L’olocausto di Cawnepore

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XII XIV
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L’olocausto di Cawnepore.

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Cawnepore, 16 febbraio.

Remember Cawnepore!

Per anglomania, per rivalità d’infinite caste, per interessi naturali e morali l’India non vuole e non può sollevarsi. Guai se potesse, guai se volesse! La misura è già stata data una volta; la razza bionda sa quale sangue scorra nelle vene di questi indiani dal sorriso abbagliante di fanciulla timida, dallo sguardo mansueto sotto le ciglia tenebrose; e ricordano, come si ricorda nella calma dei secoli, il furore sotterraneo della terra malfida. E v’è un luogo fra tutti, in India, dove l’ansia d’ogni cuore britanno si volge come a un cratere. Come a un cratere e come a un mausoleo: il più tragico che la disperazione dei sopravissuti abbia elevato mai sull’ecatombe dei suoi fratelli caduti.

Remember Cawnepore! Non so staccare gli occhi dalla targa di cristallo che ha conservato, dopo cinquant’anni, le due [p. 218 modifica]parole disegnate da un highlander innominato sul cubo di granito. Il soldato era certo tra quelli che ebbero il còmpito tremendo — più tremendo che affrontare il nemico — di entrare nella casa della strage, di restaurare le pareti crollanti, di raccogliere i resti, di detergere il sangue «che saliva sino alle caviglie». Sopra un macigno sconnesso, dove il sangue aggrumato — sangue di bimbi biondi, di donne bionde! — offriva una pagina rossa, il soldato aveva disegnato, con la punta della spada, a grandi lettere accurate, le parole tragiche.

Remember Cawnepore! Nessuno ha dimenticato, ma certo l’umile soldato non immaginava che il cubo fosse più tardi rimosso e la sua iscrizione, tutelata dal cristallo, figurasse oggi nelle cripte del Fatal Well: il pozzo fatale. Il sangue ha preso col tempo una tinta di fuliggine, dove le due parole spiccano più chiare; e certo esse mi dànno un brivido d’orrore, mi rievocano i giorni famosi assai più delle grandi lastre di marmo nero dove sono incisi in oro i nomi e le date delle varie campagne. [p. 219 modifica]

Per ricordare in tutta la sua tragica bellezza quella pagina rossa della storia Anglo-Indiana — sulla quale si profilano, vittime innocenti, tante soavi figure di donna — bisogna rivivere la notte del 14 maggio del 1857. Non invento: tolgo dalla raccolta del Times di quell’anno — sfogliata nella decrepita biblioteca del Queen’s Hôtel — tolgo fedelmente dalla nuda esposizione dei fatti quanto ne emana di tragica poesia. È la notte famosa. Gran festa da ballo nel bungalow del colonnello Stanes, festa da ballo e serata diplomatica, consigliata dalla prudenza coloniale contro gli eventi. Gli eventi son gravi. Si è in piena rivoluzione; il fermento crepita, s’accende, si spegne, s’accende qua e là come una miccia non bene nutrita, ma inquietantissima. Sono in fermento gli Stati del Bengala, Bombay tumultua, Mirat è a ferro e fuoco, Delhi è in mano dei sepoys ribelli. Sono rimasti fedeli agli inglesi gli Stati del Pengjab, Madras, Baroda. La sorte oscilla. Ma il tumulto si propaga terribile. Compie ora il secolo dal giorno dell’occupazione sacrilega (1757-1857) predicano i Bramini; la profezia dei 100 anni [p. 220 modifica]sarà coronata dallo sfratto degl’infedeli e da un’India degli indiani. I reggimenti di sepoys si sollevano ad uno ad uno, per cause minime: la proibizione di portare i grandi cerchi d’oro agli orecchi o di ridurre le lunghe barbe uncinate, un nuovo tipo di carabina che comporta cartucce da rompersi coi denti: e le cartucce sono unte con grasso di bue o di maiale: il bue, animale sacro per gli Indù, il maiale, animale immondo per i mussulmani; cause occasionali: le cause concrete sono ben altre. Gl’inglesi annettono uno stato dopo l’altro alla Compagnia. Lord Dalhousie ha tolto di colpo l’immenso Stato di Ouda, rifiutando al Marhaja spodestato la pensione e gli onori. Quasi tutti i sovrani indigeni delle provincie del Nord sono in vedetta, sicuri del popolo, forti di ricchezze immense e di una speranza quasi certa: l’aiuto della Russia ferita dalla campagna di Crimea, la Russia in vedetta all’Himalaja.

