Viaggio di un povero letterato/XVII
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Capìtolo XVII.
PÌCCOLI PENATI.
Un’agitazione nervosa mi aveva tenuto per tutto il viàggio mattutino da Bologna a Rìmini; nè poteva stare io fermo o seduto. E più il treno mi portava verso quella città, più l’ossessione nervosa cresceva: un antico male. Percorrevo su e giù il lungo treno quasi vuoto, e cercavo qualcosa di diverso a cui attaccare il pensiero. Corri, vècchio treno e pòrtami via il pensiero! Ma andava così adagio il treno mattutino della Romagna!
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Per buona ventura, in uno scompartimento di seconda classe si svolgeva un piacèvole ragionamento: c’era una signora di mezza età, dolcemente tonda, che parlava come a casa sua e si soffermava con letìzia, gestendo, sui suoni della sua pronùncia ravennate. C’era un signore anzianotto con una cravattina bianca che ascoltava con serietà. C’era una signorina magrolina che non parlava. Questa era la nepote e la signora era la zia.
La signora si rivelava per una di quelle plàcide borghesi di Romagna, che hanno poderi al sole, casa in città, galline in pollàio, vino in cantina; hanno esperienza di masserìzia domèstica e agrìcola; vìvono in quella, e nessun dùbbio le assale che tutte queste proprietà còrrano oggi un certo perìcolo, o, quanto meno, sìano molto discusse.
Ella parlava di cose della vita domèstica; e dopo un po’, prestando io maggior attenzione, sentii queste parole, spiccate, con effusione di cuore: — Lei pesta, fine fine, le màndorle dolci e qualcuna di amare, ma poche; sì che venga tutta una bella manteca. Poi lei fa una bella spòglia come per i tagliolini, e li tàglia, ma fini fini. Allora lei prepara un bel sutè, e lo fòdera con la pasta frolla; poi ci mette un suolo di tagliolini, e sopra quel siroppo di zùcchero, che le ho detto, e la manteca di màndorle e dei pezzettini di burro; poi un altro suolo di taglioline, e ancora le condisce con lo zùcchero, con le màndorle, e del burro....
— Come fosse un ragù.... — suggerì d’incanto quel signore.
— Bravo! E così di sèguito. Sopra, poi, ci fa dei ricami con la pasta frolla, e cuoce al forno: quando è levato dal forno, ci fa un buco, e ci versa mezzo bicchiere di alchermes o di cògnac, a piacimento. Una bontà! Provi, e sentirà che onore si fa!
— E come si chiama?
— La torta con le taglioline dolci. Lei la può mangiar calda, ma se la làscia raffreddare, sentirà che è più buona.
Il signore prese nota: màndorle dolci, poche amare, zùcchero, burro, alchermes o cògnac. — E la signorina — domandò — sa fare anche lei la torta con le taglioline dolci?
La signorina si schermì.
E allora la signora disse che la signorina non studiava le torte, ma studiava alla scuola normale, dove era una delle prime: — Dante, ginnàstica, fìsica, pedagogia e làscia pur dire a lei!
Il signore guardò con ammirazione quella signorina che sapeva tante cose in così giòvane età. Ma parve preferire i ragionamenti su la sapienza della zia.
— Stùdiano troppo, adesso — disse il signore guardando con òcchio incerto la signorina come si guarda uno sconosciuto esercìzio su gli attrezzi. Forse la sua mente instituiva un rapporto tra la magrezza della signorina, e la floridezza della zia.
— Troppo, troppo, troppo! — confermò la zia. — E poi vede? Se queste ragazze devono fare un paio di calze, o un rammendo, non le sanno più fare.
— Ma si còmprano già fatte di chiffon! — disse la signorina con una vocina rabbiosetta.
La zia non fu di questa opinione perchè le calze fatte a màcchina pèrdono i calcagni in un momento: lei aveva, si può dire, tutto ancora il suo corredo da sposa.
— Si bùttano via e se ne còmprano delle altre — ribattè la signorina.
Questo sistema di buttar via e di comperare non doveva essere conforme alle opinioni dell’economia domèstica della zia, perchè disse: — Ci vògliono tanti soldi, allora!
