 18 anni maggiorenne e sfugge d’allora in poi alla potestà del padre. Questi può a suo talento uccidere il proprio figlio ancora minore od anche venderlo come schiavo. Il turpe mercato si pratica talvolta negli anni di carestia, e ciò spiega la presenza in Keren di non pochi schiavi indigeni.

Il capo della famiglia o sim gode tra i Bilen di una grande autorità su tutta la sua parentela fino al settimo grado. Egli è considerato come sacro, come inviolabile, e riscuote certi tributi fìssi nel primo anno della sua carica.

Riguardo ai matrimoni, ponno considerarsi come semplici contratti in presenza di testimonii. Il Sapeto scrive in proposito che non sono irrevocabili nè esclusivi, e che il sacramento per mancanza di preti è andato in disuso. Vengono però, come in tutto l’Oriente, così tra i Bogos, celebrati con gran pompa. «Parecchi giorni innanzi, soggiunge l’autore precitato, le giovani del paese si raccolgono a casa della sposa, e notte e giorno ballano e cantano al suon d’un tamburetto, che alcuna di loro tocca con le mani; nè si vergognano d’esser quasi nude o cenciose, purchè la felice loro compagna sia onorata. Ma è un dir niente alla galoria chiassona, che fanno il dì dello sposalizio. Le forosette, acconce i capelli a trecce spesse, sottili e penzo[p. 86 modifica]loni sul collo, succinto ai fianchi, la veletta a ciondoli, con al sinistro un campanelluccio, e sul petto nudo a guisa di ciarpa una pelle di capra a cincischi frastagliata, suonano su per le strade, nelle piazze, sull’uscio di loro catapecchie varie foggio di danze, rigodori, ridde o rigoletti....»

Alla morte di un Bogos i di lui beni passano in massima parte al figlio maggiore 6. Gli schiavi, i clienti, la moglie fanno parte dell’eredità. L’uso mogareh non riconosce il diritto di testare.

I Bilen non sono severi per i ladri e si contentano di far loro pagare, se sono scoperti, un’ammenda proporzionata al valore dell’oggetto rubato, tranne quando si tratti di bestiame, nel qual caso la pena è assai maggiore. Pei delitti di sangue vien quasi sempre applicata la pena del taglione. Nella procedura loro, che è assai complicata ed ingegnosa, il giuramento dell’accusato vale come prova giuridica, la vendetta delle offese più che di diritto è tenuta in conto di sacro dovere. Perciò si mantengono sempre vivi gli odii fra famiglia e famiglia e durano per molte generazioni, provocando bene spesso lotte sanguinose che contribuiscono in non piccola parte, secondo Munzinger, a spopolare la frontiera abissina.

Chi ha oltraggiato una donna nell’onore, fosse pur questa consenziente, è stimato pari, tra i Bogos, all’uccisore d’un uomo libero e deve pagare il prezzo del sangue che equivale a cento trentadue vacche, se si tratta d’offesa fatta ad un patrizio; di novantasei, se la vittima è invece un tigré. In altri casi, come per ferite gravi ed anche per omicidio involontario, il delinquente è soltanto tenuto a pagare il mezzo sangue.

I Bilen sogliono prestare danaro ad interessi esorbitanti, per esempio al 100 per 100 all’anno. Quando però il raccolto sia andato perduto o il paese sia stato, come spesso succede, devastato dalle guerre e dalle fazioni, l’assemblea generale della tribù ha facoltà di esonerare i debitori dal pagamento o di protrarre le scadenze a tempi migliori. Talvolta queste sagge disposizioni si applicano ad esclusione del ceto de’ commercianti.

La giurisprudenza, di cui ho qui accennato alcuno dei punti [p. 87 modifica]principali, sembra, destinata a scomparire in un avvenire non lontano. Le numerose invasioni straniere (furono quattro soltanto dal 1849 al 1854) e sopratutto il contatto dei Musulmani d’Egitto, hanno di già alterato nei Bogos il rispetto tradizionale per le antiche usanze, la patriarcale semplicità, la nativa fierezza. Essi cadranno ben presto in braccio allo straniero e colla indipendenza perderanno anche le loro leggi, la fede, e forse anche l’idioma de’ loro antenati.

Circa la costituzione politica dei Bogos, trascriverò poche parole del Sapeto che valgano a mostrare, se non altro, su quali basi sia fondata.

«I Bogos non hanno governo unico, nè alcun legame comune gli tien soggetti d’un capo; sì quanti sono i villaggi, altrettante sono le repubbliche, che reggonsi da per sè, avendo tra loro quei rispetti, che non importano inimicizie, nè tafferugli. Per doverne fare una nazione forte, si vorrebbe eleggere un capo, che dando loro una legge, gli legasse più fortemente all’amor della patria, accendesse ne’ loro cuori scintille di emulazione, di reciproca fratellanza, e gli menasse a divenir commercianti, agricoltori e soldati, senza ledere in nulla i diritti comunali di cui sono gelosi assai.»

Fra costoro, giacenti nella più inveterata barbarie, pigri, superstiziosi, dediti soltanto alle guerre civili, alle rapine, capitò son circa 22 anni, il padre Stella, e si consacrò con mirabile zelo ed istancabile pazienza al loro morale e materiale miglioramento. Egli fondò nel paese dei Bogos la prima chiesa e la prima missione cattolica; ma quel che è più, pervenne ad ispirar loro massime di giustizia, rispetto per la proprietà e la vita altrui, amore al lavoro, e seppe co’ suoi costanti benefizii, non meno che cogli ottimi insegnamenti, cattivarsi l’affetto e la fiducia di quei rozzi montanari, cosicchè ne divenne il maestro, il protettore, l’arbitro. Anche adesso, lui morto, il suo nome è riverito a Keren e nei villaggi circonvicini, e ciascuno ricorda come si adoprasse a lenire i mali della carestia e della guerra, a comporre le contese fra famiglia e famiglia, tribù e tribù; come egli, non perdonando a pericoli, a fatiche, strappasse dalle mani di spietati rapitori i Bogos tratti schiavi dalle masnade egiziane. Pure è una storia lamentevole quella dello Stella. L’influenza che egli aveva acquistata coll’abnegazione [p. 88 modifica]e il sacrifizio gli valse fiere rivalità ed inimicizie; e nei suoi ultimi giorni, invece di cogliere il guiderdone dovuto alle sue fatiche, si vide fatto segno alla calunnia ed alla persecuzione, poi fu bandito dal paese che aveva cotanto beneficato.

Uno degli avversarii del povero Lazzarista, quegli che gli mosse più aspra guerra, fu, mi spiace doverlo dire, un uomo che porta un nome onorato fra i cultori delle scienze geografiche, Werner Munzinger. Io ne fui consapevole solamente dopo il mio ritorno in patria, quando conobbi i documenti, raccolti con scrupolosa diligenza da’ miei compagni, sulla vita dello Stella e sulle vicende della colonia italiana da lui fondata.

Il territorio dei Bogos è una contrada montuosa, geograficamente appartenente all’Abissinia, che confina colle terre dei Takue e dei Bedjuc al nord, con quelle dei Beni-Amer o Barca al sud e ad occidente, col paese dei Mensa e l’Amasen ad oriente. La sua altezza sul livello del mare supera in media i 4,000 piedi parigini e raggiunge in qualche punto i 6,000 (per esempio sul monte Sevan). In esso è compreso un breve tratto del fiume Ansaba, il quale si versa poi nel Barca.

Uno dei primi a far conoscere questo paese ed i suoi abitanti fu G. Sapeto, in un bel libro ricco di eccellenti notizie storiche, geografiche, archeologiche 7. Werner Munzinger, che presso a poco nella medesima epoca e più volte poi in seguito lo visitò, e vi fece lunga dimora, pubblicò importanti documenti in proposito che interessano tanto la geografia quanto l’etnologia 8. Vi capitarono poi successivamente Plowden, console britannico, ed il francese de Courval, il quale ne levò una buona carta e ne descrisse con vivi colori le bellezze naturali.

Nel 1861 la benemerita spedizione tedesca inviata alla ricerca di Vogel, cui presero parte Heuglin, Steudner, Kinzelbach, Hansal e Munzinger, perlustrò con sommo profitto della geografia e della storia naturale il paese dei Bogos e parte dell’Abissinia, prima di penetrare più addentro nel cuore dell’Africa. Il risultato di tale esplorazione fu, per non parlare di [p. - modifica]Mensa presso le loro capanne. [p. 89 modifica]altri lavori, una succosa relazione corredata di carte geografiche, ricca di esattissimi e nuovi dati concernenti posizioni, distanze, altezze, nonchè osservazioni meteorologiche.