L’Inghilterra provvede, combatte l’insurrezione con tutte le qualità sue migliori. Giunge a Cawnepore la notizia che a Mirat — a dieci miglia dalla città — i sepoys [p. 221 modifica]hanno ucciso gli ufficiali inglesi, e il colonnello Stanes apre le sue sale ad una festa da ballo, quella sera stessa, per consiglio del generale Hugh Wheeler, e tutta la Colonia è invitata in gran gala diplomatica: la guarnigione europea, tutti i gentiluomini, tutte le signore. Nulla si deve temere, nulla si teme a Cawnepore: la popolazione sappia ben questo. A Wood-House l’orchestra alterna i valzer al God Save the Queen. Si festeggia il genetliaco di Sua Maestà la Regina Vittoria. Eppure qualche voce corre tra gl’invitati, qualche voce corre nella folla. Un reggimento di sepoys s’è ammutinato quel mattino stesso, appena è corso l’annuncio dell’assedio di Delhi: poco importa: il reggimento fu internato. La folla è ostile, il distaccamento europeo non è che di trecento uomini: poco importa: il generale Wheeler ha avuto due giorni prima un lungo colloquio con Nana Sahib, ultimo peshawah di Poonah, fedelissimo dell’Inghilterra, alleato ultra modernista, il quale ha messo a disposizione del generale diecimila uomini suoi che già occupano gli edifici della Tesoreria e dell’Arsenale e difendono Cawnepore in [p. 222 modifica]una cerchia infrangibile. La città è in festa, nella bellissima notte tropicale. Le bionde ladies possono sfoggiare le loro spalle e i loro gioielli, gli ufficiali alternare le divise vermiglie alle immense crinoline di seta, nelle graziose volute delle contraddanze e dei lancieri. Li protegge il Marhaja generoso, li tutela dall’alto, in effige, la graziosa sovrana ventenne, biondo-cerula sotto la corona dove scintilla la gemma unica al mondo.

God save the Queen...: ma come si prolungan le salve dei cannoni e delle moschetterie: come s’innalza di lungi il clamore della folla — senza dubbio festante. — Il frastuono copre quasi la musica e le risa degli invitati. Ed ecco che Sir Hugh Wheeler fa un cenno e nel silenzio generale s’avanza nella gran sala e parla. La sua voce è come quella del capitano che annuncia all’equipaggio inconsapevole il naufragio imminente:

— Siamo perduti, — s’odono grida femminili, — siamo perduti, se c’è fra noi chi non sappia dominarsi. Tutti al Forte William. C’è mezz’ora di tempo. Gli ufficiali accompagneranno le signore ai rispettivi [p. 223 modifica]bungalows per provvedersi di roba e prendere i bambini. Fra mezz’ora non deve più restare un europeo in città. Fra mezz’ora tutti al forte se v’è cara la vita. Calma. ordine, silenzio! L’orchestra, — i musici si sono alzati precipitosi, — l’orchestra continui a suonare fino a mio ordine: laggiù si deve credere che la festa continui. Fra mezz’ora tutti al forte! Le ragioni le sapranno poi.

Le ragioni sono queste. Nana Sahib ha gettato la maschera; ha armato con tutte le munizioni e con tutte le artiglierie dell’arsenale i suoi diecimila demoni neri, i quattro reggimenti di sepoys ammutinati; i forsennati stanno per entrare in Cawnepore, non più difesa che da un gruppo di fedeli; otto ufficiali inglesi sono già stati uccisi; tra mezz’ora la città sarà a ferro e fuoco ed ogni europeo passato a fil di spada. Non c’è rifugio che tra le mura tozze del Forte inglese.