La signorina scattò e disse:
— I soldi si guadàgnano! Prima le signorine non guadagnàvano niente, e adesso guadàgnano come gli uòmini. Sì, staremo lì a far la calza!
Il signore pareva ammirato delle risposte della signorina; ma si permise di obbiettare, non su le calze fatte a màcchina, ma in gènere sul perìcolo che Dante, la ginnàstica, la fìsica e la pedagogia potèssero sconvòlgere l’ordinamento della casa.
— A me, per esèmpio, signorina — disse, — le tagliatelle fatte a màcchina non mi piacciono.
— Oh, bravo! — esclamò la zia — Senti quello che dice il signore?
— Si pìglia una cuoca! — squillò la signorina — E poi e poi! Una volta voialtre stavate tutta la vita a imparare a far da cucina; ma oggi le signorine che stùdiano, come dice la nostra professoressa, sanno fare di tutto.
La signorina continuò con eloquenza, ma queste cose io già avèndole udite altre volte, lasciai lo scompartimento.
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Scompartimento deserto di terza classe.
Fra i due sedili si stava una giòvane donna. Era un visetto da Maria Vèrgine, ma senza beltà. Ella pareva continuare in treno le consuete occupazioni della sua pìccola casa, interrotte dal viàggio mattutino: aveva allattato un suo piccino; aveva disteso il trapuntino; vi aveva deposto il fantolino ed ora lo spiava affinchè nessuna perturbazione avvenisse: èrano chiusi gli sportelli dei finestrini dalla parte del sole nascente, rialzato il trapuntino, posto lievemente un fazzolettino bianco sul volto del dormiente.
Fra i due sedili, — immoto presso la mamma, — si stava un altro fantolino, di circa quattro anni, con un càndido grembiale, scarpettine pulitine, braccia nude, gambine nude: pareva in camìcia. Le due manine si tenèvano come in equilìbrio fra i due sedili: il verde della campagna, desta al primo sole, si rispecchiava nella diafanità delle pupille liquide, con immenso stupore. «Oh, la casa che balla e cammina! oh, quanto verde e quanto sole!» pareva dire. «Oh, mondo bello! Mondo nuovo!»
Una paletta per ismuover l’arena; una barchettina nuova da pochi soldi: alcunchè di nuovo, di fresco, di lieto in tutto il modesto bagàglio, rivelàvano a prima vista che il viàggio era di piacere, e probabilmente per i bagni, per dipìngere di scuro le pàllide carni di quel fantolino. Anzi certo, ai bagni! Una grossa glàndola enfiata deformava il volto del piccino. Gli dava quella immobilità dolorosa del bimbo ammalato.
Mi sorprese allora una voce diretta a me, a me veramente.
— Scusi, signore, questo scompartimento è per i non fumatori!
Le parole èrano cortesi, ma il tono era severo.
Era il marito di quella madonnina: un giòvane smilzo da pochi soldi. Veramente la espressione significava altra cosa: «Lei guarda il petto della mia signora!».
No, caro uomo, cosa vuole che guardi quella roba lì!
Guardavo il bimbo. «Le madri vìdero i bimbi infilzati su le baionette bùlgare.»
Guardavo fuori nel sole la piràmide della nostra civiltà: quattordicimila morti.
Al di là di questo manto azzurro del mare si deve udire il cannone rombare.
Ma già, quando s’alza il sole, la vita comincia lo stesso.
Il sole! Un gran pèndolo oscillante nel vuoto: da un lato l’istinto a fuggire la morte, dall’altro lato l’istinto a cercare la guerra!
Un cimitero elevò d’un tratto i suoi torrioni funerari, immoti davanti al treno fuggente. La macchina sibilò. Rìmini!
Thalatta, thalatta, l’eterno mare! la lama azzurrina dell’Adriàtico saliva verso il cielo, ma io non ti salutai, eterno mare: non ti saluterò più!
Mi rincantucciai e nascosi il volto.
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Quella grama famigliuola non discese a Rìmini, che è stazione di gran mondo.
A Rimini vidi il soldatino, rèduce dalla guerra.