to un cielo fulvo, solcato da nugoli di corvi neri, di pappagalli verdi, di colombi tinti artificialmente a colori vivaci. Strada di Golconda è scritto in cinque, sei lingue sull’estremo sobborgo della città. Golconda! Quella che fu per tanti secoli la meraviglia dell’Asia, la città dei diamanti favolosi e delle regine sanguinarie, Golconda favoleggiata nei romanzi d’amore e d’avventura dei secoli andati, Golconda la grande guerriera e la grande voluttuosa, della quale recavano novelle incerte gli esploratori e i mercanti fiamminghi e veneziani. Come già per Tebe, per Micene, per tutte le città defunte troppo magnificate dalla favola, mi preparo ad essere deluso; so che andiamo verso un fantasma. Ma non sono deluso. La strada stessa che si percorre è degna d’un grande passato. Sotto il cielo ceruleo e fulvo, sorretto dai fusti diritti dell’euforbie, si stende in giro, fino all’ultimo orizzonte, un paesaggio che dà la sofferenza e la voluttà dell’incubo, un paesaggio non terrestre, fatto di pietra livida qua e là corrosa, qua e là dominata da certi cumuli di enormi macigni, curvi, lisci, simili ad otri giganteschi o a dorsi di pachidermi e di