Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos/Capitolo V

Capitolo V

../Capitolo IV ../Capitolo VI IncludiIntestazione 2 maggio 2024 75% Da definire

Capitolo IV Capitolo VI

[p. 65 modifica]



V.


Escursione all’arcipelago di Dahlac. — La baia di Nucra. — Gumeleh. — Le quarantene e i musulmani. — Insciallah, domani! — Isola di Nora. — Caverna popolata di chirotteri — Sarato, isola disabitata. — Uccelli acquatici e nidi giganteschi. — Osservazioni geologiche. — La preghiera dei marinai. — Pesca delle perle — Ritorno a Sarato — Notte agitata d’innanzi a Dahal — Il Gadam.


Il 2 maggio, avendo compiute le necessarie disposizioni, i miei amici partivano alla volta di Keren, campo assai più propizio di quel che non fosse la riva di Gerara alle loro predilette indagini zoologiche e botaniche. Quanto a me, rimasto solo in Massaua, e continuate per alcun poco le solite ricerche nelle vicinanze, pensai fosse giunto il momento di attuare un progetto che già da lungo tempo vagheggiavo; quello cioè di visitare l’arcipelago di Dahlac, gruppo di isole ed isolette, che occupa un gran tratto del Golfo Arabico, tra il 10° ed il 17° di latitudine. Dalla esplorazione di queste isole mi ripromettevo vantaggiosi risultati, perchè ricchissime di produzioni naturali e quasi sconosciute ai naturalisti. Io mi lusingavo inoltre di procacciarmi non poche rarità zoologiche, assistendo alla pesca delle perle, che quasi tutto l’anno si esercita in quei paraggi.

Abbisognandomi innanzi tutto, per effettuare il mio disegno, una barca bene equipaggiata, incaricai il vecchio emirbacheri (capo dei marinai) 1 di Massaua di farne ricerca, e questi mi indirizzò al nachuda (capitano, o meglio padrone di barca) Abu-Baker, il quale si obbligò, dopo molto contrastare, a fornirmi, pel prezzo di due talleri al giorno, un legno da lui comandato. [p. 66 modifica]con quattro uomini d’equipaggio, col patto, ben s’intende, di dirigersi ovunque mi fosse piaciuto. Secondo l’accordo stipulato, la barca doveva essere accompagnata da un palischermo, che all’occorrenza mi sarebbe servito all’approdo ed alla perlustrazione dei bassifondi. Fissato il giorno della partenza, feci porre a bordo alcune provviste: riso, dura, farina e datteri (non si trovavano altri viveri a Massaua, in quel momento); poscia le mie armi, i miei recipienti di latta pieni d’alcool, per le collezioni, e finalmente una piccola bussola e l’ottima edizione italiana della carta di Moresby, pubblicata dal Pellas. Al momento di far vela, l’agente sanitario del porto di Massaua, signor Alissafì, essendo in procinto di trasferirsi nell’isola di Dahlac, per ragioni d’ufficio, mi esibì gentilmente di far il viaggio seco, in un legno assai più grande e migliore del mio. Ed avendo io con piacere accettato l’invito, ci imbarcammo la sera del 10 maggio ed il sambuk sferrava a notte avanzata, all’ora in cui suol levarsi la brezza di terra.

Poichè fummo fuori del porto, mi posi a giacere sul mio angareb2 e mollemente cullato dal dolce moto del legno (il mare era in perfetta bonaccia), mi abbandonai al sonno, fino a tanto che il sole già alto sull’orizzonte non mi risvegliò, dardeggiando sul mio capo gli ardenti suoi raggi. Eravamo allora poco lunge da terra, non spirava il più leggero alito di vento e la vela penzolava inerte dall’antenna; ma per buona sorte, si levò sul tardi una brezzolina fresca che ci tolse da quella incresciosa immobilità e ci condusse, dopo il tramonto, in vista di Dahlac, la quale ci apparve come una striscia nera sull’azzurro cupo del cielo; poco appresso il sambuk, guidato da esperto nocchiero, passò, ad onta dell’oscurità, frammezzo ad alcuni isolotti, poi attraverso ad un angusto canale, ed entrò nella baia di Nucra.

Destandomi, sul far del giorno, provai una gradevole impressione nell’osservare la distesa delle acque pure e terse, in cui si specchiava la barca, e tutto all’intorno una costa bassa coperta di mimose, tra le cui fronde si infiltravano lietamente i raggi del sole nascente. [p. 67 modifica]

Dopo la preghiera del mattino, i marinai, in numero di otto o dieci, discesero sopra un punto della riva, in cui uno scavo mette a nudo uno strato di calcare grossolano, buono per le costruzioni, ed impugnati picconi e mazze si diedero animosamente ad abbattere e spaccar pietre e a caricare il legno, accompagnando il faticoso lavoro con lenta e misurata canzone. Nel tempo stesso io mi svestivo, e saltato nell’acqua, raggiungevo a nuoto uno scoglio algoso, patria di un mondo di bestiuole natanti e striscianti, per dar principio alle mie raccolte. Colà si aggiravano, intorno alle madrepore, argentei pesciolini (Dascyllus) maculati di nero sulla coda; altri d’un vivissimo verde (Pomacentrus); altri olivacei (Pseudochromis), che appena vedevansi insidiati si rifugiavano nei cespiti dei polipai; e sul fondo strisciavano lunghe Syllis, facendo vibrare i loro mille cirri.