Poco appresso, cioè nel 1862, il duca Ernesto di Sassonia Gotha, accompagnato da numeroso seguito, fece una gita a Keren (per la via dell’Ansaba), e sebbene questa avesse per iscopo principale la caccia, fruttò alla scienza un buon lavoro zoologico del dottore Brehm ed una relazione del principe stesso, ornata di belle cromolitografie del pittore Kretschmer 9; Guillame Lejean contribuì del pari, co’ suoi viaggi in Nubia e in Abissinia (dal 1862 al 1864), raccontati in modo così ameno e dilettevole nel Tour du Monde 10, a far conoscere il Sennaheit ed i Bogos. E di questi si occupò anche per incidenza Halevy nel render conto della sua escursione presso i Falacha 11.

Finalmente, a compiere questa enumerazione, è d’uopo far cenno delle ricerche di Blanford, naturalista addetto alla spedizione inglese d’Abissinia, il quale dopo la caduta di Magdala si trasferì a Massaua (nel 1868) e di là nel Samhar e a Keren. Egli ha compendiate le proprie osservazioni in un recente libro, utile a consultarsi, massime nella parte che tratta dei mammiferi e degli uccelli da lui raccolti durante il viaggio 12.

Al villaggio di Keren, situato a 60 miglia in linea retta da Massaua, all’altezza di 4469 piedi sul livello del mare (secondo la carta di Petermann), si può accedere per due principali strade, o piuttosto sentieri che seguono generalmente i letti di piccoli corsi d’acqua. La prima, via abituale delle carovane, che attraversa il Samhar, e le terre dei Mensa e passa per Desset, Magret, Mai Ualid, Goneb, Quaden-Duquet, Mohaber, Aclamet, Goquai, Gomfalon, è lunga, indiretta, ma facilmente [p. 90 modifica]praticabile dalle bestie da soma, non escluso il cammello, e si percorre normalmente in 7 giorni. La seconda, a malapena accessibile ai muli ed ai cavalli, volge dapprima ad Assus, segue la valle del Kesseret, attraversa il Dubbur Sciair, passa quindi a Maldi ed Abi Mentel, e sebbene sia la meno agevole, è però preferita dai pedoni indigeni perchè il tragitto non dura più di quattro o cinque giorni. Questa era la più conveniente per me, non solo per la sua brevità, ma perchè offre eziandio punti di vista assai pittorici e passa in paesi ricchissimi di selvaggina.

Al momento di tradurre in atto il mio disegno, il vice-console di Francia, il quale, dovendo partire per Aden, mandava al verde sulle alture di Keren i suoi cavalli ed i suoi muli, mise a mia disposizione, pel viaggio di andata, uno di questi animali; combinazione fortunatissima per me, giacchè non m’era riuscito di procurarmi ad alcun prezzo una cavalcatura a nolo, tranne un meschino asinello che appena era in grado di trasportare sè medesimo.

Secondo l’itinerario previamente stabilito, il 2 di giugno, poco prima di sera, passai dall’isola a Ras Gerara e di là, in due ore di cammino, giunsi in Moncullo che doveva essere il punto di partenza della spedizione. Profittai quivi per quella notte della cordiale ospitalità che mi fu offerta dal signor H*, il quale abitava colla propria famiglia nella casa del console.

Mentre si ammanniva la cena, sul desco, apparecchiato all’aperto sotto la volta scintillante del cielo, il mio ospite mi intratteneva di parecchie singolarità del paese e mi raccontava come ogni notte le iene visitassero il villaggio e si introducessero bene spesso nei giardini per razzolare, fra gli avanzi delle cucine, qualche osso da rodere; e come egli, dormendo all’aperto nella stagione calda, si ponesse a giacere accanto il proprio bambino, pel timore che non gli fosse rapito dalle belve, durante il sonno, cosa che già accadde ad altri. Soggiungeva poi che non di rado odesi il ruggito del leone, il quale suol scendere notturnamente dai vicini colli per attutire le sue brame sanguinarie sulle mandre raccolte nel piano.

Sul proposito dei leoni del Samhar, udii più e più volte narrare drammatici episodii. Nè sono meno interessanti quelli riferiti dal Sapeto e ch’io per la loro piacevolezza non so rattenermi dal regalare al lettore. [p. 91 modifica]

«I pastori di Hailat hanno tale una confidenza col leone che lottano con lui. Io vidi due giovani pastori che fra tutti e due potevano avere trent’anni, dei quali uno tolse al leone una vaccherella, tenendola per la coda e gridandogli addosso, nè venendogli fatto di torgli per amore la roba sua, gli menò una batacchiata così forte sulla spina dorsale, che il leone lasciò la preda, e si volle rivoltare al giovanetto, ma non si potè rialzare perchè quel fiero colpo gli aveva scassinate le vertebre della schiena. L’altro poi veduto il leone dormire, tutto gonfio del pasto fatto intorno ad una sua vitellina, per vendicarsene tolse un sasso tanto grande quanto potevano le sue forze, e senza nessun timore fattosi sopra il leone, glielo lasciò cadere sulla testa, ch’era appoggiata ad un altro sasso e gliela schiacciò. Ed i pastori parlano di lui come noi possiam parlare del mulo, e sono curiosi oltremodo negli scongiuri che gli fanno, quando viene assalendo negli agghiacci o sui pascoli i loro bestiami. Una volta, essendo io con alcuni amici a Tserha accampati vicino ad una mandra, il leone in lontananza fece un baturlamento di tuono; le vacche si rammucchiarono e strinsero insieme, appoggiandosi il deretano, con testa alzata, orecchi tesi, per udire l’andare. Il leone si avvicinò ciampeggiando; ma così grossa bestia, comechè piovesse dirotto, non poteva nascondersi al chiarore che metteva il fuoco; quindi venne veduto dal pastore beduino il quale così prese a dirgli: Nas-Abi, Grand’uomo, che fai tu costà? Non sei tu il re degli animali? Che bisogno hai tu di fare il ladro coi pastori? se tu sei forte, come mostri, e celere come ti si pare, che non cacci le asabat (antilopi) e gli animali selvatici, vecchio poltrone? che Maometto ti maledica, gaglioffaccio — e continuò lunga pezza a cianciugliare queste ed altre pappolate. Il leone o avesse altro da satollarsi, o temesse l’odor della polvere, girò a noi intorno, e poi sfrattò senza far nulla. Ciò sia detto per modo di episodio e per far conoscere l’indole di questo temuto animale.»

Prima di giorno, tutto essendo in ordine per la partenza, mi accommiatai dal mio ospite, e la piccola carovana prese le mosse. Marciava innanzi, con incesso grave e maestoso, un montanaro abissino che faceva da guida; egli teneva la cavezza d’un cavallo ed era armato di lancia. Lo seguiva un famigliare del si[p. 92 modifica]gnor Munzinger, negroide nativo dell’Amara, conducendo un puledro ed un mulo che portavano acqua e viveri; io gli tenevo dietro cavalcando un buon mulo; poi alla coda della colonna si affannava il somarello carico della mia roba, accompagnato dal proprio conduttore, dal mio piccolo servo Gabrù, e da un tal Sciangallo, il quale, essendo armato d’un vecchio fucile da munizione, ci serviva di scorta.

Varcate alcune pieghe del terreno, il nuovo sole si leva splendidissimo e mi permette di osservare l’aspetto del paese. Si vedono all’innanzi rilievi irregolari, poco elevati, di color rossigno ed aridissimi; più in là, colline biancastre, assai sterili ed alte montagne violacee od azzurre in lontananza. Lungo la strada, si incontrano, da quando a quando, profondi burroni, scavati forse dalle acque torrenziali che in varii punti hanno ricoperto il suolo di un potente strato di sabbie e di ciottoli tolti alle montagne; ma l’acqua stessa non si rinviene in alcun luogo, comunque ad ogni passo si appalesino irrecusabili testimonianze del suo passaggio. Le sole creature viventi che si mostrano al viandante in quella desolata solitudine sono la comune gazzella, la pernice del deserto (Pterocles), le cui penne imitano il fulvo del terreno sul quale dimora, e rari uccelletti che sembrano smarriti. La vegetazione è rappresentata da grame acacie, da pochi cespugli di salvadora, da qualche ingiallita graminacea, che si raccolgono di preferenza nelle concavità del suolo, in cui a vicenda si difendono dalla siccità e dell’arsura. In breve tratto di piano, coperto di sottil crosta di terra vegetale, ove si coltiva il dura, essendo compiuto il raccolto, vedonsi sparpagliati in disordine sul suolo polveroso i culmi pesti e monchi.

