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228 l'olocausto di cawnepore

mivivi, feriti, tutti furono precipitati nella gran cisterna del cortile. Quando il giorno dopo irruppero nella Be-Be-Ghar le colonne salvatrici — i mariti, i padri, i fratelli delle vittime — delle trecento vittime non restava viva che un’indigena, l’aya (governante) dei due gemelli di Sir Sotten. E a lui che l’interrogava, che la scrollava alle spalle, perchè parlasse, essa rispondeva sghignazzando, abbracciando il tronco d’un palmizio sul quale s’alternavano ciocche bionde e grumi vermigli. La povera donna era demente.

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E delle cose atroci come delle cose oscene. La fantasia si ribella e la penna si rifiuta. Ma è pur necessario ricordare quell’ora per poter comprendere la misura alla quale salì la vendetta degli Inglesi, e per poter perdonare ad un popolo europeo le atrocità che seguirono: gl’indigeni «cannoneggiati» in massa, i bramini torturati e appiccati, dopo averli costretti a mondare con la lingua l’ultima traccia di sangue dal luogo del massacro. Ahimè, la vita è non