Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos/Capitolo VII

Capitolo VII

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VII.


L’Egias. — I marinai egiziani. — Pesca d’uno squalo. — Suakin. — Aspetto della città e del mercato. — Gedda, sua importanza. — Ricchezza del bazar. — Pellegrinaggio alla Mecca. — Raccolta di pesci. — Nuovi compagni di viaggio. — Si salpa. — Pronostici che non fallano. — Si scatena la tramontana. — La macchina si arresta in mal punto. — Congiura a bordo. — Ras Zeitié. — Arrivo a Suez. — Fine.


La sera stessa ricevetti con indicibile gioia le lettere ansiosamente aspettate, e seppi che la nave ancorata in porto non era il piroscafo inglese che si attendeva, ma sibbene l’Egias, vapore egiziano della Società Kedivié proveniente da Gedda, il quale doveva ripartire l’indomani per Suez, facendo scalo a Suakin e Gedda. Mi si diceva parimente che dopo questo viaggio si sarebbe forse ristabilito il servizio regolare che già esisteva prima del pellegrinaggio, tra Massaua e i porti summentovati.

Essendo omai risoluto a partire il più presto possibile, non volli lasciar sfuggire l’occasione propizia e deliberai di prendere imbarco sull’Egias, quantunque mi rimanessero poche ore soltanto per prepararmi. Profittai pertanto di quella stessa notte per allestire i bagagli, tra i quali si trovavano non meno di 22 casse d’oggetti di storia naturale, parte raccolti da me, parte dai compagni 1. La mattina del 16, ultimate in tempo le mie disposi[p. 113 modifica]zioni, mi recai a bordo colla mia roba, e, dopo due lunghe ore d’aspettativa, fu dato il segnale della partenza. Vidi allora col cuor leggero sfilarmi d’innanzi barche, capanne, casolari, moschee, e a poco per volta ogni cosa farsi piccola piccola, impercettibile. Poi Massaua tutta, e l’altre isole sorelle scomparvero nel mare azzurro, come navi sommerse dai flutti, e all’orizzonte rimasero solamente visibili le montagne che fanno siepe all’Abissinia.

L’Egias, costruito nel 1856 in Olanda, per servire alla navigazione transatlantica, e destinato a finire i suoi giorni su qualche secca dell’Eritreo, è una grossa e robusta nave ad elice, in legno, che sembra fatta per sfidare gli elementi e sarebbe tale da ispirare la maggior fiducia se fosse manovrata e comandata da Europei. La sua ciurma, assai numerosa, si compone di miseri fellah, reclutati forzosamente e mandati a bordo a domicilio coatto per espiare il delitto d’esser nati nei domini felicissimi di S. A. Ismail pascià. Per costoro la terra è perduta senza speranza, fino a tanto che non giunga la vecchiaia o la morte. Si comprenderà di leggieri qual razza di marinai facciano costoro, tolti per lo più alla vanga e all’aratro: pigri, inetti, zotici, hanno contratto tutti i vizi della gente di mare, non una delle sue virtù. L’Egitto potrebbe trarre dagli Arabi un ben migliore elemento per gli equipaggi della sua marina militare e mercantile; ma l’indole loro indipendente è aliena dalla disciplina rigorosa che si richiede a bordo alle navi armate all’europea. Gli ufficiali preposti al servizio della società Kedivié (già Azizié) sono ora quasi tutti egiziani, mentre in passato erano europei e particolarmente italiani 2. Essi non mancano di una certa istruzione, per quanto riguarda praticamente il governo della nave, ed in generale adempiono con zelo al proprio ufficio. Difettano peraltro di colpo d’occhio e di sangue freddo, diffidano sempre degli equipaggi e di sè medesimi; epperò sogliono navigare con estrema circospezione, schivando, ove sia possibile, ogni rischio anche lontanissimo. Cionondimeno, troppo spesso i loro legni subiscono avarìe e naufragi. In tutti i vapori della società Kedivié [p. 114 modifica]il cuore del bastimento, vale a dire la macchina, è governata da europei: sull’Egias conobbi, sotto il rozzo saio del macchinista, tre giovani inglesi, colti e garbati, tre gentiluomini, il cui consorzio abbreviò per me le noie della navigazione.

