Vae Victis/Parte prima/II

II

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Parte prima - I Parte prima - III

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II.

L’indomani il sole si alzò caldo ed iroso. Era il trenta di luglio. Alle dieci Frida aveva fatto tutti i bagagli.

Amour, confortato da un osso, fu messo nella sua cesta da viaggio, dove stava assai pigiato; ma un po’ con carezze, un po’ con qualche schiaffo, il coperchio scricchiolante potè finalmente essere chiuso sopra il suo dorso tondo.

Poi bisognò aspettare la carrozza, ordinata per telefono ad Ostenda fin dalla sera innanzi.

Ma la carrozza non arrivava. Alle undici Chérie corse all’ufficio del telefono e parlò, con molta severità, alla Rimessa Boulant di Ostenda.

«Eh bien? Questa carrozza? L’abbiamo ordinata per le dieci. Viene sì o no?»

«Non viene», rispose una voce brusca.

«Non viene?!»

«Nossignora». Indi, in tono più sommesso, quasi confidenziale: «È stata requisita». [p. 15 modifica]

«Cosa vuol dire? Allora mandatene un’altra», disse Chérie. Ma Ostenda aveva tolto la comunicazione e Chérie se ne tornò mortificata e attonita a Villa Esther, dove Frida con aria fosca, e Mirella piagnucolante, l’aspettavano sedute sui bauli nella stretta anticamera di Madame Guillaume.

«Non c’è carrozza», annunziò Chérie.

«Non c’è carrozza?» esclamò Frida.

«E perchè no?» chiese Mirella.

«Ma... non so; ne hanno fatto qualche cosa....» rispose incerta Chérie. «Non ho capito bene. «È stata restituita.... o ripulita, o che so io».

A mezzogiorno la buona Madame Guillaume trovò un facchino che caricò i bagagli su una carretta a mano e li trasportò alla stazione del tram di Westende. E il tram portò le viaggiatrici, e il bagaglio, e Amour nella sua cesta, ad Ostenda, dove un altro facchino con un’altra carretta a mano prese bagagli e cesta e li portò alla stazione ferroviaria.

Videro subito che Ostenda aveva un aspetto strano e nuovo. Le strade erano affollate, ma non dalla solita folla di languide demi-mondaines ed oziosi viveurs. No; le strade erano piene di gente affaccendata, di soldati a piedi e a ca[p. 16 modifica]vallo; automobili, motociclette, carri e furgoni ingombravano le vie; e dietro a questi venivano contadini conducendo a mano lunghe file di cavalli e di muli.

Per la Rue Albert, con rapido passo di marcia, scendeva un drappello di Guardie Civiche, coi loro cappotti lunghi e l’incongruo cappello duro da borghese fermato sotto il mento dalla striscerella di cuoio. Gruppi d’ufficiali arrivati ad Ostenda pochi giorni prima per le gare internazionali di tennis, fermi all’angolo dell’Avenue Léopold, parlavano tra di loro sommessi e concitati.

«Ma che cos’hanno tutti?», chiese Mirella mentre traversavano in fretta la Place St. Joseph e il ponte, seguendo l’uomo coi bagagli, che già spariva dentro all’affollata stazione.

Quasi in risposta alla sua domanda, due strilloni passarono correndo e annunciando con grida assordanti: «Supplément.... supplément de L’Indépendance.... Mobilisation générale...»

«Ma, Frida!... vi sarà davvero la guerra?» esclamò con ansia Chérie volgendosi a interrogare con occhi inquieti l’arcigno profilo della governante.

«Probabilmente,» rispose Frida; «tra la Russia e la Germania». [p. 17 modifica]

«Ah, lontano da noi!» rise la giovine Chérie con una scrollatina di spalle; e corse avanti a salvare il prezioso cestello scosso e dondolato dalle rudi mani del facchino.

«Senti Amour, come piagnucola!» susurrò Mirella, mentre, pigiate dalla folla, aspettavano il loro turno davanti allo sportello dei biglietti.

«Guai a lui! Non deve farsi sentire», ammonì Chérie. «Ufficialmente, è la nostra merenda».