V’erano poi, attaccate alla roccia, tridacne alabastrine, dalle cui valve socchiuse sporgeva il pallio del mollusco, come drappo trapunto d’oro e di seta. Io le staccavo con cautela, poi, cogliendo il momento in cui i gusci erano divaricati, troncavo con una lama di coltello i muscoli all’animale e lo cavavo fuori della sua preziosa conchiglia, affinchè, corrompendosi, non la guastasse. Recatomi quindi alla sponda, che il mare avea scavata in ombrose vôlte, feci ampia provvista di ostriche squisite, che vi aderivano in copia grandissima e pendevano come a grappoli dall’orlo delle rupi.

Più tardi, essendo disceso a terra, osservai in primo luogo che il suolo di Dahlac è costituito in quel punta da un calcare cavernoso recente, disposto in strati orizzontali, che non s’alza più di 40 metri, a un dipresso, sul livello del mare, abitualmente gremito di conchiglie e di polipai fossili in cattivo stato di conservazione, appartenenti per la massima parte a specie ancora viventi nel Mar Rosso. Inclino ad ascrivere questo terreno al periodo pliocenico dei geologi, in considerazione delle sue condizioni litologiche e stratigrafiche.

L’isola intera, ed in special modo la parte sua occidentale, è arida ed infeconda. Attorno alla baia di Nucra, infatti, non vidi altre piante che acacie, una euforbia a foglie grasse (la stessa che trovasi a Ras Gerara), cespugli di salicornie e di statice, e lungo la via che conduce a Gumeleh, nonchè presso il villaggio dello stesso nome, alcuni bei ciuffi di palma dum e piantagioni [p. 68 modifica]di dura, che somministrano, unitamente ai molluschi ed al pesce, i principali cibi onde si alimentano gl’indigeni. M’imbattei, nella mia escursione, in alcune piccole capre, vaganti liberamente per la campagna, che erano in uno stato eccezionale di magrezza, a cagione della siccità e della mancanza di foraggi. Questi animali, assai stimati dagli Arabi, sono bene spesso esportati a Massaua.

Sapendo che a Dahlac abbondano le gazzelle3, m’ero munito del mio fucile per dar loro la caccia, e mentre stavo spiando boschetti e cespugli, come sogliono i cacciatori, mi venne fatto di scorgere a pochi passi da me un grosso quadrupede di color fulvo che stava tranquillamente pascendo tra le piante. Io già l’avevo preso di mira, sicuro di coglierlo, quando l’animale alzando la testa, che m’era occultata da un’acacia, mi apparve munito d’uno smisurato paio d’orecchie; a quella vista conobbi il migliore, il più fedele servo dell’uomo, il somaro, e volsi altrove le canne micidiali. Di poi molti altri ne incontrai, tutti di piccola statura e fulvi, col groppone crocegnato.

Verso mezzogiorno il mio sambuk, partito da Massaua nel tempo stesso di quello in cui io mi ero imbarcato, entrò nella baia, seguito dalla sua lancia. Significai allora ad Abu-Baker di far vela la mattina seguente, di buon’ora, per il seno di Gumeleh, ove mi proponevo di raggiungerlo per la via di terra. Difatti, passata la notte a bordo, ritornai l’indomani nell’isola col signor Alissafì, ed inforcato un asinello per ciascuno, ci avviammo alla volta del villaggio, colla scorta di due indigeni. Il sentiero da noi battuto serpeggia in un paese irregolarmente ondulato, di aspetto assai uniforme, sopra un suolo sempre arido, scabro, pietroso che alimenta una magra vegetazione erbacea e radi alberi d’acacia. Su questi raccoglievano il volo stormi di tortorelle, empiendo l’aria del loro amoroso gorgheggio. Non vidi nel tragitto altri volatili, tranne il comunissimo Milvus parasiticus, alcuni avvoltoi, qualche Lanius e varii piccoli passeracei.

Dopo due ore di marcia, arrivammo a Gumeleh, gruppo di circa venti capanne, quasi tutte di forma rettangolare, colle mura di pietra ed il tetto di paglia. Invitati ad entrare in quella del [p. 69 modifica]capo, che è una delle più spaziose, penetrammo, per l’unico uscio, in una camera senza finestre mobiliata di tre angareb. Sopra uno di questi sedemmo il mio compagno od io, e su di un altro si adagiò, di fronte a noi, l’ospite, bell’uomo dagli occhi vivi, dalla fisionomia aperta, sbalestrato non so per quali vicende dall’Albania, sua patria, all’isola di Dahlac. Mentre egli ci intratteneva delle condizioni del paese, rappresentandole come miserabilissime, faceva apparecchiare per noi pane di dura con burro rancido, per condimento; e questo sarebbe stato il nostro pasto, se per buona sorte alcune tortorelle da me uccise e cotte allo spiedo, non ci avessero somministrata una eccellente pietanza.