Proseguiamo il nostro cammino fra piccoli rilievi e poggi formati di arenarie, di calcari, di gessi, geologicamente assai recenti, ricoperti in alcune località da un deposito di ciottoli e sabbie, i cui elementi (graniti, porfidi, quarzi, scisti) provengono dalle vicine montagne. In qualche punto a questi materiali si associano piccoli pezzi di lava che diventano sempre più fitti nelle adiacenze di certi monticelli, la cui natura vulcanica è rivelata dalla forma conica e dal colore nero o rossigno. Da un tal fatto e dalla esistenza di alcune vere colate di lava, sovrapposte alle arenarie ed ai calcari, si deve arguire [p. 93 modifica]che qui, come sui lido d’Assab, corno sulla costa del Jemen, l’azione vulcanica si è esercitata in tempi non molto lontani da noi, secondo ogni probabilità posteriori al periodo pliocenico. Nella mappa geologica unita all’opera di Blanford, si vede rappresentata con una grande striscia uniforme, ad occidente ed a mezzogiorno di Moncullo, la regione vulcanica sopra indicata, col nome di Aden vulcanics series, come se le roccie laviche costituissero colà una formazione continua; mentre invece emergono soltanto di tratto in tratto e non sono che un elemento accessorio nella gran zona littorale del Samhar. Questa è distinta, nella carta stessa, con un colore peculiare e determinata come alluvium, appellativo che a me sembra improprio, trattandosi di una spiaggia emersa quaternaria e di giacimenti marini verosimilmente pliocenici. Non vi è in alcun modo notata un’isola più antica, forse terziaria, forse di età più remota, che corrisponde alla catena di colline esistenti immediatamente prima del piano alluviale di Assus, erroneamente confuso coi confinanti terreni secondarli. Un ultimo appunto alla carta del signor Blanford: Come mai ha posto egli Keren nell’area delle roccie metamorfiche, mentre intorno a questo villaggio, e per molte miglia in ogni direzione, non si incontrano che graniti evidentissimi?

Di tratto in tratto osservo ai lati della strada certi sassi o ciottoli grandi e piccoli, al massimo della dimensione di un ordinario paracarro, disposti in circoli d’un diametro variabile (per esempio di quattro, sei, o dieci passi), ciascuno dei quali offre una soluzione di continuità corrispondente all’arco della circonferenza in cui le pietre sono più piccole. Mentre io chiedo a me stesso qual possa essere l’ufficio di tali monumenti, sorta di cromlek in minime proporzioni, vedo in uno di questi entrare parecchi viandanti e porvisi nel mezzo, indi prostrarsi, invocando Allah ed il suo profeta. Sono dunque in certo modo moschee rudimentari, consacrate alle pratiche dell’islamismo; ma forse l’origine loro risale ad altri tempi e ad altri culti di remota antichità.

Il terreno va diventando più variato nei suoi aspetti, meno arido, e si mostrano di già meglio distinte le catene montuose che dovrò attraversare nel corso della mia peregrinazione. Frattanto, appressandosi il meriggio, l’arsura è diventata intollerabile, il suolo riscaldato scotta le piante ed offende la vista col [p. 94 modifica]suo riverbero; siamo tutti trafelati e stanchi. Ma, per nostra ventura, la prima tappa volge al suo termine, ed in breve giungiamo al letto di un torrente prosciugato, ove si fa sosta all’ombra delle acacie e si provvede a soddisfare lo stomaco insofferente di sì lungo digiuno 13.

Ristorate le forze col cibo e col riposo, e rinnovata la provvista d’acqua alla vicina pozzanghera, ci mettemmo in marcia ad onta del caldo sempre gravissimo. Avendo quindi seguito per poco ancora il letto del torrente, oltrepassammo vari piccoli rilievi lunghi ed appianati come i terrapieni d’una fortezza, per raggiungere dopo molto cammino un gruppo di colline biancastre, tra le quali penetrammo in un ristretto vallone, dimora prediletta alle scimie, ai leopardi, alle iene, ai cinghiali 14, cui due cacciatori tedeschi, stabiliti in Ailet, tendevano ogni giorno nuovi agguati. Il sentiero passa ad un certo punto lungo una rupe tagliata a picco, appiè della quale v’ha un pozzo d’acqua potabile. Mentre i miei uomini attendevano a riempire gli otri, potei osservare colà, a mio bell’agio, le sentinelle avanzate d’una tribù di cinocefali 15, che quivi ha eletto domicilio, sporgere la testa arruffata dall’alto del ciglione, spiando irrequiete i nostri movimenti e facendo sentire un sommesso grugnito, quasi come fra di loro si avvisassero di stare all’erta. Allo svoltare della strada si vide poi l’intero stuolo, di forse centocinquanta individui 16, inerpicarsi frettoloso sul pendìo d’un poggio e sparire dietro le piante e i dirupi. Questi animali possono raggiungere nello stato adulto l’altezza di un metro, e sono coperti di folto vello misto di bigio, di fulvo e di bianco; il loro muso, assai prominente, rammenta quello del bracco, ed è guarnito per ambo i lati da folti ed irti peli biancastri, a guisa di barba. Hanno estremità forti e robuste, coda assai lunga. D’indole rabbiosa e battagliera, sono spesso in baruffa e si addentano l’un l’altro crudelmente; vuolsi che, attaccati dall’uomo, si difendano talora con grande ardire e si facciano a loro posta [p. 95 modifica]aggressori, allorchè s’accorgono d’aver incontro un nemico debole e pusillanime. I maschi grossi e robusti sono poligami, e dicesi che quando uno di questi sia preso od ucciso, i superstiti si battano accanitamente tra di loro per la conquista delle femmine rimaste libere, le quali divengono poscia preda del vincitore.

Percorso un gran tratto di paese fra sterili rupi, convenne ascendere il fianco d’un colle irto di sterpi, finchè, pervenuti alla vetta, mirammo in basso una estesa pianura, nel mezzo della quale il villaggio di Assus comparisce come macchietta oscura in un campo verde-cupo. Più in là, fanno argine alla vista monti l’un sull’altro accavallati in tre distinte catene; i primi, bassi, rotondeggianti e denudati, gli altri, successivamente più alti e profilati a seghe e a cuspidi. Dall’opposto lato, riandando collo sguardo al paese già trascorso, mi apparve la sconsolata campagna confusa nelle ombre della sera, ed avvolta in un vapore rossastro. Mentre si estinguevano gli ultimi chiarori del giorno morente, calammo al piano, per una china così erta e scoscesa che non saprei immaginarmi la peggiore, e per quella bisognò condurre passo passo ciascuna bestia da soma, sostenendola da ambo i lati, acciocchè non avesse a precipitare. La carovana procedette allora lentamente nell’oscurità, calcando le orme della guida, gli uomini traendo penosamente i sandali sul suolo caldo e polveroso, gli animali colla testa bassa e l’occhio spento. Sciangallo col fucile in pugno, guatava a destra ed a manca i cespugli, pel timore che alcuna fiera fosse per balzarne fuora e ad ogni stormire di foglie si arrestava ed approntava l’arme. Tuttavia entrammo verso le 10 nel villaggio d’Assus, senza aver fatto tristi incontri, e sollevate le bestie dal carico, ciascuno di noi, senza nemmeno prender cibo, tanto eravamo stanchi, si pose a giacere sul terreno, chi avvolto in un mantello, chi in una coperta di lana.