Allora Mirella battè ripetutamente sullo scricchiolante canestro il piccolo pugno inguantato, mormorando: «Couche-toi, tais-toi, vilain scélérat!» E la merenda ufficiale si ricompose nella sua cesta e tacque.

Fu un viaggio indescrivibile. Il treno era stipato fino alla soffocazione; pareva che tutta la gente nel mondo volesse andare a Bruxelles; ogni cinque minuti il loro treno si fermava per lasciarne passare altri, più stipati ancora, che passavano come fulmini roboanti lanciati verso la capitale.

«Non ho mai veduto tanti soldati» disse Mirella. «Non credevo ce ne fossero tanti nel mondo!»

Frida Rothenstein ebbe un sorrisetto sprezzante cogli angoli della bocca rivolti in giù. «Nel mio paese ce n’è qualcuno di più!» osservò. [p. 18 modifica]

«Come? In Germania?... Ma certo non saranno così belli!» gridò Mirella, sporgendosi dal finestrino a salutare col fazzoletto, come tanti altri facevano, una compagnia di lancieri che passava al galoppo — lance in resta e pennacchi ondeggianti — sulla strada polverosa costeggiante la ferrovia.

Frida li degnò appena d’uno sguardo. «Dovreste vedere i nostri Ulani,» disse. «Chissà,» soggiunse, «che un giorno non li vediate davvero!»

Ma le ragazze non l’ascoltavano. Finalmente si arrivava a Bruxelles.

Il viaggio da Ostenda era durato cinque ore invece di due. E per più di un’ora dovettero restar là, ferme, nel treno immobile nella stazione di Bruxelles.

«Di questo passo non arriveremo mai a Liegi; e tanto meno a Bomal», disse Chérie sgomenta, mentre uno dietro l’altro i treni carichi di soldati lasciavano la stazione prima di loro, andando verso l’Est. Qui si sarebbe detto che tutta la gente al mondo volesse fuggire da Bruxelles per correre alla frontiera orientale.

Ma tutto ha una fine. E venne anche il momento in cui il loro treno si mosse, e uscì ansante e sbuffante dalla Gare du Nord verso Louvain e Tirlemont. [p. 19 modifica]

Era quasi buio quando arrivarono a Liegi; allorchè lasciarono la Gare Guillemain, la morbida notte estiva avvolgeva già tutta la vallata nei suoi drappi tenebrosi.

La piccola Mirella s’addormentò, col visino smunto e sudicio di fuliggine poggiato al braccio di Frida. Anche Chérie sonnecchiava nel suo cantuccio, sognando l’azzurro mare di Westende; ma gli occhi di Frida erano aperti e fissi nel buio, mentre il treno entrava ed usciva rombando dalle gallerie e passava fragoroso sui ponti seguendo la curva nero-luminosa del fiume Ourthe.

Là, dove l’Ourthe incontra il suo minor fratello, l’Aisne, il treno rallentò, fremette, ebbe un lungo sibilo, e si fermò.

«Bomal», annunziò il conduttore.

«Eccoci giunti; su, Mirella, svegliati!» gridò Chérie guardando un istante dal finestrino e poi volgendosi a calcare sulla testolina arruffata e assonnata di Mirella il largo cappello a rose, mentre Frida radunava in fretta i libri, le racchette da tennis e gli ombrellini.

«Eccolo! Eccolo!» e Chérie agitò la mano dalla portiera a salutare un’alta figura maschile che percorreva con volto ansioso la piattaforma. «Claudio! Claudio! siamo qui!» [p. 20 modifica]

Claudio Brandès, un bell’uomo, d’una quindicina d’anni più vecchio della sorella Chérie, corse ad aprire lo sportello con un’esclamazione di sollievo. «Ah, sia lodato Iddio, siete qui», disse, alzando Mirella tra le braccia come se fosse una bambina piccola e portandosela sulla spalla. «E così? State bene?... Avete tutto? Andiamo!» E si avviò lungo la piattaforma a passi così rapidi che Chérie e Frida stentavano a tenergli dietro. «Oh, Mademoiselle», diss’egli volgendosi a Frida, «se avete lo scontrino dei bagagli, datelo a Fritz».