Più tardi, si videro a manca varii isolotti bassi, striscio di mare verde, e in distanza frangenti coperti di spuma. Allora, essendo il giorno per finire, il capitano ordinò di fermare la macchina e di immergere l’áncora, poichè la navigazione è assai pericolosa, di notte, in quel pelago sparso di mille insidie. Non appena terminata la manovra, i marinai cacciarono le loro lenze in mare e ne trassero bentosto molti scomberoidi, che furono cotti la sera medesima per cena e trovati eccellenti. Nel mattino successivo, oltrepassati felicemente banchi e scogli, il vapore percorse buon tratto di strada senza che avvenisse alcun incidente degno di menzione, tranne la cattura di un piccolo squalo che, secondo l’uso della gente di mare, fu in cento guise martoriato in rappresaglia dei misfatti di cui è lorda la sua ferocissima stirpe. Passata quinci un’altra notte all’ancora, si proseguì a navigare, con velocità assai ridotta, per un labirinto di bassifondi, che mette al porto di Suakin. Così si chiama un angusto canale rinserrato fra due banchi di sabbia, nel cui fondo si specchia, in un piccolo bacino interno, l’isoletta dello stesso nome. È questa, come Massaua, un banco madreporico, angustissimo, emerso di pochi piedi sul livello del mare, quasi tutto coperto di case e capanne; e trovasi così prossimo al continente, che da qualsiasi punto del suo perimetro è facile scagliare un sasso all’altra sponda. In terraferma, verso settentrione, si trova presso la riva un popoloso sobborgo ed un mercato ben provvisto, cui affluiscono, a smerciare le loro derrate, le carovane della Nubia e del Sudan. Colà io vidi in mostra: datteri, dura, riso, lenti, fagiuoli, nonchè varie altre specie di legumi; ed esistonvi pure considerevoli depositi di merci provenienti dall’interno, come: caffè, gomma, burro, pelli e stuoie. Vi si esercitano inoltre varie piccole industrie, e per citarne una, quella degli armaiuoli, che foggiano ferri di lancia e pugnali a lama adunca.

La città di Suakin, emporio e porto della Nubia, riproduce l’aspetto ed il carattere di Massaua, con qualche piccola differenza a favore della prima. La sua popolazione si fa ascendere dal colonnello Merewether a 2000 anime; ma io credo questa [p. 115 modifica]cifra inferiore alla vera. Vi si osservano diverse moschee destituite di qualsiasi pregio architettonico, molti tugurii in paglia, cinti di siepi spinose, ed un certo numero di case in materiale, fabbricate all’araba, una delle quali, la residenza del governatore, si distingue, perchè più ampia delle altre, e situata in felice posizione sulla sponda del mare. Il canale che usurpa il titolo di porto è poco atto a ricoverare i grandi navigli, e credo che non ve ne possa entrare più di uno per volta, causa l’angustia della imboccatura. Annualmente è visitato da numerose barche 3 e di tanto in tanto dai vapori egiziani. Il piccolo braccio di mare che separa l’isola dal continente si attraversa mediante sottili e maneggevoli barchettine, fatte d’un sol tronco d’albero e governate per mezzo di due pale.

Mentre l’Egias empieva le sue stive di mercanzia, io girandolavo pel paese, curiosando or qua or là, esaminando uomini e cose, ovvero percorrevo in barchetta le sinuosità del porto, per razzolare sui bassifondi e sulle spiagge taluni dei prodotti di quel mare feracissimo.

Il quarto giorno dopo il nostro approdo a Suakin, avendo il legno ultimato il suo carico, salpò alla volta di Gedda, nella cui rada, stante la calma del mare, arrivò in sole ventiquattro ore. La città, interamente cinta di mura, offre disposte come a scala, su lieve pendio, in riva del mare, le sue mille case bianche a tetto spianato, soverchiate dagli smilzi minareti delle moschee. Il paese, aridissimo e nudo, si aderge, oltre la zona littorale, in monticelli rossigni e pelati che la trasparenza dell’aria fa sembrare vicinissimi. D’innanzi al lido si schierano nella rada, cui fa schermo una triplice scogliera a fior d’acqua, non poche barche ed alcuni bastimenti 4; questi ultimi in gran parte a tre alberi ed armati alle Indie pel trasporto dei pellegrini. Fra l’ancoraggio dei grossi navigli e gli scali di sbarco v’ha un tratto di mare, largo circa un miglio e mezzo, intercettato da bassifondi, in guisa tale che non è possibile accostare la terra, se non si segue una via lunga e serpeggiante. Tali infelicissime [p. 116 modifica]condizioni vanno sempre peggiorando, poichè insensibilmente, ma di continuo, la profondità diminuisce e la spiaggia si avanza in virtù di quel lento innalzamento delle terre, cui sembra vada soggetto l’intero bacino dell’Eritreo.