Il signor Alissafì, venuto in Dahlac per impiantarvi il servizio quarantenario, significò all’Albanese l’oggetto della sua visita, e lo richiese di esatti ragguagli intorno alla popolazione dell’isola, come pure circa il suo stato economico e le sue relazioni commerciali. Egli però non riuscì a cavargli di bocca alcun dato preciso, ma soltanto risposte confuse ed ambigue, suggerite evidentemente dal desiderio di suscitare ostacoli, per quanto era possibile, all’adempimento della sua missione. Le quarantene sono, presso gli abitanti del littorale arabo ed africano dell’Eritreo, l’oggetto di un unanime abborrimento e non senza ragione; perciocchè hanno per effetto di nuocere ai commerci, di vincolare la libertà individuale e di sottoporre i viaggiatori (tra i quali i pellegrini musulmani, che colà formano la gran maggioranza) all’arbitrio, al capriccio di un funzionario, bene spesso prepotente e venale. Essi credono, secondo un’opinione accreditata da certe autorità, che le prescrizioni sanitarie sieno un artifizio inventato dagli infedeli frengis (Europei) per vessare i buoni hagì (pellegrini) e porre impedimenti al pellegrinaggio. Certo è che il sistema quarantenario è applicato nel Mar Rosso con parzialità e poco discernimento. I bastimenti da guerra, a cagion d’esempio, vanno sempre esenti da contumacia, come se i cannoni preservassero dai contagi. Le barche provenienti da qualunque punto della costa araba, arrivando in un porto del littorale egiziano, sono soggette ad una quarantena sempre lunga e rigorosa. I piroscafi che eseguiscono, in tempo assai più breve, i medesimi viaggi, approdano talvolta liberamente in certi porti, tal altra sono sottoposti alle prescrizioni sanitarie. In[p. 70 modifica]somma non v’ha alcuna regola fìssa; e di più cogli sbarchi clandestini e colla fuga dai lazzaretti si deludono le più severe prescrizioni.

Dahlac è una terra a rive frastagliate e sbocconcellate, con seni a golfi assai profondi, che ha una lunghezza massima di circa 30 miglia ed una larghezza che raggiunge quasi le 15 miglia in alcuni punti. La sua popolazione, secondo il computo dei moderni viaggiatori, ascenderebbe a 1600 abitanti 4; ed in numero di circa 600 sarebbero quelli che popolano le isole minori dell’arcipelago: Nora, Harat, Dahal, ecc. La lingua parlata nel paese è un idioma somigliante a quello dell’Amasen, provincia abissina. Tra i villaggi di Dahlac meritano di esser rammentati Debullo, sede di una fiera, nella quale annualmente si smerciano i prodotti della pesca delle perle e delle madreperle, industria principale di quegli isolani; nonchè Dahlac-el-Kebir, ragguardevole per le sue antiche cisterne, attribuite ai Persiani 5, e per certe tombe, le cui iscrizioni cufiche risalgono ai primordii dell’islamismo.

Prima di sera ci recammo, il mio compagno ed io, alla spiaggia di Gumeleh, distante una mezz’ora dal villaggio, e colà, essendo giunta la mia barca, convenne separarsi, giacchè egli si proponeva di percorrere l’interno dell’isola, ed io invece avevo in animo di proseguire la mia escursione per mare e di visitare una pescheria di perle. Salito a bordo al sambuk, provai un senso di solitudine e di scoraggiamento, trovandomi così solo frammezzo a gente ignota, ch’io a mala pena intendevo, e che meno ancora comprendeva me. Si trovavano a bordo, oltre al nachuda Abu-Baker, nativo dell’Egias, tre marinai del Jemen, un mozzo, il cui principale ufficio era quello di preparare ogni giorno il dura per l’equipaggio, e due giovani abissini che avevo presi al mio servizio. Ben presto quella trista impressione fu cacciata dal pensiero delle cose interessanti che avrei vedute e dell’incremento che da questa gita sarebbe provenuto alle mie raccolte. Con tale idea pel capo mi addormentai, ed il mio sonno, conciliato dalla fresca brezza notturna che [p. 71 modifica]sottentrava all’afa della giornata, fa allietato dalle più gioconde immagini.

L’indomani, prima che sia spuntato il sole, i marinai intuonano in metro lento e monotono le consuete note, alzando la vela, ed al canto disarmonico s’accompagna il fruscìo delle corde ed il cigolìo delle taglie. Finalmente siamo in cammino diretti per Nora, ma Eolo si mostra sì poco benigno, che il legno appena si muove; tuttavia il capitano mi dice che giungeremo nelle acque ove si pescano le perle, domani, insciallah (se Dio vuole), espressione codesta che in Oriente suona cento volte al giorno all’orecchio del viaggiatore. Nelle tre ore trascorse dacchè abbiamo salpato l’áncora, siamo solamente pervenuti all’imboccatura del golfo di Gumeleh, presso Ras Antalo, e dovendosi apparecchiare il pasto, il nachuda dichiara non potersi accendere il fuoco, se prima non si approda per far legna, giacchè la provvista di combustibile è esaurita. Io lo rimprovero per la sua negligenza, ma mi è pur d’uopo acconsentire alla inopportuna fermata, sotto pena di rimanere senza colazione. Siccome il sambuk non può avvicinarsi alla costa a cagione dei bassifondi, inviamo a terra il palischermo con due uomini per raccogliere legna. Dopo un’ora d’aspettativa, non essendo questi ritornati a bordo, discendo io pure sul lido per rintracciarli e li scopro beatamente sdraiati all’ombra d’una mimosa. Li chiamo allora per nome e non rispondono; ingiungo loro di imbarcarsi; fingono di non intendere. Finalmente, perduta la pazienza, mi appiglio ad un mezzo infallibile per far eseguire i miei ordini: alzato il cane del mio fucile (scarico, s’intende), prendo di mira ora l’uno, ora l’altro dei due furfanti, ed eccoli subito in piedi, che corrono come caprioli e spiegano una meravigliosa attività nel raunare il carico di legna e trasportarlo alla barca.