Un’ora innanzi giorno abbandonammo il duro giaciglio per metterci nuovamente in cammino. Volte quinci le spalle al villaggio, che era ancora immerso nell’oscurità, percorremmo una gran pianura alluviale parzialmente, coltivata, in cui osservai più volte profonde spaccature non più larghe di uno o due metri, rettilinee o spezzate, dovute, secondo io credo, ai terremoti che sovente scuotono il paese. Appiè delle prime [p. 96 modifica]alture vidi levarsi dai cespugli alcune galline di Faraone e francolini, uccelli che trovai poi comunissimi lungo la strada, e mi fornirono un eccellente cibo, ogni qual volta mi fu concesso dar loro la caccia. Nel medesimo luogo incontrammo pure parecchie agili gazzelle (Antilope dorcas), della specie medesima che abbonda fra Moncullo e Desset, le quali alla nostra presenza si diedero a precipitosa fuga.

Ecco ora estollersi a noi d’innanzi i contrafforti dell’alpe abissina, oltre la quale il grande altipiano etiopico versa al bacino del Nilo il tributo generoso delle sue acque. Girando attorno alle basi loro, pei varchi che offrono gli alvei di torrenti inariditi e senza mai ristare dal salire e dallo scendere, ci interniamo in mezzo a gruppi montuosi, di altezza sempre crescente. Nella valle di Kesseret, in cui procediamo per lungo tratto, spesseggiano combretacee ed acacie di specie diverse, alcune armate di aculei ritti, altre di spine uncinate. I rami loro ingombrano e sbarrano il sentiero; ed una volta che per astrazione mi lasciai trasportare dal mulo nel ginepraio, ne uscii, a stento, colla faccia vergata di graffiature e coi panni tutti laceri. Dopo questo incidente mi sembrò più verosimile l’avventura di Assalonne.

Sebbene meno grave che nel giorno precedente, non manca il sole di far sentire la sua vampa soffocante all’approssimarsi del meriggio: ed al caldo si unisce la fame e la sete. Affrettiamo pertanto il passo affine di raggiungere sollecitamente la prima acqua, meta agognata della lunga marcia, tregua ai nostri disagi. Già è dessa poco lontana, poichè le pungenti acacie cedono il luogo a svariati e folti arbusti, ad ombrosi sicomori, ed un molle tappeto di erbe si stende sotto i nostri passi. Finalmente si ode il grato mormorio dell’umile rigagnolo, il cui vitale umore mantiene perennemente verde l’amena vallicciuola. Qui si sgravano dalle some i nostri quadrupedi e si lasciano liberamente vagare al pascolo.

Appena smontato, mi percuote il frastuono di un colpo di moschetto, tosto susseguito da un altro; ed ecco Sciangallo, che si era dapprima allontanato, venire a me trionfante, portando sulle spalle un bel dic-dic 17, elegante animaletto agile e snello, [p. - modifica]Un aratro tra i Mensa e fra i Bogos. [p. 97 modifica]vestito d’un bel pelame bigio. Povera antilope! Guarda cogli occhi languidi ed esterrefatti il suo carnefice, agita una volta ancora le membra irrigidite e muore. Ma la pietà è muta quando la fame parla, ed io, senza commuovermi, spoglio il corpicino della pelle, ed infilzatolo in un ramoscello d’albero, a guisa di spiedo, lo affido al piccolo Gabrù, coll’incarico di farlo girare sulla brace ardente fino a nuovo ordine. D’altra parte, uno dei miei uomini si accinge a preparare il pane alla maniera primitiva degli Abissini. Versata farina, con acqua e sale, su di una pietra piana e tersa, ne forma una pasta ben soda ed omogenea, che vien poscia divisa in tante parti. In ciascuna acclude allora un grosso ciottolo e la mette così a cuocere nella cenere calda, circondata di brace; in mezz’ora, i pani hanno acquistato una tinta fulva o bruna e sono buoni a mangiarsi quanto un grossolano biscotto.

Risparmierò al lettore la descrizione del festino, dopo il quale, rifatti dalla fame e dalle fatiche, si levò il campo. Andammo da quel punto fino a sera lentamente salendo per dolce pendìo, a ritroso del rivoletto, tal fiata abbandonandolo per ritrovarlo in breve, con giri e rigiri che la mia memoria non saprebbe omai più rintracciare. Lungo la valle, i fianchi delle colline, più o meno inclinati, sono coperti di rada boscaglia, nella quale primeggia una sapotacea di alto fusto (Mimusops kummel), dimora abituale di agilissimi cercopitechi 18, e sono a notarsi altresì una Terminalia, un Ficus (F. populifolia), dai cui rami pendono radici avventizie, come nel F. religiosa delle Indie.

Sulle rupi denudate, che sporgono da quando a quando infra le piante, vidi più volte andar sospettoso il timido Hyrax e ricoverarsi nei crepacci al minimo rumore. Desso ha il portamento e le dimensioni d’una marmotta, ma ne differisce in tutto il resto: per la maniera della sua dentatura sembra intermedio fra i pachidermi e i roditori, ed ora in questo, ora in quell’ordine fu collocato dai naturalisti; offre inoltre il carattere singolare di aver quattro dita ai piedi anteriori e tre ai posteriori, in virtù del quale costituisce una famiglia peculiare ben distinta e circoscritta 19. Osservai, durante il cammino, ben pochi uccelli, [p. 98 modifica]tra i quali gioverà ricordare il Bucco margaritatus, un Tockus fornito di ampio becco rosso e di lunga coda, e lo strano Bucorvus abyssinicus, che avrò più tardi occasione di descrivere.

Al tramonto ci trovammo allo sbocco della valle di Gaba, in una sorta di anfiteatro formato da un monte coperto d’erbe, ma spoglio d’alberi. Dovendo qui pernottare, ci accampiamo in un prato, in mezzo ad un recinto di pruni e di sterpi, qual difesa contro le iene, i leopardi e i leoni. È necessaria una tal cautela, poichè le belve che infestano di nottetempo quei pressi, mentre attaccano talvolta gli animali domestici e perfino l’uomo in campo aperto, non ardiscono quasi mai oltrepassare la più piccola siepe per ghermire la preda. Riparate alla meglio le breccie esistenti nel recinto, i miei uomini adunarono una certa quantità di legna secca, destinata a mantenere un fuoco acceso tutta la notte, precauzione anche questa efficacissima a tener lontane le fiere.

La notte sopravvenne quieta, fresca, serena, ed io mi posi allora supino sull’erba, ascoltando i suoni indistinti che uscivano dalla vicina boscaglia e mirando sopra di me la vôlta purissima del cielo risplendente di stelle. Gli Abissini frattanto, raccolti intorno al fuoco, per riscaldarsi, erano stranamente illuminati dai riflessi rossastri della fiamma vacillante, d’innanzi alla quale spiccavano le forme loro snelle e corrette. Il gruppo bizzarro mi rammentava un ingenuo dipinto che orna certa antica cappella di campagna, nel quale l’artista ha figurato, avvolte fra le guizzanti fiamme, alcune povere anime del purgatorio dal corpo nero (perchè non ancor monde dal peccato) e colle mani levate in atto di chiedere misericordia. Sentendo poi farmisi gravi le palpebre, mi abbandonai al sonno e dormii saporitamente fino al mattino. Gli uomini imitarono il mio esempio, ad eccezione di uno che rimase di guardia per vegliare alla sicurezza dell’accampamento ed alimentare il fuoco.

Ritemprati dal riposo e più ancora dalla temperatura relativamente bassa (circa 15° cent.) goduta nella notte, ci alziamo col sole e si riprende il cammino. Questo comincia coll’ascesa del Dubbur Sciair, l’alta montagna alla cui base abbiamo [p. 99 modifica]pernottato. Il sentiero non è altro che un burrone a pareti quasi perpendicolari, in cui non si può procedere che ad uno per volta, inerpicandosi per rozzi scaglioni; i cavalli ed i muli, sebbene non sieno ferrati, scivolano spesso sulla roccia levigata, ma pure superano felicemente il mal passo.

Dopo due ore di sì aspra salita, che mettono a dura prova i miei polmoni, mi è alfine concesso di pigliar fiato su di un terrazzo erboso, coltivato a dura, dal quale si domina tutto il paese fin qui attraversato. C’imbattiamo, in questo luogo, in una mandra di buoi simiglianti ai nostrani, ma più piccoli ed armati di più lunghe corna. I loro pastori, che appartengono alla schiatta dei Mensa, offrono un tipo che mi sembra superiore alla razza, mista del Samhar. Alti di statura, magri, disinvolti, presentano fattezze regolari, fisionomia intelligente, forse un po’ altera. Secondo il costume del paese, portano tutti la corta lancia abissina ed alcuni anche uno scudo rotondo, alquanto prominente nel centro, fatto in pelle d’elefante.