Ben altra attività regna nella rada durante il periodo del pellegrinaggio alla Mecca. Arrivano allora da ogni parte numerosi bastimenti che riversano in città una folla di gente d’ogni razza e d’ogni colore, accorsa dalle più remote provincie dell’Asia e dell’Africa a venerare la tomba del profeta 5. Peraltro non è il religioso fervore l’unico movente di quell’immenso convegno dell’islamismo; vi contribuisce altresì, e per non piccola parte, un interesse mondano, giacchè in tale occasione si tiene in Gedda ed alla Mecca una grandiosa fiera, nella quale si scambiano tante merci per un valore che importa 120 milioni di lire. L’Arabia vi aduna i suoi balsami più preziosi, i suoi incensi, il suo squisito caffè; l’India vi reca zuccaro, pepe, legni odorosi, stoffe di seta e di cotone; la Persia vi esibisce armi e tessuti; l’Africa vi manda gomma, avorio, pelli, ed alimenta più d’ogni altro il commercio infame di umane creature. Ciascun pellegrino, quale consumatore o qual mercatante, lascia immancabilmente un qualche profitto a Gedda, la cui prosperità ognor crescente si manifesta nell’aspetto d’agiatezza de’ suoi abitanti, nella mole e nel decoro degli edifìzii, nelle cospicue mercanzie che ingombrano i suoi bazar.

Siccome io bramava profittare quanto era possibile della breve stazione per visitar la città, presi alloggio a terra, appena arrivato, per darmi liberamente al piacere di vagare per piazze e strade, dilettandomi di osservare le pittoriche scene che offrono ad ogni piè sospinto i costumi arabi. Avendo ancora presente alla memoria Massaua e le sue luride capanne, provai un senso di compiacimento ritrovandomi ad un tratto in una città che quasi merita il titolo di civile, per le sue condizioni materiali, nonchè per l’operosità e l’intelligenza de’ suoi abitanti. Non vi esistono, ch’io mi sappia, monumenti architettonici od artistici di gran conto; ma le sue case sono improntate di un purissimo [p. - modifica]Cane selvatico (Lycaon pictus?).


Antilope agasen (Strepsiceros kudu). [p. 117 modifica]stile arabo, non inquinato da alcuna influenza estranea, pregio non piccolo ai miei occhi. Queste presentano bene spesso balconi ornati a traforo che rompono felicemente la nudittà delle bianche facciate, e non di rado sopra le porte loro si ammirano arabeschi in rilievo. Il maggiore bazar, larga e lunga strada coperta, all’altezza d’un primo piano, da un tavolato di legno, e fiancheggiata da ambo i lati di botteghe, è la principale arteria della città, il convegno degli sfaccendati e dei curiosi. Nei negozii abbondano merci dell’India e dell’Arabia, ma non vi mancano oggetti di fabbrica europea, provenienti principalmente dall’Inghilterra e dalla Germania 6. I prodotti di alcune industrie locali, come collane di perle d’agata sferiche o faccettate, coroncine bianche di denti di cammello e nere di iusr o corallo nero, costituiscono importanti articoli di vendita, ricercati in ispecial modo dai forestieri facoltosi. Coll’iusr, specie di Antipathes, che si pesca in abbondanza sulle coste d’Arabia, si fabbricano anche pettini ed eleganti portasigari intarsiati d’argento, nei quali la materia è vinta dal lavoro. Sboccano in quella via tanti chiassuoli, ognuno dei quali è devoluto ad una singola corporazione di artefici. In uno vedi i calderai battere il rame da mane a sera; nell’altro i sarti, seduti sulle gambe incrociate, tirar punti con automatica regolarità. Più lunge, i fabbricanti di pipe, i lattai, gli ottonai attendono con alacrità esemplare all’opera loro.

Nel mercato dei commestibili osservai esposte, in gran copia, vivande preparate all’aria aperta, sotto gli occhi degli avventori, secondo il costume che si pratica ancora nelle nostre città dell’Italia meridionale 7, come pure svariati frutti, fra i quali piacemi ricordare: datteri freschi d’un bel giallo croceo, poponi che spandono grata e penetrante fragranza, cocomeri dalla polpa sanguigna, turgide melagrane ripiene delle loro dolci gemme, uve deliziose ad acini allungati e di sapore delicatissimo, profumate banane. Nella bontà e nel pregio di tali frutti si conferma il detto che l’avara terra d’Arabia a fatica e scarsi conceda all’uomo i suoi prodotti, ma tali per meravigliosa eccellenza da non temer rivali. [p. 118 modifica]

Non è a credersi che tra le delizie di Gedda io perdessi di vista le consuete ricerche, oggetto delle mie costanti preoccupazioni. Consacrai infatti un’intera giornata alla esplorazione delle scogliere corallifere che assiepano la rada; ma con esito infelice, avendovi soltanto rinvenuti ben pochi rappresentanti della vita animale marina, all’infuori dei zoofiti e dei pesci. Di questi ultimi trovai alcune pregevoli specie, e, coll’aiuto degli esperti pescatori arabi, avrei potuto aggiungerne molte altre alla mia raccolta, se non mi fosse mancato l’alcool onde conservarle 8.