Prendemmo il largo poco appresso, ed usciti dalla baia, si passò lo stretto che separa Dahlac da Dahallam 6; poscia andammo a pernottare a ridosso di Darsarum 7, isoletta bassa, arenosa, spoglia di vegetazione. Il dì seguente, ripreso il mare [p. 72 modifica]con poco vento, malgrado la pigra andatura del legno, vedemmo ben presto il lido bianco di Nora, coi suoi alti palmizi, e prima del meriggio eravamo ormeggiati d’innanzi al villaggio. Nel tragitto avevamo varcato estesi bassifondi, popolatissimi di pesci che talvolta raccolti a torme compatte nuotavano a fior d’acqua, producendo un rumore simile a quello che fanno le ruote d’un piroscafo. Vedemmo pure numerose Belone guizzar fuori dal loro elemento naturale e percorrere in un attimo un lungo tratto, rasentando il pelo dell’acqua. Le nostre lenze ci procacciarono colà alcuni Diagramma e due Echeneis. In Nora, ove mi trattenni tutto quel giorno, mentre i miei uomini rinnovavano la provvista d’acqua, visitai il villaggio, formato di casupole della più meschina apparenza; seguii poi, verso occidente, il littorale, coperto di folte acacie, ed incontrai, poco lunge, nel terreno una sorta di foro, che sembrava dar adito ad un sotterraneo. Penetratovi non senza fatica, mi trovai in una caverna che poteva misurare 14 o 15 passi di lunghezza ed 8 o 10 di profondità, scavata in un calcare conchiglifero stratificato, dell’età medesima di quello di Dahlac. Appena i miei occhi si furono adattati alla poca luce della spelonca, m’avvidi che molti pipistrelli dormienti pendevano dalla vôlta, aggrappati per mezzo delle loro zampette, colla testa all’ingiù, secondo il costume comune a tutti i chirotteri8. Mi riuscì di acchiapparne alcuni prima che si svegliassero; gli altri si misero a svolazzare e poi fuggirono nei cunicoli contigui. Sulla polve secolare che copriva il suolo della grotta erano sparse ossa di ruminante, portatevi da qualche fiera, conchiglie rotte per estrarne l’animale e stoviglie grossolane, quasi tutte spezzate, che attestano come l’uomo abbia dimorato in quella cavità.

Secondo informazioni raccolte nel paese, Abu-Baker afferma che la pesca delle perle non si pratica quest’anno nelle acque di Nora, ma più innanzi, cioè ad un banco situato ad oriente di Sarato. — Ma quando vi arriveremo? — soggiungo io. — Insciallah, domani, — mi risponde colui. Ma a Dio non piacque, perchè l’indomani, soffiando vento fresco da nord-est, dopo aver bordeggiato tutto il giorno con mare piuttosto cattivo, riuscimmo [p. - modifica]Pastore Mensa. [p. 73 modifica]a stento ad afferrare Asgar e dovemmo poi spendere quasi intiera un’altra giornata per raggiungere Sarato.

Il 18 maggio diamo fondo nella rada ampia e sicura di cui l’isola è fornita dalla parte di mezzogiorno, e vi troviamo all’ancora tre barche armate per la pesca delle perle, reduci da Dahlac, ove hanno rinnovato i viveri e l’acqua. Manifestando io l’intenzione di visitare Sarato, Abu-Baker mi esorta sul serio a desistere dall’impresa, perchè quella terra deserta d’uomini e d’animali è dimora dello scilan (diavolo), che suol comparirvi sotto forme diverse e spaventose. Guai al temerario che ardisse affrontarne la vista, massimamente dopo il tramonto! Invano pregai il nachuda di definirmi un po’ meglio la natura di codesto essere misterioso che gli ispirava tanto terrore; non volle dir di più, e ricusò del pari di accompagnarmi nella mia escursione.

Recatomi a terra, mi diressi verso settentrione, ed oltrepassata una spiaggia emersa, tutta coperta di conchiglie e d’altre produzioni marine calcinate, mi si parò d’innanzi una catena di nude collinette calcari di 40 a 50 metri d’altezza, varcata la quale mi trovai in una sorta di vallone privo di vegetazione, in cui numerosi falchetti neri (appartenenti senza dubbio alla specie del Falco concolor) descrivevano volando capricciose spirali e rompevano colle loro acute strida il silenzio di quella solitudine. Passata un’altra altura, che mi sbarrava la via, entrai in un ameno bacino circondato di colli verdeggianti, nel cui fondo luccicava un piccolo lago d’acqua salsa, comunicante col mare per mezzodì un canale, le cui rive erano dappertutto assiepate di foltissime rizofore, dalle foglie lucenti di color verde cupo, colle ramose radici sommerse. All’ombra di queste piante stavano miriadi d’uccelli acquatici, specialmente gabbiani, sterne, ardee, pellicani, quali al riposo su d’una zampa, quali correnti in traccia di vermiciattoli e d’insetti. Al mio avvicinarsi levaronsi a stormi con gran frastuono, per raccogliere il volo un po’ più in là.