Senza gran fatica, la carovana pervenne sul crinale del monte da cui si scopre in basso l’ampia distesa dei pascoli di Maldi ed all’intorno un semicircolo di montagne dentellate, che rammentano le nostre prealpi piemontesi e lombarde. Verso la vetta la vegetazione, assai fitta, risulta principalmente di una conifera e d’una specie d’olivo selvatico (Olea chrysophylla), il cui legna durissimo serve ai Bogos a far le aste delle loro lancie; ai rami si abbarbicano lunghe chiome biancastre di Usnea barbata, che somigliano da lontano a ciuffi di canape. Regnava nel bosco un silenzio solenne, non turbato nè dal garrire degli uccelli, nè dal ronzare degli insetti, come fosse stato deserto di creature viventi, e solamente quando, per l’opposta china, calai alla base della montagna, tornarono a ricreare il mio orecchio le voci degli alati cantori.

Giunti al piano, ed oltrepassate alcune praterie che alternano con piccole macchie, ci arrestammo al limitare d’un boschetto ombroso, sulla sponda d’un ruscello; e qui ciascuno pose mano alle provviste. Le mie fatalmente erano esaurite, poichè pel timore di sopraccaricare il mio povero somarello, mi ero munito d’una quantità troppo piccola di viveri, sperando che, lungo il tragitto, avrei trovato a comperarne altri, o la caccia m’avrebbe somministrato di che far fronte al mancamento. Ma le mie pre[p. 100 modifica]visioni andarono fallite, perchè ad Assus non fu possibile far acquisto di dura, come io credeva, e quanto alla caccia, abbisognò rinunziarvi, perchè gli uomini del console borbottavano e non volevano aspettarmi ogniqualvolta io rimaneva addietro per inseguire o raccogliere la selvaggina. Costoro, abbondantemente forniti di vettovaglie, quando s’accorsero che io le avevo finite, divisero con me e col mio servo il loro pane. Ma sebbene non lasciassi loro ignorare che li avrei largamente rimunerati per tal favore, sembrarono concederlo di mala voglia, e da quel punto si mostrarono meco sgarbati e poco rispettosi. Temevano forse di non essere ricompensati? Nol saprei. Comunque sia, promisi a me stesso di non più mettermi in galea senza biscotto.

V’erano in quel luogo molti eleganti uccelletti, tra i quali ricordo aver veduto varie specie di Ploceus, Lamprotornis, Nectarinia, Emberiza, e la singolare Buphaga erythrorhyncha. Quest’ultima si nutre dei parassiti che trova sui buoi e li va piluccando in ogni parte dell’animale, perfino sui fianchi e sotto il ventre, aggrappandovisi colle sue zampette uncinate. La Buphaga ha presso a poco la grossezza della lodola comune ed è superiormente bigia, sotto di color biancastro che trae al fulvo, col becco robusto, corto, d’un rosso vivo.

Dopo un altro breve cammino giungemmo al centro dell’altipiano di Maldi, ov’è un piccolo villaggio formato di 46 capanne disposte in circolo perfetto, in mezzo al quale si adunano le mandre di quei montanari, quando tornano dal pascolo. Le capanne, assai piccole e fatte a cupola, risultano d’una armatura di rami d’alberi, coperta di stuoie e pelli; gli intervalli fra l’una e l’altra sono ricolmi di pruni, ad eccezione di uno che serve di accesso al villaggio. Un tugurio isolato, fuori del circolo, è destinato, se ben m’appongo, alle sentinelle che vegliano alla sicurezza della comunità. Entrati che fummo, ci vennero d’attorno molti fanciulletti ignudi per vedere il bianco signore dalla lunga barba, mentre sulle porte delle capanne si affacciavano per lo stesso oggetto e donne e ragazze, non meno curiose dell’altre figlie d’Eva. Fra esse alcune erano vestite, o meglio svestite, con una cintura, guarnita di lacinie di cuoio pendenti ed ornata di conchiglie; il qual costume, per lo passato assai generale, tende ora a scomparire, imperocchè cominciano ad adot[p. 101 modifica]tare le mode di Moncullo. Mi si presentò quinci il capo del villaggio, simpatico giovane dall’aria affabile e dignitosa, e fattomi il saluto d’uso, mi assegnò un posto ove potessi pernottare colla mia gente. Prese poscia un gran vaso pieno di latte, e, bevutone un sorso come per mostrare che non ricettava nascosto veleno, me lo porse, ed io libai accennando d’aggradire la cortesia. Per altro, ancorchè il latte fosse eccellente, lo tracannai con ritrosia, giacchè il recipiente in cui m’era offerto, contesto non so se di paglia o di giunco, era internamente spalmato di sterco bovino, forse per renderlo stagno. In appresso, entrarono successivamente nel villaggio gli armenti reduci dal pascolo, ricchi di ben 300 capi di bestiame, non compreso un certo numero di capre. 1 pastori si misero allora, a mungere le vacche e ad abbeverare i vitelli, e fattesi dense le ombre della notte, si accoccolarono intorno a grandi fuochi accesi nel mezzo del recinto per riscaldarsi e conversare fino all’ora del sonno, che non tardò molto a giungere.

Allo spuntar del giorno, ci dipartimmo da quei semplici pastori, e dopo un’ora di cammino, smontai dal mulo per valicare una montagna, indicata nella carta della spedizione tedesca 20 col nome di Sattel Mogasas, che limita da quella parte il bacino di Maldi. Abbenchè la salita fosse assai ripida e sconcia, la superai senza alcuna fatica, confortato dall’aria fresca e pura che si respira in quella alpestre regione. Il monte è tutto formato di granito a grossi elementi, la qual roccia, con lieve mutamento nel colore e nella struttura, si continua quasi per tutto uno a Keren. Ad una certa altezza comincia a mostrarsi sui suoi fianchi, in gran parte sprovvisti di vegetazione, il kolqual (Euphorbia abyssinica dei botanici), pianta arborea, d’un aspetto assai caratteristico: il suo tronco è alto non più di 40 piedi, diritto, irto di spine, di sezione poligona e porta molti rami consimili al fusto, diretti in alto come branche d’un candelabro. Dovemmo quindi valicare altri minori rilievi, dai quali discendemmo in un vallone lungo, stretto e profondo, le cui pareti erano tutte coperte di kolqual, così prossimi l’uno all’altro, da formare alcune volte una impenetrabile barriera. Osservai in questo punto recenti traccie lasciate dal passaggio di un branco [p. 102 modifica]d’elefanti, come già ne avevo vedute nella valle di Kesseret; cioè: feccie, terreno pesto, alberi rovesciati e talora decorticati da robuste zanne. Sembra impossibile che per burroni impraticabili e frammezzo ai più scoscesi dirupi si aggirino animali così massicci e pesanti!

La carovana si impegnò dipoi nei capricciosi meandri d’una amenissima vallicciuola fiancheggiata di alberi fronzuti, particolarmente di Ficus, Acacia, di Balsamodendron e di altre terebintacee, e tappezzata d’erbe, fra le quali non di rado si incontra una bella bulbifera a fiori rossi (Haemanthus multiflorus). Qui albergano i più meravigliosi campioni della ornitologia abissina.

Con qual piacere io mirava piene di vita certe vaghe specie d’uccelli di cui avevo osservato nei musei le spoglie sbiadite ed inanimate! Mi stupiva in altre, affatto nuove per me, la venustà delle forme, la vivacità e l’armonia dei colori. Tali erano a cagion d’esempio: un colombo assai più piccolo dei nostrali che ha tutto il corpo verde cenerognolo, tranne l’addome d’un vivissimo giallo e la coda fulva e bigia 21; una Coracias 22, sopra di color nocciola e bruna, inferiormente vinata nella regione del petto, celestina sul ventre e sotto le ali; le varie sorta di Lamprotornis e principalmente il L. purpuroptera, grosso storno dalle penne nere iridescenti, i cui riflessi metallici passano dal verde fosco al purpureo, al violaceo ed all’azzurro; una Corythaix dal becco rosso, che porta sulla testa un ciuffo verdiccio ed ha il corpo bruno olivastro, a sfumature bigie e verdi, colle ali inferiormente d’un rosso acceso; la Platysteira senegalensis, di cui vidi parecchie elegantissime varietà, e fra le altre una che ha il capo fregiato d’un ciuffetto azzurro carico, il collo nero, il petto bigio, candido il resto del corpo, salvo la coda, ornata di due lunghissime e flessibili penne bianche a nervatura nera. Ma tutte queste sono di gran lunga superate nello splendore delle divise, se non nel pregio delle forme, dalle esigue nectarinie: l’una (la N. cruentata) ha la testa di color verde metallico, il dorso bruno nerastro, vellutato, le ali e la coda brune e la parte inferiore del corpo nera, ad eccezione di una [p. 103 modifica]lucentissima piastra pettorale, in cui rifulgono i più vividi riflessi del rubino e dell’amatista; e non meno sfarzosamente abbigliata è la N. metallica, sulla cui veste spiccano, in bel modo combinati, il verde, il rosso, il giallo, e che porta nella coda due lunghe e sottili pennuccie verdi.