— Al forte! al forte!

L’allarme corre la città. In mezz'ora tutti gli europei: uomini, donne, fanciulli — ottocento circa — sono al riparo: ma la difesa è derisoria: trecento soldati [p. 224 modifica]europei contro la falange furibonda! Eppure il manipolo resiste una settimana, due, tre, resiste fino alla morte per difendere le donne e i fanciulli che si stringono allibiti alle spalle. Le pareti decrepite crollano, sotto le granate, un bastione è aperto dal nemico: i difensori improvvisano trincee sotterranee; combattono nel fango. Comincia la stagione spaventosa delle pioggie tropicali. Donne, vecchi, bambini affondano nel paltume, si sviluppano il vaiuolo e la peste; nel cortile del forte si sotterrano i cadaveri; mancano le munizioni, mancano i viveri: le donne rifiutano il cibo per risparmiarlo ai bimbi e ai difensori: si vive di speranza: la notizia dev’essere giunta a Calcutta, ad Allahabad: la colonna liberatrice è forse alle porte.

Poi anche la speranza dilegua: è la disperazione, la morte certa: oggi, domani. Ed ecco il nemico farsi clemente. Nana Sahib propone al generale Wheeler una capitolazione; il generale si sdegna, rifiuta, ma la moglie, un’indigena, lo scongiura ad accettare; il generale esita; le donne, le madri implorano, impongono il consenso per i bimbi morenti di fame. E Wheeler [p. 225 modifica]accetta. Le condizioni, d’altra parte, sono accettabili: tutti avranno la vita salva e l’onore delle armi. I prigionieri saranno tutti imbarcati e condotti ad Allahabad, in terra pacifica. Viene il giorno della liberazione. Nana Sahib non ha mentito. Sul Gange, che scorre dietro il forte William, ventisette imbarcazioni attendono gli europei, delle quali due sono piccoli piroscafi a ruote: more comfortable — spiega il nemico — destinati alle donne e ai fanciulli. La flotta a remi, a vela, a vapore prende il largo sul fiume sacro. Ed ecco una cosa incredibile avviene. Sulle due rive, per una lunghezza interminabile, sono schierate tutte le truppe ribelli, tutta l’armata di Nana Sahib, con tutte le artiglierie tolte all’arsenale inglese, puntate sulla flotta che passa. È un saluto d’addio. No, è la carneficina ultima, sistematica, lo spettacolo infernale che Nana Sahib offre alla sua ferocia selvaggia. I proiettili s’incrociano dalle due rive più fitti, più micidiali d’un’eruzione vulcanica; le imbarcazioni avvampano ad una ad una; le vittime balzano dai roghi galleggianti; molti annegano, quelli che raggiungono la [p. 226 modifica]riva sono respinti a colpi di lancia dai malebranche spietati: a morte! a morte! Carne da caimani!

E i caimani del Gange devono aver giubilato di tanta carne tenera e bianca: vero è che poco dopo, per mesi e mesi, si moltiplicava in carne più fosca e men tenera di sepoys....

*

Ma la tragedia indescrivibile, quella per la quale Cawnepore è tristemente celebre, comincia appena. Tutti furono uccisi, fuorchè le donne e i bimbi — trecento circa — ricoverati sui due vaporetti che ritornarono a Cawnepore per ordine di Nana Sahib. Costui aveva bisogno d’un ostaggio contro la vendetta inglese che non poteva tardare e che sapeva tremenda, adeguata al delitto. I trecento superstiti inermi, folli di spavento e di dolore, dovevano subire una prima onta. Non furono restituiti al forte, ma vennero chiusi in una Be-Be-Ghar, parola intraducibile, tanto meno in inglese, un edificio basso e malsano; e là, nel luogo turpe, Lady Sotten, Lady [p. 227 modifica]Wheeler, Miss Kraty, tutte le fiere donne d’Inghilterra, le mogli, le sorelle, le figlie dei dominatori, quelle dinanzi alle quali i nativi parlavano a mani congiunte, languirono per venti giorni — venti secoli, venti età! — annichilite, inebetite dall’onta e dallo spavento, in attesa dell’aiuto che doveva giungere, ohimè — troppo tardi.