Non in frotta cogli altri ma solitarii, v’erano pure colà parecchi individui di Ardea Goliath, enormi uccelli, sopra di color bigio, sotto d’un bel castagno, dal collo lunghissimo, bianco macchiato di nero e colla testa coperta superiormente di lunghe piume castagne e fulve. A breve distanza trovai sopra una rupe un gran nido, simile ad altri da me osservati nell’isola di Dar[p. 74 modifica]makiè, le cui dimensioni ben s’addicono a quelle del gigantesca volatile 9. È questo nido un cono tronco contesto di rami e ramoscelli secchi, alto mezzo metro, del diametro di circa un metro, sulla cui superficie vedonsi residui di molluschi marini e frammenti di spugne e di crostacei.

Il canale che mette in comunicazione la riva settentrionale dell’isola col lago interno, si direbbe, per la sua regolarità, scavato dall’uomo, anzichè opera della natura. Infatti ha direzione quasi rettilinea ed ampiezza costante di 20 a 30 metri per un tratto di forse un chilometro. Avendolo percorso tutto a nuoto, vi trovai una profondità variabile, non mai però minore di un metro, per cui sarebbe facilmente accessibile alle barche. Penetrai anche nel lago interno, il cui fondo è coperto di un tappeto d’alghe; ma non mi arrischiai ad allontanarmi dalla riva pel timore degli squali. Vi erano in gran copia pesci grandi e piccoli che facevano per ogni dove ribollir l’acqua guizzando, e bellissimi testacei (segnatamente cipree e strombi) di cui raccolsi numerosi esemplari.

Ritornando verso la rada per la via già calcata, mi soffermai a piè delle colline per esaminarne la struttura geologica, e verificai che sono costituite di un calcare cavernoso, tutto pieno di fossili, a strati un poco inclinati, della potenza complessiva di 30 a 40 metri, che io tengo in conto di pliocenico. Questa formazione emerge da un terreno più recente, il quale risulta di polipai e di arene fossilifere, disposte in letti orizzontali, riferibile evidentemente al periodo postpliocenico. Mentre nel bacino mediterraneo, e sopratutto in Italia, esiste un gran divario fra la fauna fossile pliocenica e la quaternaria (questa è quasi identica all’attuale; quella invece ne è differentissima), sulle rive del Golfo Arabico si osserverebbe all’opposto, se non è erronea la mia determinazione, analogia grandissima tra le reliquie organiche dei due periodi geologici 10.

Nel bel mezzo delle mie geologiche investigazioni sopravvenne il tramonto. Il cielo si accese per brevi istanti d’una vivida luce rossa, poi vermiglia, i cui riflessi spandevansi stranamente sui colli e sul mare; il disco sfolgorante del sole appariva di [p. 75 modifica]insolita ampiezza, tutto contorto dalla rifrazione, ed era già per metà immerso nel mare; la mia ombra si andava allungando smisuratamente sul terreno. Finalmente il massimo luminare scomparve, lasciando ad una nuvoletta sanguigna le reminiscenze del suo splendore, e la notte avvolse ogni cosa nel suo manto oscuro. Pervenuto al lido, un fuoco, acceso dai marinai sulla riva, mi guidò come faro nella direzione della lancia, attraverso alla spiaggia pantanosa, di fresco abbandonata dalla marea discendente. Il mio ritardo cominciava ad inquietare il buon nachuda, il quale in cuor suo sospettava lo scitan di qualche malizia. Al mio ritorno a bordo, la rada avea preso un altro aspetto; da ogni banda splendevano i fuochi accesi nelle barche reduci dalla pesca delle perle. Da quando a quando la brezza marina portava ai miei orecchi gli accenti gravi della preghiera musulmana.

                         Era preghiera, e mi parea lamento,
                         D’un suono grave, flebile, solenne,
                         Talchè sempre nell’anima lo sento 11.

Poi i fuochi si spensero e tutto tacque, tranne il cheto mormorio della marea che saliva. Prima di coricarmi, cosa di cui avea gran bisogno, sclamai, volgendomi al nachuda: — Domani alla pesca! — Ed egli a me: — domani insciallah. —

Il giorno seguente, avendo preso il largo prima che spuntasse il sole, affine di raggiungere di buon’ora un banco perlifero distante circa 10 miglia dall’isola, incontriamo, appena oltrepassati i ripari della rada, un mare sconvolto da cui è assai malmenato il nostro vecchio e sdruscito sambuk. Mentre si sta discutendo a bordo se si debba proseguire od indietreggiare, vediamo sbucar fuori della rada un vela, poi due, poi tre, insomma tutta la flottiglia dei pescatori di perle, e deliberiamo allora di seguirla. Ben presto siamo raggiunti dalla prima barca, e nell’istante in cui ci passa d’accanto, la sua ciurma di ben 40 uomini mette all’unisono un oh! prolungato, in guisa di saluto, cui i miei uomini rispondono nello stesso modo; successivamente scambiamo il medesimo complimento con altri legni che ci passano innanzi. Un’ora prima del meriggio arriviamo final[p. 76 modifica]mente al punto di ritrovo, ove stanno di già 13 barche. La tinta verde impartita dai bassifondi al mare indica esattamente la forma e l’estensione del banco perlifero, di cui attraverso le acque limpide, fra i 5 e i 7 metri di profondità; si distingue d’altronde perfettamente la superficie, coperta di alghe e di ostri che a perle, specie peculiare del genere Meleagrina. Di qui sono in vista parecchie isolette: nella direzione di est-nord-est, Entassenò; all’est, Asbab; al nord-nord-est, Rumiah; tutte e tre basse ed alberate; a mezzogiorno si scorge, come un punto oscuro, la piccola Salambar, all’ovest si disegnano ancora vagamente all’orizzonte i contorni spezzati di Sarato. Immersa l’ancora, siccome il mare si è abbonacciato, scendo col capitano e due uomini nel palischermo, ed andiamo veleggiando da un legno all’altro per osservare da vicino tutte le particolarità della pesca, di cui difficilmente possono aversi esatte notizie se non si vedono coi proprii occhi.

