Verso la cuna del mondo/VIII
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I tesori di Golconda.
Haiderabat, 14 gennaio.
In due giorni di corsa vertiginosa la Central India Railway mi ha portato dalla costa verdeggiante alle terre riarse, dall’India Indù all’India Maomettana. Tutto è mutato. Non più la freschezza dei palmizii e delle felci arboree, ma i cacti spettrali, le agavi dall’immenso fiore centenario, le euforbie a candelabro che sembrano reggere sui fusti altissimi e smilzi la vòlta sanguigna del cielo. Non si vedono più le bellezze di bronzo dal seno e dal volto ignudo, ma le donne maomettane rigidamente velate; non capigliature profetiche di asceti bramini e buddisti, ma turbanti di seta gialla, gridellina, celeste, barbe imbiondite all’henné, grandi brache e grandi scimitarre gemmate; non è più l’architettura leggiera dei bungalows anglo-indiani o la linea acuta delle pagode, ma le moschee e i minareti, i cubi candidi delle case maomettane, le finestrette ad ogiva multipla, difese da grate mirabili, fatte con una sola lastra di marmo sottile lavorato a giorno, raffigurante nel suo delicato traforo un albero con fiori e con frutti, una danzatrice, due paoni che si dissetano ad una vasca.
Haiderabat tutta bianca sotto il cielo di fiamma! Davvero non m’aspettavo una capitale così grande, così bella, così gaia in mezzo all’infinita desolazione dell’Industan; Haiderabat ben mussulmana, ma immune dalla decrepitudine sucida che distingue le altre capitali dell’Islam; e intatta come ai tempi di Mille e una notte, senza traccia di decadenza e senza traccia d’invasione europea! Se io fossi un sovrano di passaggio crederei davvero che questa folla si sia vestita nei suoi costumi dei tempi andati e si atteggi in parata per farmi onore, non già che essa viva della sua vita quotidiana.
La vita quotidiana è fatta di necessità. Ora questa gente non fa nulla di necessario. Tutti i negozi, sotto le arcate, ostentano le più deliziose cose inutili: gioielli, sete, velluti, vasi d’argento e di bronzo, babbuccie ricurve, scimitarre cesellate e gemmate, veli tinti pur ora e tesi ad asciugare al vento, leggeri come la nube che si sfalda, vivi di tutte le tinte più delicate; profumi, essenze contenute in alti vasi suggellati o in barattoli dalla forma singolare, segnati di lettere cabalistiche. E fiori, fiori in abbondanza, piramidi di magnolie, di ibischi, di rose decapitate che i mercanti vendono a peso, come i frutti, e che la folla infilza per via, improvvisando la ghirlanda quotidiana più necessaria del pane; strana folla che vive di colori, di profumi, di sogno, d’apparenza! Come siamo lontani da Bombay, da Calcutta, dalle grandi città della costa, dove già si sovrappone ed impera la nostra pratica attività occidentale!
L’Inghilterra concede al regno d’Haiderabat — un regno vasto tre volte l’Italia — l’illusione di un’esistenza indipendente. Ma quale indipendenza può godere uno stato continentale, custodito intorno da una cerchia di terre britannizzate, pronte all’invio d’un esercito sterminato! Il Nizzam, sovrano d’Haiderabat, sa che invece di armati, l’Inghilterra manda sacchi di grano e che la carestia — endemica ormai in questa zona sempre più riarsa — si farebbe sentire ogni anno senza l’illimitata generosità dei custodi accerchiati. E Haiderabat vive nella sua favola millenaria, intatta come dieci secoli or sono, bella di tutte le eleganze e le raffinatezze ereditate da Bagdad, da Persepoli, da Bisanzio.
Rientro nell’albergo abbagliato dalla troppa luce e dai troppi colori, umiliato da questa folla elegante tra la quale la mia figura occidentale in casco e gambali deve passare come il fantasma d’un mendicante. E cerco tra le commendatizie quella più importante: una lettera di presentazione a Xatar Nilgami, figlio del primo ministro del Nizzam. Poichè non sono venuto qui per Haiderabat, la città viva, ma per Golconda la città morta che dorme a pochi chilometri di distanza e della quale non si possono varcare le mura senza uno speciale permesso.
— Il primo ministro — mi fa osservare l’albergatore — è via con tutta la famiglia, ha seguito il Nizzam a Londra....
— A....?
— A Londra, per la season — mi riconferma l’uomo sbigottito della mia ignoranza — potrete presentare la lettera ad altri della Corte....
Mentre si parla, un servo mi porge la carta d’un commensale che siede all’altra estremità della sala semibuia. Un professore di Monaco.
Mi presenta la sua signora, mi parla subito con entusiasmo del nostro Re. Speravo gli fosse dettato dalla bellezza della mia patria, non fosse che attraverso la divina esaltazione di Goethe, ma il professore non ha mai visitato l’Italia, non ha mai letto Goethe, ignora le Elegie romane, e in Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re della più Grande Italia, non vede che il signor di Savoia, uno dei primi collezionisti del mondo e suo collega invidiatissimo in numismatica.