«Oui, Monsieur le Docteur,» rispose Frida fermandosi a frugare nella borsetta. Indi si volse e si guardò intorno in cerca del domestico, Fritz, ch’ella non aveva ancora scorto.

Fritz Hollaender («Hollaender di nome e Hollaender di nazionalità», com’egli soleva dire di sè ogni volta che faceva una conoscenza nuova) uscì improvviso dall’ombra e le fu davanti. Le prese di mano il foglietto senza rispondere al timido saluto di lei; nè parve accorgersi dello sguardo interrogante ch’ella gli fissava in volto. Senza una parola girò sui tacchi, e la sua massiccia figura scomparve tosto nell’androne dei bagagli.

La piccola comitiva era già all’uscita della sta[p. 21 modifica]zione ed il treno con un ultimo fischio serpeggiava via nel buio, allorchè Mirella d’improvviso alzò la faccia dalla spalla di suo padre e diede uno strillo. «Amour! Abbiamo dimenticato Amour!»

Era vero. Amour rattrappito e disgustato nel suo canestro della merenda se ne viaggiava nella notte verso il verde cuore delle Ardenne.

Vi fu un istante di muto sgomento, seguìto da molti vicendevoli rimproveri.

«In fin de’ conti, peggio per lui», disse Chérie che era stanca e aveva fame. «E’ colpa sua. Perchè non ha abbaiato? Sapeva perfettamente che si scendeva».

«Ma se gli abbiamo insegnato noi», singhiozzò Mirella indignata «a far finta d’essere una cosa da mangiare, quando si viaggia!»

«Via, via, Mirella, non piangere,» disse suo padre. «Telegraferemo alla stazione di Marche che lo fermino e ce lo rispediscano. Vedrai che domani ce lo vedremo ricomparire più seccante e scodinzolante che mai».

E così fu fatto.

Mentre attraversavano a piedi il silenzioso villaggio di Bomal, Chérie chiese a suo fratello: «Come mai Lulù non è venuta anche lei ad incontrarci? Potevi condurla nell’automobile». [p. 22 modifica]

Suo fratello esitò un istante prima di rispondere. «Ho mandato via l’automobile», disse.

«Mandata via?» esclamò Chérie. «Perchè?».

«L’ho.... l’ho prestata a qualcuno», disse il dottor Brandès.

«A chi?» chiese Mirella trotterellandogli accanto appesa al suo braccio.

Egli ebbe un piccolo sorriso: «Al re,» rispose.

«Oh, Dio!» disse Mirella, «che idea! Non era proprio un’automobile da prestare al re!... Ne avrà certo lui delle migliori!»

«Ognuno dà quello che ha, in tempo di guerra,» disse suo padre. «Sei stanca, uccelletto mio? Vieni ti porterò in collo». E di nuovo la sollevò e la portò in braccio come una bambinetta.

«Cos’è tutta questa tenerezza?» chiese Mirella, mettendogli il braccio intorno al collo e battendogli con la piccola mano sulle larghe spalle.

«Cos’hai da essere così affettuoso?»

Chérie si mise a ridere. «Ma non è sempre affettuoso?» chiese, e alzò verso il suo grande fratello uno sguardo pieno di adorazione.

«Sì, sì, è affettuoso», rispose Mirella, col suo fare positivo. «Ma non così esageratamente». E risero tutt’e tre. [p. 23 modifica]

Frida, che li seguiva nell’ombra portando i libri, le racchette e gli ombrellini, sentì di odiarli di più perchè ridevano.


Luisa Brandès — una sottile figura bianca nella bianca luce lunare — li aspettava, ritta sulla soglia di casa. Abbracciò Mirella e Chérie, salutò affettuosamente Frida; poi fece dare a tutte del latte caldo e dei biscotti e le mandò a letto.

«Ma io voglio raccontare a Papà che a momenti so nuotare, e che quasi so andare in bicicletta,» protestò Mirella attaccandosi stretta alla mano di suo padre.

«Glielo racconterai domani, tesoro mio», disse Luisa.

«Sì, domani», disse Claudio.