Le navi impiegate nella pesca sono sempre scelte fra le più veliere e variano assai per la forma e la capacità. Vidi tra le altre una saia (sorta di barca), armata all’isola di Farsan, di una costruzione speciale. Era assai lunga, svasata, appuntata e prominente ad entrambe le estremità, senza castello di poppa e senza coperta, munita d’un timone che si governa col mezzo di due leve imperniate su due lunghe aste verticali, situate una per lato a poppa; e portava un’amplissima vela latina, mediante la quale poteva acquistare una velocità veramente straordinaria rispetto alla sua portata. Il suo equipaggio constava di 40 uomini almeno, per due terzi palombari, comandati da un vecchio nachuda dal piglio burbero e severo. Avendogli fatto chiedere il permesso di visitare il suo legno, rispose, guardandomi biecamente, con un no asciutto ed iroso.

Attorno ad ogni barca stanno nell’acqua, nuotando od appoggiati ad un galleggiante di legno, molti uomini e ragazzi che cantano, ridono, s’inseguono a nuoto, spruzzandosi d’acqua, e sembrano curarsi poco della pesca. Ciascuno ha una fascia di tela avvolta intorno alla vita e tiene appesa al collo una sottile reticella di spago, fatta in forma di sacco; tutti o quasi tutti portano legati alle braccia o al collo amuleti, i quali altro non sono che versetti del Corano scritti sopra pezzi di pergamena ed acclusi in cilindretti di cuoio; molti hanno anche il costume di [p. 77 modifica]allacciarsi le gambe con una cordicella, collo scopo di preservarsi dal granchio.

Da quando a quando un pescatore si tuffa col capo all’ingiù e colle braccia protese all’innanzi, ed agguantato il fondo, ad una profondità che varia fra i cinque e i sette metri, arraspa il numero che può maggiore di meleagrine, e ripostele nella sua reticella, ritorna a galla, dopo essere rimasto sott’acqua non più di un minuto. Affine di scalzare i gruppi di ostriche tenacemente aderenti al fondo, si vale spesso in guisa di leva d’una asticella di legno appuntata. Empiuta la reticella, il palombaro la porta alla propria barca, e ne versa il contenuto in una corba di paglia (zembil). Insieme alle meleagrine, il pescatore estrae dal banco altre conchiglie bivalve dal guscio madreperlaceo, come avicule, vulselle, martelli, che pur sono perlifere e somministrano probabilmente le varietà di perle cosiddette nere o piombine. Le immersioni si ripetono ad intervalli più o meno lunghi, secondo lo stato del mare; che se questo è agitato, la raccolta diventa più difficile e faticosa, e può essere anche assolutamente impedita; come lo è pure non di rado a cagione della freschezza delle acque, cui i palombari sono sensibilissimi. Un’altra circostanza determina talvolta non solo la cessazione della pesca, ma ancora l’abbandono totale di un banco per un lungo periodo di tempo, ed è la comparsa dei pescicani, i quali per altro, abbenchè comuni in quei paraggi, di rado si arrischiano tra i legni e ghermiscono i pescatori. Ad ogni modo, se spunta sull’acqua la pinna aguzza della temuta belva, un panico irresistibile si impadronisce delle ciurme e i legni spiegano immantinente le vele per cercare altrove miglior fortuna. D’ordinario le barche peschereccie, giunte al banco dalle 0 alle 10 antim., ripartono verso le 3 pom. per Sarato, e durante il viaggio di ritorno, coloro la cui opera non è necessaria alle manovre sono intenti all’apertura delle ostriche ed alla ricerca delle perle. A quest’uopo stanno ordinariamente accovacciati su certi assiti, coperti di stuoie, disposti fuori bordo, ed hanno d’innanzi a se un mucchio di meleagrine, che aprono ad una ad una, con gran destrezza, per mezzo d’un lungo coltello a manico di legno 12. Divaricate le valve, premono coll’estremità della lama le carni [p. 78 modifica]del mollusco e conoscono così se contiene o no le preziose produzioni. Quando trovano alcuna perla la pongono in serbo in un pezzetto di tela legata con filo, e conservano l’involto annodato ad un lembo della loro cintura o nel turbante. Quanto ai gusci della meleagrina, abbenchè non improprii a qualche uso industriale, sono gittati in mare. Non così l’animale, di cui si pone in salvo la parte più carnosa, cibo gradito agli Arabi, dopo che fu prosciugata al fuoco. I pezzetti di molluschi preparati in siffatta guisa sono infilzati in cordicelle di palma ed esposti all’aria ed al sole, affinchè si conservino lungamente.