Ritornando a bordo, il giorno della partenza, trovo di molto accresciuto il numero dei compagni di viaggio, e sono tali e tanti i tipi dei passeggieri che ingombrano la coperta da disgradarne un museo d’antropologia. Alcuni ufficiali e funzionarii turchi, vestiti di ricche uniformi, e parecchi mercanti greci dalla chioma incolta, rappresentano l’Europa; all’Africa appartengono, per tacere degli Egiziani, varii negri del Sudan e due belle schiave abissine, giovanette trilustri, che ancor non sanno chi domani chiameranno signore e qual serraglio sarà loro prigione. Gli Asiatici formano la maggioranza nella turba eterogenea e sono Soriani dal volto aperto ed intelligente, Arabi della Mecca e di Medina, ch’io, per l’andar sospettoso e lo sguardo torvo, inclino a giudicar tristi soggetti, e finalmente Indiani, sulla cui fronte olivastra si legge la nobiltà d’una razza decaduta. Mi sembra meritevole di special attenzione, in mezzo ad essi, un omettino dalla testa quadra, giallo e grinzoso in faccia, con due occhietti scaltri ed infossati e larga bocca sdentata. Una corta camicia ed un paio di leggieri calzoncini bianchi lasciano scorgere l’esuberante prominenza del suo addome e l’esilità degli arti. Sdraiato continuamente sopra un letto e circondato da uno stuolo di servi, è incessantemente occupato a biasciare il betel che un vecchio indiano in turbante gli porge sopra un argenteo vassoio, in tante tazzine d’oro, capaci quanto un ditale da cucire. Costui, degno di ispirare la matita di Teja, è un nabab doviziosissimo, rigido maomettano, il quale, compiute le proprie de[p. 119 modifica]vozioni alle città sante, ritorna ai suoi lari per la via di Suez e di Bombay.

Partiti che fummo, il tempo si mantenne bellissimo per ben tre giorni, ed il navigare in tal guisa era una vera delizia. Alla fine del terzo, il capitano, osservando il cielo vergarsi di sottili cirri d’aspetto peculiare e l’orizzonte farsi torbido, come polveroso, ordinò si ritraessero immantinente le tende, ed avvisò che in breve avremmo incontrati gli elementi meno propizii. Il pronostico si verificò in parte, inquantochè l’indomani, mentre solcavamo le onde azzurre e spumose dello stretto di Giabal, si sprigionò una tramontana così potente da ridurre la velocità del legno da sette a quattro miglia l’ora. Di più, volle il contrario destino, che, verso sera, perdurando la violenza del vento, si spezzasse improvvisamente uno dei due cilindri della macchina, e questa fosse però resa immobile. Il vapore, che già era un bel tratto innanzi nel golfo di Suez, prese rapidamente l’abbrivo a ritroso del suo cammino, trascinato dal vento e dalla corrente, risultando vani gli sforzi tentati per dirigerlo od almeno per frenare la sua corsa. Il capitano avea ordinato bensì che si spiegassero certe vele, colle quali egli si lusingava di padroneggiarlo, ma i gabbieri, incapaci di eseguir il comando, se le lasciarono fuggir di mano e non seppero riafferrarle, o non vollero per timore di essere sbalzati in mare.

Pertanto le vele sbattevano con uno strepito infernale e la nave correva diritta sulla costa d’Africa, di cui la luce fioca della luna, ancorchè velata di nubi, ci consentiva di scorgere le più minute particolarità. Gli ufficiali avevano perduta la bussola; si portavano da poppa a prua, davano ordini e contr’ordini, gridavano, scongiuravano, non intesi nè secondati dai marinai, inetti e pusillanimi. Fra i passeggieri l’ansietà era al colmo e contribuivano ad accrescerla le voci allarmanti che andava spargendo, con pravi intendimenti, un malvagio Medinese. Costui asseverava essere omai inevitabile la perdita del bastimento, aggiungendo che il comandante ed alcuni Europei si erano accordati per impadronirsi delle lancie e salvarsi ad esclusione dei buoni musulmani. La perfida calunnia, accreditata dalla paura, fomentò tra quei della Mecca e di Medina una congiura, collo scopo di prendere possesso a mano armata delle migliori imbarcazioni per mandare a vuoto i supposti progetti [p. 120 modifica]del capitano. Fortunatamente, ad onta del panico e del disordine che regnavano in coperta, i macchinisti, imperterriti, lavoravano a tutt’uomo alfine di porre la macchina in istato di funzionare, almeno provvisoriamente, con un solo cilindro; e nel punto in cui pareva imminente l’investimento, il vapore si mise di bel nuovo a camminare.