I numerosi abitatori del bosco facevano di continuo un lieto concento coi diversi gorgheggi, strilli e garriti loro. Ma sopra ogni altro canto risuonavano da quando a quando certe chiare e dolci note, come di flauto, di cui, a prima giunta, non seppi scuoprir gli autori. M’avvidi poi, dopo attenta indagine, che i misteriosi musici erano Lanarius 23, i quali a due per volta (credo maschio e femmina), posati sullo stesso ramo, mettono all’unisono armoniose voci.

Dopo tre ore di sosta, nella località denominata Ele-Beret, dove la valle sbocca in un angusto piano erboso, si ripiglia il sentiero, lasciando addietro la boscaglia ed il suo piacevole rezzo per valicare scabrose e nude balze granitiche. Comparisce poi il verde di grami pascoli che a mala pena attecchiscono sopra un suolo di granito sfatto. Sorgono tuttavia qua e là strani alberi solitarii, dal tronco basso, nodoso, di figura quasi conica, con robusti rami, assai estesi nel senso orizzontale, guarniti di ampie foglie lobate e di grossi fiori bianchi odorosissimi; le loro radici si espandono largamente alla superficie del suolo, e rinserrano talora grandi massi di roccia in un poderoso amplesso. Appartengono questi alla specie del baobab (Adansonia digitata), il gigante della flora africana.

Fui fermato più volte in quel giorno e nel seguente da viandanti bogos che vollero quasi per forza baciarmi la mano. Costoro sono cristiani 24 e praticano similmente cogli altri viaggiatori, in segno di riverenza e di amicizia verso correligionarii potenti e ricchi, perciocchè tali stimano tutti gli Europei.

Men belli della persona e meno industriosi dei Mensa, i Bogos non differiscono da questi loro vicini pei costumi, per gli usi, pel vestire. Il tipo loro fisiologico è, come giustamente avverte il Sapeto, quello stesso de’ tributarii del gran Sesostri effigiati [p. 104 modifica]negli antichissimi bassorilievi egiziani, è cioè il tipo abissino primitivo ben noto agli antropologi.

Arrivati sul tardi ad Abi Mentel, in cui si decise di passare la notte a causa del tempo che minacciava di regalarci un acquazzone, e più ancora perchè i muli erano stanchi, accettai l’ospitalità offertami da un indigeno nella propria capanna. Trovai colà ad acquistare, pel prezzo di un tallero, una pecora, e la feci sgozzare immantinente, acciocchè fosse cotta per cena e divisa fra la mia gente e la famiglia dell’ospite. La sera stessa inviai un messo a Keren per avvisare Antinori e Beccari della mia venuta; ed essi, ricevutolo nella notte, partirono innanzi l’alba per farmisi incontro. L’indomani avevo lasciato da poco Abi Mentel, quando, a gran distanza, le due brigate si segnalarono e si riconobbero a vicenda; ed in breve io stringeva la mano ai compagni col quel piacere che può provare soltanto chi, lungi dalla patria, ritrova i più cari amici. Ci avviammo allora, tutti insieme, alla volta di Keren, lungo una gran valle molto aperta, quasi spoglia di vegetazione.

Strada facendo, vedemmo appollaiati sopra uno dei radi baobab che rompono di tratto in tratto la monotonia del paesaggio, parecchi grossi volatili neri, chiamati dagli indigeni abbagumbà, i quali fuggirono al nostro cospetto; ma Beccari li inseguì di corsa, li raggiunse e ne uccise due. Il Bucorvus abyssinicus, tal è il nome che porta questa specie presso gli ornitologi, presenta la corporatura d’un comune gallo d’India ed ha un becco nero, sproporzionatamente ampio, curvo, munito alla parte superiore d’una prominenza cava, quasi in forma d’elmo; i suoi occhi grandi, neri, frangiati di lunghe ciglia, somigliano, nel taglio, agli occhi umani e danno all’animale una espressione melanconica; il collo è coperto d’una pelle nuda, azzurra e rossa, che forma pure un cerchio attorno alle occhiaie; nel rimanente del corpo è vestito di lucide penne tutte nere, salvo nella coda, in cui sonvene anche di bianche; le zampe, robustissime, hanno per ciascuna quattro dita, armate di potenti artigli. Esso vive di piccoli mammiferi e rettili che suol cacciare in aria col becco per farli poi ricadere nelle fauci spalancate ed inghiottirseli.

Lasciati addietro due o tre villaggetti, passammo accanto ad alcune tombe di Bogos, fatte con arte e diligenza molto [p. - modifica]Baobab con piante rampicanti; all’innanzi, un antilope agasen. [p. 105 modifica]maggiori di quel che non sieno colà le dimore dei vivi. Consistono abitualmente in costruzioni di pietra scura, a secco, di forma cilindrica, coperte superiormente di uno strato di ciottoletti bianchi. Se però la tomba appartiene ad un Bogos morto per mano nemica, le pietruzze son nere, tranne il caso in cui l’uccisore fosse un re straniero. Le pietre nere sono, il simbolo del sangue sparso che domanda vendetta, ma, secondo i costuni di quelle tribù, i re non sono tenuti a pagare il prezzo del sangue versato. I monumenti funerarii dei notabili e dei capi sono più grandi e raggiungono fin 20 piedi d’altezza. Bene spesso tali fabbriche si trovano riunite nel numero di quattro, cinque o più, in un recinto circolare, formato di un basso muricciuolo esso pure ornato di pietruzze bianche.

Eccomi finalmente nel territorio di Keren, spazioso bacino attorniato di monti granitici, in cui la vegetazione scarseggia assai meno che nelle adiacenze di Abi Mentel. Non vi mancano praterie, folti boschetti, rigogliosi baobab; ma l’aspetto del paese dimostra che vi regna sovente una estrema siccità. Il villaggio, che si asconde all’ombra di una gran rupe tagliata a picco, risulta di forse duecento capanne di paglia, per lo più in foggia di cupola, tra le quali risaltano le mura bianche della chiesuola eretta dalla missione cattolica.

I miei compagni abitavano una casuccia rustica circondata da una siepe di pruni (che rinserrava anche un capannone per uso dei servi e per la cucina); ma siccome non era abbastanza capace per tutti, Antinori mi fece preparare, entro al recinto, la sua tenda con un buon letto, lusso, di cui io mi ero svezzato da Massaua in poi: e se la prima notte il mio sonno non fu dei più tranquilli, debbo accagionarne le iene, che da sera a mane non cessarono di ululare, ed i cani di guardia del villaggio che rispondevan al concerto con lamentevoli latrati.

L’interno dell’abitazione era convertito da Antinori e Beccari in un laboratorio di storia naturale, in cui attendevano coll’usata loro solerzia alla preparazione di animali e di piante, frutto delle caccie e raccolte giornaliere. In breve spazio di tempo il primo avea già messo insieme, coadiuvato dal giovane abissino Said, da lui iniziato all’arte tassidermica, una eletta collezione di uccelli e mammiferi, in perfetto stato di conservazione; mentre il secondo, oltre ad un ricco erbario, aveva apparecchiato nu[p. 106 modifica]merosissime serie di rettili ed insetti in alcool, nonchè molti scheletri 25 ed altri oggetti interessanti per la zoologia. Per far conoscere qual sia l’importanza delle collezioni spedite in Italia dai miei compagni, dirò soltanto che vi si contano 96 pelli, 47 scheletri completi e 28 cranii di mammiferi (in tutto 37 specie), 416 pelli e 22 scheletri di uccelli (circa 140 specie), 264 esemplari di rettili e batrachidi in alcool, 3220 insetti, fra i quali il solo ordine di coleotteri è rappresentato da oltre 460 specie; poi molti aracnidi, crostacei, molluschi, anellidi ed entozoi 26. L’erbario contiene, oltre ad un certo numero di piante di Candia, di Aden, di Assab e di Massaua, 304 specie di fanerogame e 298 di crittogame raccolte nel paese dei Bogos. Fra queste, due bellissime Hydnora, denominate dal Beccari H. johannis e H. bogosensis, sono un nuovo e pregevole acquisto alla famiglia delle rafflesiacee 27.