Sono scandalizzato. Ma il professore è più scandalizzato di me quando s’accorge ch’io ignoro l’alto valore numismatico del mio Sovrano e non so rispondergli a quale volume sia giunto il Corpus Nummorum Italicorum, l’opera colossale che egli sta compilando.
— Io sono qui da cinque mesi, con la mia signora, per ricerche che possono interessare voi italiani: ho trovato due zecchini e un mezzo zecchino con l’effige del doge Ludovico Manin. La repubblica veneta, nei secoli andati, commerciava col centro dell’India meridionale, quando questa era sconosciuta al resto d’Europa....
Affido al professore la commendatizia e nel pomeriggio stesso giunge dinanzi all’atrio dell’Hôtel una strana vettura di Corte, una victoria antiquata a grandi molle ovali, con a cassetta due cocchieri in turbante giallo e due staffieri ai lati, agitanti sui cavalli un lungo scacciamosche dorato: equipaggio strano fatto di vecchiume occidentale e di fasto orientale. È incredibile lo sfoggio di servitù che si ostenta nelle città indiane. Nessuna persona rispettabile può uscir sola, ma deve avere in ogni sua minima passeggiata un seguito di servi, di devoti, di clienti; primo dovere d’un signore verso l’ospite bene accetto si è di mettergli al fianco due seguaci, perchè gli facciano largo tra la folla, gridando alto il suo nome.
Prendiamo posto in vettura, attraversiamo tutta Haiderabat tra case candide, sotto un cielo fulvo, solcato da nugoli di corvi neri, di pappagalli verdi, di colombi tinti artificialmente a colori vivaci. Strada di Golconda è scritto in cinque, sei lingue sull’estremo sobborgo della città. Golconda! Quella che fu per tanti secoli la meraviglia dell’Asia, la città dei diamanti favolosi e delle regine sanguinarie, Golconda favoleggiata nei romanzi d’amore e d’avventura dei secoli andati, Golconda la grande guerriera e la grande voluttuosa, della quale recavano novelle incerte gli esploratori e i mercanti fiamminghi e veneziani. Come già per Tebe, per Micene, per tutte le città defunte troppo magnificate dalla favola, mi preparo ad essere deluso; so che andiamo verso un fantasma. Ma non sono deluso. La strada stessa che si percorre è degna d’un grande passato. Sotto il cielo ceruleo e fulvo, sorretto dai fusti diritti dell’euforbie, si stende in giro, fino all’ultimo orizzonte, un paesaggio che dà la sofferenza e la voluttà dell’incubo, un paesaggio non terrestre, fatto di pietra livida qua e là corrosa, qua e là dominata da certi cumuli di enormi macigni, curvi, lisci, simili ad otri giganteschi o a dorsi di pachidermi e di cetacei; sembra di percorrere una pianura selenica e veramente la natura ha fatto qui, con la pietra morta, uno scenario più fantastico delle vive foreste del Malabar. Via via che si avanza i macigni si fanno più frequenti e più colossali, si accatastano in piramidi di cento metri, arieggiano il profilo di colline inverosimili, qua e là traforati di spazi luminosi, come nei cumuli delle trincee. Esclusa, per evidenza geografica, la supposizione di massi erratici, non so davvero come i geologi possano spiegare l’accatastarsi dei macigni in questa pianura immensa; la leggenda indù li vuole caduti dal cielo; afferma che essi sono l’avanzo del mondo, rimasto tra le dita del Creatore e che egli arrotolò per gioco e precipitò sulla Terra. Certo il gusto dell’inverosimile, del fantastico, del colossale che domina nell’architettura indiana ha trovato in questa natura ciclopica i suoi modelli e le sue fondamenta.
Golconda! Al di là d’un gran fiume asciutto s’innalza il fantasma della città morta, con le sue mura ciclopiche, livide come il macigno circostante, merlate e traforate con arte singolare. Attraversiamo il letto del fiume; nel mezzo, in qualche pozza d’acqua superstite, una schiera d’elefanti lavoratori tenta invano il bagno quotidiano; i poveri pachidermi aspirano l’acqua con la proboscide e se ne irrorano i fianchi emersi. Giungiamo sulla riva opposta, ai piedi delle mura ciclopiche. Il genio guerresco ha trovata qui la collaborazione della natura, nè si può distinguere dove l’opera di questa finisca e cominci lo sforzo dell’uomo. L’uomo ha utilizzato macigni di cinquanta metri, rivestendoli di ammattonato, gettando dall’uno all’altro vòlte e terrapieni, unendoli con grate grosse come un braccio umano, armate di uncini difensori. Veramente Golconda doveva nascondere tesori favolosi se i Sultani pensarono a cingerla d’una difesa tanto formidabile. Si sale lungo la fortezza principale, un macigno multiplo che domina tutta la città morta ed è costrutto a gradi decrescenti, coronati alla sommità da un ciuffo d’alberi verdi che meravigliano in tanta desolazione e ricordano lo schema della commedia dantesca. Intorno sono macchine guerresche; cannoni arcaici, i quali attestano che la morte della città non è remotissima; Golconda fioriva ancora nella metà del settecento, quando era di moda in Europa il racconto d’avventure, le roman merveilleux, quando vi giunse profuga Madama Angot per tentare con la sua bellezza occidentale le stanche voglie dei sultani decrepiti.