Ai primi chiarori dell’alba appoggiammo a ridosso di Ras Zetié per aspettare che il vento tacesse e la macchina fosse posta in tal condizione da consentirci di proseguire il viaggio con sicurezza. Cessato ogni pericolo, il capitano, informato della trama ordita dal Medinese, lo chiamò a sè, in presenza dei più ragguardevoli tra i passeggieri, e gli domandò se egli fosse l’autore della calunnia e perchè l’avesse propalata; al che rispose l’accusato negando recisamente e studiandosi di cacciar su altri il sospetto. Ma invano, che ben dieci concordi testimonianze fecero palese il vero. Egli allora, costrettovi dall’evidenza, confessò senza rossore come la paura gli avesse suggerito un simile artifizio per indurre i suoi compagni a salvarsi con esso lui sulle barche, prima che non fossa disperata la sorte della nave. Di codesto interrogatorio fu steso a scarico del comandante un processo verbale, nelle debite forme, che il Medinese fu obbligato a firmare, e cui apposero anche la propria firma tutti i presenti in qualità di testimoni.

Rimasti ventiquattro ore all’áncora ed eseguite le più urgenti riparazioni alla macchina, si partì la mattina del 3 luglio, con calma di mare e di vento, e demmo fondo l’indomani all’imbrunire nella rada di Suez. Ivi, scontati tre giorni di contumacia, tanto più tediosa, inquantochè non prevista, fu esaudito il voto di quanti, come me, anelavano di toccar terra. Trasferitomi allora in Alessandria, passai a bordo del piroscafo Principe di Carignano, il quale mi condusse in tre giorni nel porto di Brindisi. Di colà un treno di ferrovia celerissimo, lento però a fronte della mia impazienza, mi trasse laddove mi chiamavano i più vivi desiderii, i più cari affetti; ed ecco come e per quali vicende mi ridussi felicemente in patria dopo un’assenza di cinque mesi.


FINE.

Note

  1. Queste contenevano: 1.° la raccolta dei pesci in alcool fatta da Beccari e da me, che consta di 925 esemplari ed 84 specie; 2.° quasi tutta la nostra collezione malacologica, vale a dire, 11,600 esemplari di conchiglie e molluschi marini del Mar Rosso (circa 600 specie) e 550 esemplari di conchiglie terrestri (50 specie) di varie provenienze; 3.° i polipai nel numero di 100 esemplari (almeno 30 specie); 4.° moltissimi crostacei, anellidi, echinodermi non ancora numerati: 5.° e finalmente una serie di 100 campioni di roccie e minerali e circa 50 specie di fossili.
  2. Si conservano ancora nei comandi, a bordo ai bastimenti che navigano nel Mar Rosso, molte voci appartenenti al nostro linguaggio marinaresco; tali sono: arma, vira, trinchetto, bandiera, barchetta, ed altre molte.
  3. Circa 300, secondo il colonnello Merewether. Durante il mio soggiorno vi erano solamente cinque barche all’ancora, di cui due in riparazione.
  4. Contai in tutta la rada 18 navi a vela a tre alberi, un brigantino e 40 barche arabe. Vi si trovavano inoltre una pirocorvetta austriaca, la Narenta, ed un piroscafo della Società Kedivié.
  5. I pellegrini che visitano la Mecca superano in generale i 100,000 e già furono in numero di fin 160,000. Fra questi circa 40,000 sono annualmente trasportati dai porti di Calcutta, Bombay e Batavia per mezzo di bastimenti inglesi.
  6. Tali sono: manifatture di lana, di cotone e di seta che imitano i tessuti orientali, oggetti di coltelleria (per lo più grossolani), chincaglierie, armi, conserve alimentari, conterie, fiammiferi.
  7. Erano focaccie, paste, dolci, fritture di più maniere, ed altre leccornie.
  8. A Gedda, essendo i pescatori muniti di buone reti, si potrebbe mettere insieme una cospicua collezione di pesci assai più agevolmente che non a Massaua, ove l’unica rete impiegata è un piccolo giacchio o ritrecine che serve a cogliere il pesce minuto per inescare gli ami.