Si crede da molti che la perla sia una produzione normale e frequente dell’ostrica, mentre invece la sua esistenza è un mero accidente che proviene da un morbo più o meno raro nel mollusco, determinato il più delle volte da minutissimi parassiti che infestano l’animale 13. La perla altro non è che secrezione madreperlacea sovrabbondante (talvolta lievemente modificata), concreta in piccole masse, invece di essere regolarmente disposta a strati nell’interno del guscio 14. In media, è d’uopo aprire 40 0 50 ostriche per trovare una sola perla, che sarà nella gran maggioranza dei casi di piccolissime dimensioni e di forma imperfetta. Nelle diverse località ed anche tra punti assai vicini varia di molto la copia delle perle, nonchè il volume e la forma loro, per cagioni ignote: si afferma che i banchi sono tanto più ricchi quanto maggiore è la profondità e la limpidezza dell’acqua, e che quelli coperti di fango o di melma somministrano perle di qualità inferiore.

L’ostrica perlifera del Mar Rosso, denominata dai pescatori bulbul, è specificamente distinta dalla vera madreperla, sadaf degli Arabi, che pur vive nello stesso mare. La prima 15 ha le valve sottili, di forma irregolarmente arrotondata, non misura in generale più di 6 a 7 centimetri di diametro ed è gregaria, occupando quasi ad esclusione di ogni altra specie grandi tratti di fondo; l’altra invece 16 è di forma più regolare, colle valve di [p. 79 modifica]maggiore spessezza, raggiunge 17 a 18 centimetri di diametro e vive solitaria. Io raccolsi abbondantemente le due specie nelle acque dell’arcipelago di Dahlac e di Massaua, sui fondi scogliosi coperti di alghe e di detriti marini, ad una profondità di uno a dieci metri.

Ritornate le barche nella rada di Sarato, molti pescatori continuano ad aprire le bulbul ed altri attendono alla ricerca delle madreperle. A questo oggetto due uomini si imbarcano in una leggerissima piroga, fatta di un tronco d’albero scavato, e mentre l’uno, seduto a poppa, imprime col remo un lento movimento di progressione al docile schifo, l’altro, ritto sulla prora, spia attentamente il fondo, scandagliandone le anfrattuosità con una lunga pertica, ed appena scorge una madreperla, si caccia in mare e la raccoglie. Il prodotto giornaliero di una barca ben equipaggiata si può ragguagliare a circa 3500 ostriche perlifere ed a 500 madreperle. Queste ultime sono ricercate non tanto per le perle che possono contenere, quanto per i loro gusci, che sono oggetto in Massaua di importante commercio.

La pesca delle perle ha luogo tutto l’anno, più attivamente però nella state e nella primavera che in altre stagioni, nel mare che cinge le isolette del gruppo di Dahlac 17, e si esercita eziandio, ma con minore regolarità, nei dintorni di Massaua 18, nei paraggi di Loheia (costa d’Arabia) e presso l’isola di Hassan, rimpetto a Cosseir. In quest’ultima località si raccolgono perle, a quanto ne riferisce il Klunsinger, dai beduini di Gueh e Safadje, e la pesca dura dal principio della state fino ad autunno innoltrato. Recate le ostriche sulla costa, essi le lasciano macerare al sole e ne traggono poi le perle quando le parti molli dei molluschi sono distrutte. Il governo egiziano percepisce un’imposta dell’8 per cento sul valore delle perle introdotte in Cosseir 19. In complesso ritengo che in lutto il Mar Rosso non vi sieno più di cento barche impiegate in questa industria; numero assai ristretto di fronte a quello delle navi che vi attendono attorno a Ceylan e nel Golfo Persico. In questo [p. 80 modifica]mare le barchette addette alla pesca delle perle raggiungerebbero, secondo Palgrave, il numero di 2000 a 3000 20.

Alcune navi, fra quelle che frequentano le pescherie dell’arcipelago di Dahlac, appartengono a negozianti di Massaua e di Gedda, altre sono proprietà dello stesso nachuda che le comanda; nel qua! caso la pesca si effettua generalmente in conto frodale coll’equipaggio, ed i benefizii si ripartono nel modo seguente. I palombari lavorano alternativamente per quattro giorni a loro totale vantaggio, ed un giorno a pro dell’armatore. Questi, oltre al percepire la propria parte d’utile, fa anche bene spesso ragguardevoli guadagni, acquistando a poco prezzo le perle che spettano ai palombari, i quali, stretti dalla miseria, sedotti dalla vista di qualche tallero sonante, ignari d’altronde del vero valore della loro mercanzia, preferiscono cederla in cambio di pochi contanti, piuttostochè aspettare una incerta occasione di vendita. Alcuni commercianti, e segnatamente i Baniani stabiliti a Massaua, sogliono anticipare piccole somme di danaro ai padroni di barche poco facoltosi, ed in compenso accaparrano a mite prezzo i prodotti delle pesche future.

Durante la mia visita al banco perlifero di Asbab, molti pescatori mi esibirono il loro piccolo gruzzolo di perle, chiedendone però un prezzo triplice o quadruplo di quello che erano poi disposti ad accettare, ed io profittai della occasione per comperarne alcune e, quel che più mi premeva, per procurarmi presso i palombari parecchie rarissime specie di testacei e di echinodermi che vivono nei fondi perliferi. I capitani dei legni vedevano intanto assai di mal’occhio la mia presenza, pel timore che io togliessi loro di mano qualche proficuo acquisto; perciò taluni ricusarono di accogliermi a bordo.

Le perle del Mar Rosso sono in generale non molto voluminose e dotate di poca lucentezza, ma frequentemente possiedono il pregio della sfericità. Alla fiera di Debullo se ne vendono ogni anno ai mercanti indiani, massauini od arabi, per una somma di 50,000 a 60,000 talleri 21, che rappresenta approssimativamente il valore dell’intero raccolto annuale. Quelle di [p. - modifica]Interno di una capanna dei Mensa. [p. 81 modifica]color giallognolo e di forma più perfetta sono principalmente ricercate pel mercato di Bombay; le bianche all’incontro si preferiscono a Bagdad; nei porti arabi si esitano facilmente le perle minute e difettose che altrove non hanno smercio.