La grande colonna Inglese, comandata dal generale Haweloch s’avanzava da Calcutta verso Cawnepore, batteva i ribelli più volte, guadava il Bari-Naddu. Nana Sahib si vide perduto, si vide costretto a fuggire con tutti i ribelli, costretto a lasciare al nemico l’ostaggio delicato. No! Il nemico doveva trovare un carname! Fu dato l’ordine della carneficina immediata. I sepoys esitavano. Pietà, forse; forse viltà; poichè basta lo sguardo d’una donna inglese per far abbassare lo sguardo di cento nativi. I bruti uccisero senza fissare le vittime, uccisero a fucilate, attraverso le grate delle finestre, uccisero a colpi d’accetta, uccisero sfracellando i cranii infantili contro gli alberi del cortile, come si fa pei botoli malnati o bastardi. In mezz’ora la carneficina era compiuta. Morti, [p. 228 modifica]semivivi, feriti, tutti furono precipitati nella gran cisterna del cortile. Quando il giorno dopo irruppero nella Be-Be-Ghar le colonne salvatrici — i mariti, i padri, i fratelli delle vittime — delle trecento vittime non restava viva che un’indigena, l’aya (governante) dei due gemelli di Sir Sotten. E a lui che l’interrogava, che la scrollava alle spalle, perchè parlasse, essa rispondeva sghignazzando, abbracciando il tronco d’un palmizio sul quale s’alternavano ciocche bionde e grumi vermigli. La povera donna era demente.

*

E delle cose atroci come delle cose oscene. La fantasia si ribella e la penna si rifiuta. Ma è pur necessario ricordare quell’ora per poter comprendere la misura alla quale salì la vendetta degli Inglesi, e per poter perdonare ad un popolo europeo le atrocità che seguirono: gl’indigeni «cannoneggiati» in massa, i bramini torturati e appiccati, dopo averli costretti a mondare con la lingua l’ultima traccia di sangue dal luogo del massacro. Ahimè, la vita è non [p. 229 modifica]solo soffrire, ma far soffrire; e la storia del mondo c’impone questo dovere crudele: fare agli altri il male che è fatto a noi. La repressione salì a tal segno che in Inghilterra stessa, alla Camera, vi fu chi si alzò gridando: — Ricordatevi che quelli erano turchi e bramini e che noi siamo cristiani!

E la pietà cristiana ha convertito in un giardino il luogo del massacro.

Ho visitato i giardini delle Memorie (Memorial Gardens) e non è traducibile a parole il senso che si prova tra quelle ruine fiorite, la vibrazione che ha l’anima passando dal brivido dello sdegno a quell’indulgenza ineffabile che assolve di tutto. Vicino al forte William sorge la chiesa commemorativa, sacra al nome di tutte vittime. Le ruine dell’edificio che fu prima un lupanare indigeno, poi un macello di donne e di bimbe inglesi, sono ora coronate di clematidi, di liane, d’orchidee, e custodite intorno da una ringhiera di ferro, come i luoghi memorabili e sacri.

Il Fatal Weell, la cisterna ottagonale dove furono precipitati i corpi palpitanti, fu lasciata com’era, mascherata soltanto da [p. 230 modifica]un mausoleo di squisita fattura. L’edificio è ottagonale, com’è ottagonale la cisterna, a finestre ogivali e a guglie gotiche, sopra una base a grandi scalee, e farebbe pensare ad un angolo cimiteriale del Devonshire, se il giardino, intorno, non profilasse i tronchi multipli dei banani, simili ad immensi polipi capovolti, o gli svelti flabelli delle palme Palmira.

Sulla grande scalea che accede al mausoleo un immenso angiolo di marmo candido — Angel of the Resurrection — prega a capo chino, le mani congiunte, le immense ali incrociate; e sul cartiglio sono scritte le parole della Suprema Indulgenza, che non si possono leggere senza occhi lustri.

Traveller, pray for us and our murderers!...
(Viaggiatore, prega per noi e per i nostri carnefici!...)