In uno degli scompartimenti della capanna v’era una finestruola, davanti alla quale ogni mattina accorrevano a frotte i vispi ed accorti ragazzetti di Keren, onde offerire a Beccari, in cambio di poche conterie, i prodotti delle loro caccie, cioè: lucertole, camaleonti, ragni, scarabei e simili. I piccoli Bogos, che in fatto di furberia non hanno nulla da imparare da alcuno, erano già così bene addestrati in questo nuovo ramo di commercio, che conoscevano per filo e per segno quali fossero gli articoli più pregiati e quali meno. E quando per avventura incontravano alcuna specie non comune e non ancora raccolta, ne presentavano un esemplare per volta, come di cosa rarissima, acciocchè fosse loro pagata a più caro prezzo.

E la nascente colonia italiana? Che ne avvenne? A tale interrogazione, che i lettori stanno per muovermi, risponderò che essa finì dopo vita brevissima e tribolata.

La piccola falange, di ben 30 persone, che avea messo mano, [p. 107 modifica]nel 1867, ai primi lavori di costruzione e di coltivazione nel territorio di Sciotel, conceduto al padre Stella dal governatore dell’Amasen, si vide ben presto ridotta all’impotenza dalla mancanza di capitali e dalla diserzione dei coloni. Frattanto il Munzinger, osteggiando con ogni sua possa lo Stella, tanto fece, coi suoi intrighi, che gli suscitò molestie e persecuzioni d’ogni maniera, finchè il povero missionario, affranto dalle sciagure, finì col soccombere miseramente di improvvisa malattia il 20 ottobre 1869. Con lui periva anche l’impresa, cui s’era con tanto ardore consacrato.

I miei compagni si diedero ogni premura immaginabile per raccogliere documenti e testimonianze riguardanti le vicende e la fine dello stabilimento di Sciotel, ed il dottore Beccari, tornato in patria, ne espose per filo e per segno una storia imparziale, nella relazione destinata ai suoi mandanti. Ma siccome questa mette in luce alcuni fatti poco lusinghieri pel signor Munzinger (nè poteva essere altrimenti in uno scritto veridico), il consiglio della Società Geografica, mosso da un sentimento, di delicatezza altrettanto esagerato quanto intempestivo, oppose tali difficoltà alla pubblicazione del rapporto, che l’autore credette doverlo ritirare, almeno per allora. La Società Geografica ha negato così il suo concorso ad un atto di riparazione e di giustizia dovuto alla memoria dello Stella ed ha perduto forse l’occasione d’inserire nel suo bullettino (che pur non ha dovizia di buoni lavori) una memoria originale del più alto interesse scientifico.

Durante il mio breve soggiorno nel paese, feci in compagnia di Beccari una passeggiata sul monte, a tergo del villaggio, ove si trovano dei cinocefali, che però io non vidi. Di là si scuoprono in lontananza montagne senza fine, alcune delle quali sono di figura tabulare, cioè colla sommità mozza e spianata; disposizione frequentissima nella orografia abissina (designata dagli indigeni col nome di amba), dipendente da peculiari condizioni stratigrafiche e da potentissimi agenti distruttivi e denudanti. Ad onta della mia inesperienza nella caccia, riportai di colassù varie nectarinie e saxicole, nonchè un piccolo francolino. Sui grandi baobab che sorgono appiè dello stesso monte osservai, piuttosto comuni, un Tockus dal lungo becco ed una gentile Barbatula, uccellino che ha la testa maculata di rosso ed il corpo variegato di bianco, di nero e di giallo. Incontrai mi[p. 108 modifica]glior fortuna nelle mie imprese venatorie sul piano e specialmente in una piccola macchia, in cui passa il letto d’un torrentello. Ivi abbondano quasi tutti gli uccelli che ho già precedentemente noverati ed altri ancora, come, per esempio, il Textor vitellinus, grazioso passeraceo di color giallo croceo, con sfumature brune e verdi, il quale tesse dei nidi in guisa di lunghe borse che pendono all’estremità dei rami di acacia e di Ficus, due specie di ornatissimi alcioni ed una Pytelia che rifulge di porpora e d’oro. In fatto di mammiferi, uccisi una lepre e vidi varii scoiattoli, topi ed altri piccoli roditori.

Sono pur comuni in quella interessante località un bellissimo stellio dal petto azzurro (Stellio cyanogaster), uno scinco, alcune Euprepes, nonchè altre agili lucertoline.

Trascorsi tre giorni, dovetti dispormi alla partenza, giacchè mi ero prefìsso di trovarmi in Massaua verso la metà di giugno, ed il tempo omai stringeva. In conseguenza pigliai a nolo una mula, l’unica disponibile in tutto il villaggio, ed un secondo somaro per trasportare i miei bagagli, accresciuti delle raccolte fatte nel corso della gita e di viveri freschi. Sciangallo, dovendo ritornare a Massaua, mi esibì i suoi servizii, in qualità di guida ed io li accettai.

Partiti da Keren il 10 giugno, in compagnia di Beccari ed Antinori, che vollero far meco un buon tratto di strada, s’andò la sera medesima a desinare ad Ele-Beret. Il dì seguente ci inoltrammo nella deliziosa valletta ricchissima di selvaggina che ho già descritta, arrestandoci di tempo in tempo per muover guerra nell’interesse della zoologia ai volatili ed ai quadrupedi. Ad un certo punto la necessità di forbir le canne dei moschetti, la convenienza di preparare gli animali uccisi ed il bisogno di cibo ne indusse a far alto all’ombra di un albero fronzuto. Quivi, ristorato da un pasto frugale, presi commiato dai compagni per scendere colla mia gente verso Maldi, mentre essi riedevano a Keren 28. [p. 109 modifica]

Io aveva allora ripigliato l’andare, quando vidi una nube color di piombo invadere a poco a poco tutto il cielo, e all’orizzonte corruscare spessi lampi, accompagnati da un lontano romoreggiare di tuoni. In breve si mise un’arietta fresca e cominciarono a cader goccioloni radi, cui sottentrò dirottissima pioggia. Da principio ci ricoverammo sotto un albero, ma divenuto il rifugio insufficiente, ed essendo omai tutti fradici, stimai miglior partito proseguire il viaggio, rassegnandoci alla mala parata. Non tardò d’altronde a rompere il sereno verso levante, a dileguarsi il nembo, e la campagna, sgombra di vapori, apparve più ridente di prima, colle piante riverdite, cosparse di goccioline scintillanti. Durante la pioggia, ci imbattemmo lungo la strada in molti animali, calati probabilmente nella valle per sfuggire alla tempesta che infuriava sulle alture. Ci passò d’innanzi come turbine un branco di grandi antilopi, della specie detta agasen 29 dagli Abissini, sul quale scaricammo inutilmente i nostri fucili. Incontrammo poi numerosissimi francolini e galline di Faraone che sembravano come sbalorditi, e si lasciavano quasi pigliar colle mani.