Appagata omai ogni mia brama, rispetto alla pesca delle perle, ritornammo la sera medesima all’ancoraggio di Sarato, unitamente allo sciame delle barche peschereccie, e l’indomani, dopo aver consacrato le prime ore del giorno alle consuete raccolte ed all’acquisto di conchiglie e crostacei che i palombari ritraevano per me in gran copia dal fondo della rada, si salpò l’áncora, col proposito di veleggiare al largo di Nora e di pernottare all’isola di Dahal, per poi continuare il viaggio alla volta di Massaua. Ad onta del vento favorevolissimo, non riuscimmo in questo progetto, e fummo colti da oscurissima notte in alto mare. Finchè fu possibile, governammo, coll’aiuto della bussola, verso l’isola; poi, siccome lo scandaglio accusava poco fondo ed una striscia di spuma fosforescente annunziava d’innanzi a noi, ed assai prossima, una barriera di frangenti, abbisognò in fretta e in furia ammainar le vele ed assicurar l’ancora. In breve:

                    Dalla rabbia del vento che si fende
                    Nelle ritorte, escon orribil suoni.
                    Di spessi lampi l’aria si raccende,
                    V’è chi corre al timon, chi i remi prende 22.

Col repentino scatenarsi del vento, il mare si commuove e spesseggiano le onde, di cui la mia povera barca seconda i movimenti tumultuosi, sollevandosi o adimandosi, immergendo or l’uno or l’altro fianco, mentre in ogni sua parte scricchiola e cigola, quasi come gemesse per l’angustia. Da quando a quando io interpellava Abu-Baker per chiedergli se la burrasca fosse per crescere o per scemare, se l’ancorotto non arasse, se il canapo facesse buona resistenza, e ciò affine di provvedere in tempo alla salvezza del legno, ove occorresse il caso. Ed egli mi rispondeva imperterrito che tosto o tardi, a Dio piacendo, gli elementi si sarebbero calmati, e che se Allah avesse decretata la nostra perdita, era pur d’uopo che avvenisse, e niuno sarebbe stato in potere d’impedirla. A queste [p. 82 modifica]massime invano mi studiavo di contrapporre il proverbio nostro meno ortodosso, ma più filosofico «Chi s’aiuta, Dio l’aiuta:» il buon nachuda non m’intendeva.

Frattanto il vento cessa come per incanto, si diradano le nubi e fra esse appare il benigno astro d’argento, al cui cospetto sembra placarsi il mare, come colui la cui collera cede alla vista dell’oggetto amato. Interamente svanite le ombre della notte paurosa, ci partimmo solleciti da quei paraggi inospitali, e, secondati dalla brezza mattutina, oltrepassammo ben presto i lidi di Dahal, dagli alti palmeti. Fatta quindi palese ai nostri occhi la grande alpe abissina, drizzammo la prora verso il Gadam, che si estolle superbo sul golfo d’Archiko, ed allo scorcio di quel giorno, felicemente approdammo a Massaua.

Note

  1. Alla lettera, principe dei marinai.
  2. Questo mobile, di cui ho già precedentemente parlato, ci vece di letto a bordo alle barche arabe.
  3. L’Antilope Sœmmeringi, secondo Rüppell.
  4. R. Andree, Abessinien, pag. 159, Leipzig, 1869.
  5. Nel 590 dell’êra nostra i Persiani si impadronirono dell’Arabia Felice e delle isole del Mar Rosso.
  6. Dhi-la-ham, nella carta della spedizione tedesca; Petermann, Mittheil., n. 13, 1864.
  7. Dur-es-surum, nella carta precitata.
  8. Erano individui della Nycteris thebaica, secondo la determinazione del professore Peters.
  9. Dalla estremità della coda alla punta del becco la sua pelle misura 1 metro e 30 centimetri.
  10. Mi riserbo in altro scritto di sviluppare adeguatamente la mia tesi.
  11. Giusti, Sant’Ambrogio
  12. Per non esser feriti dai gusci taglienti dell’ostrica, portano, durante questa operazione, della dita di guanto in pelle.
  13. Il compianto professore De Filippi pubblicò alcuni anni addietro interessanti osservazioni in proposto.
  14. Si sono trovate perle in parecchie specie di conchìglie. Ultimamente ne raccolsi a Massaua nelle arche, nei mitili, nei pettini, nelle tridacne.
  15. Meleagrina muricata, Reeve.
  16. Meleagrina margaritifera, Linneo.
  17. Presso le isole denominate: Entassenò, Asbab, Abaharò, Elistihò, Tohul-Abbas, Cattari, Tanan, Ahualì, secondo il nachuda Abu-Baker.
  18. Ad Agermarkab e ad Horgugussum.
  19. Dott. C. B. Klunsinger, Ueber den Fang und die Anwendung der Fische und inderer Meeresgeschöpfe im Rothen Meere; Berlino, 1871.
  20. William Gifford Palgrave, Une année de voyage dans l’Arabie Centrale, vol. II, Paris, 1866.
  21. R. Andree, op. cit., pag. 161.
  22. Ariosto, Orlando furioso.