Profanazione dei ricordi! La grazia tracotante della pescivendola parigina mi perseguita mentre il professore mi commenta le vicende epiche e i monumenti famosi.
— Quella moschea immensa è la Mecca, così chiamata, perchè è una copia esatta del santuario arabo che il Sultano Car-Alpur volle riprodotto nella sua città; quella che innalza i suoi minareti sul più alto contrafforte è la «Moschea dell’ultimo grido» perchè destinata alla preghiera disperata, quando i nemici avessero già invase le mura....
— Ma come si poteva espugnare una città come questa?
— Fu espugnata. Troppo si parlava delle ricchezze di Golconda. Aurangseb, imperatore di Delhi, le mosse guerra nel 1787 e l’espugnò nel 1790. La città fu saccheggiata, il popolo passato a fil di spada, ma, per ordine di Aurangseb, fu risparmiata la vita del Sultano. Bisognava strappargli il segreto ch’egli solo conosceva, sapere da lui il luogo dov’erano scomparse, durante l’assedio, le gemme favolose e i tesori dello Stato. Rubini dell’Oxsus, zaffiri del Tibet, perle di Ceylon, diamanti di Sam-Bal-Pur e di Carmur, lapislazzuli di Bavacan: si parlava di gemme profuse ad altezza d’uomo, in grotte sconosciute, murate con gli scheletri degli ultimi guardiani, per suggellare il silenzio. Il Sultano solo sapeva. Il disgraziato fu trascinato ad Aulabad, nella reggia del vincitore, e fu sottoposto alle più raffinate torture; uno stuolo di carnefici lo martoriava, uno stuolo di medici doveva ravvivarlo quando stava per agonizzare. Tutto fu vano; egli esalò l’anima improvvisamente, portando nell’eternità il mistero dei tesori accumulati....
Si sale lungo la fortezza, tra le moschee decrepite e i cannoni interrati a metà nella polvere. Si passa tra le ruine degli antichi palazzi, espugnati da poco più di un secolo e più distrutti che avanzi millenarii. Dalla sommità del forte si domina tutta Golconda; le mura ciclopiche e sinuose vanno da macigno a macigno, ancora formidabili, ancora intatte, ma vane ormai, poichè più nulla hanno da custodire, e nella vastissima cerchia tutto è rottame, pietra, polvere, morte. Alla morte è destinato il paradiso minuscolo che s’innalza alla sommità della fortezza. La riverenza indiana per le cose funebri mantiene miracolosamente verdeggiante questo cimitero dove sono le tombe di tutta la dinastia di Golconda, dal sultano Ibraim al sultano Abdul Asan, dalla bella indiana Bhima-Mati alla bella mussulmana Chanah-Shah, strane tombe cufiche dipinte in azzurro, a caratteri bianchi, ornate ognuna d’un porticato ad ogive e di quattro minareti minuscoli dalle cupole d’oro; intorno è una vegetazione cimiteriale: mirti, cipressi, palme nane, con certe aiuole di fiori malaticci, tenuti in vita dall’acqua che i devoti portano a secchia a secchia, dai pozzi lontani, come per gli incendi. Non è descrivibile l’infinita tristezza di questo cimitero esotico, campo della morte nella città della morte....
Ma ancora qui la mia malinconia è rallegrata dalla figura della pescivendola avventuriera. È veramente esistita quella che la leggenda chiama Madama Angot e fa pellegrinare ad Algeri, a Costantinopoli, a Golconda?
Illustre pescivendola — era Madama Angot.
Nel regno di Golconda — un giorno capitò;
il gran Sultan vedutala — se ne invaghì così
che a cinquecento mogli — lei sola preferì....
Ohimè, la sua tomba non è qui, tra queste sultane. Essa ritornò a Parigi, carica di quattrini e di gioielli, a godervi i ben meritati riposi.... Quali favolosi racconti doveva fare delle sue avventure e dei suoi pellegrinaggi alle illustri colleghe parigine, nelle veglie della sua vecchiaia venerabile!
Madama Angot.... È veramente esistita? In quest’ora, tra queste mura la sua gaia figura è più viva che mai, serve a consolare d’ogni troppo leopardiana tristezza. Dinanzi alle ruine troppo riverite è consigliabile l’irriverenza. Meglio schernire la fatalità che preme uomini e cose, canticchiando le strofe d’un melodramma giocoso....