Asciugati i nostri panni ai fuochi ospitali di Maldi, e passata ivi la notte, ripartiamo allo spuntar del giorno per fare in senso inverso la via battuta nell’andare, se non che questa volta si procede assai lentamente a cagione della mia mula, animale restìo, pieno di vizi, che ora s’impunta con una ostinazione senza pari, ora, insensibile al morso, s’impelaga negli spineti con grave detrimento della mia persona. Gli asinelli, come per non esser da meno della pervicace compagna, allorchè s’accorgono di non essere sorvegliati, si introducono prestamente dove è più folta la boscaglia e non tardano a sbrigarsi della soma, lasciandola appesa ai pruni o sparpagliata sul terreno, recandoci così gravissimi fastidii e ritardi. Gli animali da me osservati cammin facendo sono: al limitare del piano di Maldi, due cani selvatici a pelame macchiato 30, che stavano divorando un vitello morto; nella valle di Kesseret, diversi cercopitechi, due dei quali furono uccisi da Sciangallo, e varii scoiattoli, viverre, lepri ed Hyrax. Taccio degli uccelli di cui mi sono già abbastanza oc[p. 110 modifica]cupato. Giunta la sera, ci tratteniamo a dormire in una spianata adiacente alla valle. Non così il dì vegnente, che approdati ad Assus, lungo la via già nota al lettore, e sopraggiunta la notte, si continua a camminare nell’oscurità infino al monte delle scimmie, alla cui base pigliamo un po’ di riposo, senza nemmeno far la solita siepe di spini ed accender il fuoco, per risparmio di tempo. I cinocefali, disturbati ad ora insolita nei loro sonni, ne traggono vendetta interrompendo sovente i nostri con rauchi muggiti.

Al momento di montare a cavallo per rimettermi in viaggio, la mula imbizzarrita a causa della stanchezza e delle busse che i miei uomini non le avevano risparmiate, mi avventò un tal paio di calci sul petto che ne rimasi sbalordito; laonde io posso con ogni ragione asserire di non aver incontrato in Abissinia belva più feroce di quella. Tuttavia balzato in sella a dispetto dell’animale ribelle, mi avviai lentamente pel mesto vallone, e valicate le ultime colline mi si parò davanti la desolata landa del Samhar. Il sole sorge intanto sfolgorante in un orizzonte rosso e polveroso e più s’alza e più i suoi raggi cocenti si aggravano sulle nostre teste, come cappe di piombo. Addio ombre ospitali dell’antica selva, aure vivificanti delle montagne, lieto cinguettar d’uccelli, mormoranti rivi! Tutto ciò è scomparso. Qui gli alberi brulli di foglie, irti di spine, non danno ombra; qui non spira brezza, ma aria infuocata e maligna che asciuga le fauci e toglie il respiro; qui sono muti gli uccelli e i fiumi inariditi. Poichè ci slam condotti fino al greto del torrente Desset, la prudenza ci consiglia a non proceder oltre, finchè non sia scemata la vampa soffocante delle ore meridiane; ed infatti ci poniamo a giacere e a dormicchiare sotto le acacie, parandoci alla meglio il sole coi nostri panni appesi ai rami a guisa di tende.

Quando fui sopra i poggi che sovrastano Moncullo, prima ancora di scorgere il mare e le case imbiancate di Massaua, vidi chiaramente all’orizzonte il fumo e gli alberi d’un piroscafo; e sentii crescermi la lena e centuplicarmi la fretta. Un vapore in porto significava per me l’arrivo di lettere e di notizie che io bramava più ardentemente di quanto non anela ad una fresca sorgente il viaggiatore smarrito nel deserto; quella nave era inoltre una speranza, anzi una promessa di sollecito e lieto [p. 111 modifica]ritorno fra i miei, e già per essa mi sentivo in un attimo trasportato al natìo lido, ed alla fantasia riscaldata mi si affacciava un visibilio di gioconde immagini. Ma poi fra me medesimo andavo dicendo, che non era forse quella la nave aspettata, che forse non sarei giunto in tempo per imbarcarmi. Intanto acceleravo il passo con febbrile impazienza.

Pervenuti a Moncullo che già annottava, lasciai colà Sciangallo col mulo ricalcitrante, che non ristava dal tirar calci ogni qualvolta alcuno gli si avvicinava; tracannai poscia avidamente un sorso d’acqua offertomi, in secchio di cuoio, da una pietosa ninfa color di fuliggine, e proseguii tosto per Massaua a passo arrancato, col seguito dei due somari che ogni tanto piegavano le ginocchia per la stanchezza. A Ras Gerar tutto dormiva e non v’era un burchiello per traghettarmi a Massaua. Ma per buona sorte, mediante parecchi spari di fucile, riuscii a chiamare un battelliere, che stava all’altra riva, e mi feci trasportare nell’isola colla mia roba.

Note

  1. La media temperatura del mese di giugno supera in città i 34° cent. Il termometro segnava talvolta in casa mia fin 42° all’ombra.
  2. Die Deutsche Expedition in Ost-Afrika, Gotha, 1864, pag. 1.
  3. Voyage en Nubie, Le Tour du Monde, 1865, premier semestre, pag. 134.
  4. Sapeto distingue sotto il nome di Sanahit (nell’idioma locale, bel paese) la contrada che comprende i 10 villaggi più orientali dei Bogos, riserbando quello di Bilen alla parte occidentale. Lejean invece impiega il vocabolo Sennaheit per indicare l’intera regione popolata dai Mensa, dai Bogos e dagli Habab.
  5. Lejean scrive questa parola choumaglié.
  6. Tale è sempre il primo nato della prima moglie, quando anche fosse venuto alla luce dopo un altro figlio della seconda moglie.
  7. G. Sapeto, Viaggio e Missione cattolica fra i Mensa, i Bogos e gli Habab, Roma, 1857.
  8. Ueber die Sitten und das Recht der Bogos, Vinterthur, 1859, — Ostafrikanische Studien, Schaffausen, 1864.
  9. Reise Herzog’s Ernest von Sachsen-Cohurg-Gotha nach Ægypten und den Ländern der Habab, Mensa und Bogos, Leipzig. — Ergebniss einer Reise nach Habesch in Gefolge der Regierenden Herzog’s von Sachsen-Coburg-Gotha. Ernest II, Hamburg, 1863.
  10. Le Tour du Monde, 1865, 1.r semestre; e 1867. 1.r semestre. Il viaggio in Abissinia di Lejan fu tradotto in italiano nel Giro del Mondo, vol. V e VIII.
  11. Joseph Halevy, Excursion chez les Falacha en Abyssinie, Bulletin de la Société de Géographie, Tome XVII, 1869, pag. 270.
  12. Blanford, Observations on the Geology and Zoology of Abyssinia made during the progress of the British Expedition to that country in 1867-68, London, 1870.
  13. Nel Samhar, i corsi d’acqua sono a secco tutto l’anno, fuorchè durante il kharif, stagione delle pioggie estive.
  14. Phacochœrus Æliani.
  15. Cynocephalus hamadryas.
  16. Erano assai più numerosi prima che i cacciatori tedeschi soprammentovati ne catturassero ed uccidessero gran parte.
  17. Neotragus Saltianus, Blainv.
  18. Cercopithecus griseo-viridis.
  19. Si conoscono parecchie specie di Hyrax che vivono in Siria, nell’Arabia, in Egitto, al capo di Buona Speranza. Furono distinte in Abissinia: l’H. habyssinicus, Hemp. e Ehr., l’H. Brucei, Gray, ed una terza specie ancora dubbia.
  20. Die Deutsche Expedition in Ost-Afrika, 1861 und 1862, Gotha, 1864.
  21. È la Threron abyssinica.
  22. È la Coracias afra.
  23. Il Lanarius œthiopicus, secondo Blanford.
  24. Dessi portano al collo una funicella turchina, distintivo dei cristiani tra i Bogos, come in tutta l’Abissinia.
  25. Alcuni di tali scheletri, esposti d’innanzi alla capanna sulle siepi e di contro a queste, perchè asciugassero, erano visitati da numerosi Lamprotornis che venivano a beccare le carni putride ancora aderenti alle ossa, e di notte attiravano le iene ed i cani selvatici, i quali più volte tentarono impadronirsene.
  26. Le raccolte zoologiche furono depositate presso il Museo Civico di Storia Naturale di Genova.
  27. Vedasi: Descrizione di due nuove specie d’Hydnora d’Abissinia, Nuovo Giornale Botanico, vol. III, n° 1, p. 5, 1.° gennaio 1871.
  28. Il dottor Beccari è felicemente ritornato in patria nel mese d’ottobre 1871. Il marchese Antinori continuò le sue escursioni nel territorio dei Bogos e nei paesi circonvicini a vantaggio della geografia e della storia naturale. Egli visitò la terra incognita dei Dembelas, e nel recarsi da Keren a Moncullo esplorò la via poco nota di Mengà, intermedia fra quella dell’Ansaba e l’altra di Maldi.
  29. Strepsiceros Kudu.
  30. Forse riferibili alle specie del Lycaon pictus.