Ma il domani era nell’oscuro grembo degli Dei.

La mattina seguente, quando Frida e le due fanciulle scesero di buon’ora per la colazione, furono stupefatte di vedere Luisa — ancora nell’abito bianco della sera innanzi — seduta, sul divano, colla faccia pallida e gli occhi rossi. Alle loro domande essa rispose tremula che Claudio era partito. Due ufficiali erano venuti a chiamar[p. 24 modifica]lo verso la mezzanotte.... gli avevano dato appena il tempo di fare la valigia e prendere la sua borsa d’istrumenti chirurgici — poi l’avevano condotto via in gran fretta.

«Ma dove — dove è andato?» chiese Chérie.

«Non lo so,» rispose sua cognata e gli occhi neri le si soffusero di pianto. «Parlavano di mandarlo... non so... a un’ambulanza da campo... o al Deposito Centrale....»

«Cos’è il Deposito Centrale?» domandò Mirella.

Ma poichè nessuno lo sapeva, nessuno rispose.

A quel punto entrò Marietta, la cameriera, portando la colazione; e la seguiva sua madre, Maria, la cuoca. Tutt’e due avevano gli occhi rossi e appena interrogate si rimisero a piangere. Maria narrò che all’alba erano venuti i suoi due figli, Charles e Toinot, vestiti da soldato; avevano detto addio a lei ed a Marietta; il maggiore, Charles, che apparteneva al nono reggimento fanteria partiva per Stavelot; e Toinot, che non aveva ancora diciott’anni, s’era arruolato volontario e l’avrebbero mandato Dio sa dove.

«Certo,» soggiunse Maria, mentre le fitte lacrime le rigavano la faccia travagliata, «non [p. 25 modifica]c’è ragione di piangere. Si sa che non c’è alcun pericolo per il nostro paese. Ma tuttavia vedere i propri figli che se ne vanno così... cantando la Brabançonne.... come se andassero a morire» — la voce le si ruppe in singhiozzi.

«Certo, mia buona Maria,» fece eco Luisa, «non c’è ragione di piangere.»

E piansero tutte quante, amaramente e a lungo. Anche Frida, colla faccia nel fazzoletto, singhiozzava — un po’ per fare come gli altri e un po’ perchè un profondo Weltschmerz le commoveva il falso e sentimentale cuore tedesco.

Dietro suggerimento di Mirella si misero finalmente a tavola, e prendendo il caffè si sentirono un po’ meglio. Visto che quasi tutti gli uomini di Bomal erano partiti o dovevano partire, fu un conforto per tutti il pensiero che Fritz Hollaender, il domestico confidenziale del dottore, essendo olandese, poteva rimanere. Certo Fritz non era una persona molto amabile; era anzi quasi sempre imbronciato e taciturno; ma, come fece osservare Luisa, appunto per questo si sentiva che era una persona di cui ci si poteva fidare.

«Io» — disse la saggia Luisa, che aveva ventott’anni ed era una fervida ammiratrice di Georges Ohnet — «io mi fido sempre delle per[p. 26 modifica]sone che parlano poco e vi guardano bene in faccia quando rivolgete loro la parola.»

«A me Fritz non piace niente affatto,» dichiarò Mirella. «Trovo odiosa la forma della sua testa.»

«Non dir sciocchezze.» osservò Chérie.

«E detesto le sue orecchie,» soggiunse Mirella.

Frida, che stava inzuppando un croissant nel caffè, alzò il capo.

«Egli ha le orecchie che Iddio gli ha date,» disse con le sottili labbra un po’ tremanti.

Tutte la guardarono stupefatte, ed ella, facendosi di brace, abbassò il capo e rituffò il panino nella tazza.

Dopo colazione Luisa andò a riposare per qualche ora; Frida disse che aveva da scrivere delle lettere, e si ritirò in camera sua; mentre le due fanciulle decisero di andare alla Maisonnette des Lilas a far visita alle loro amiche, Cecilia e Jeannette Dorè. Bisognava decidere insieme che cosa avrebbero fatto per festeggiare il compleanno di Chérie il giorno 4 agosto.

Arrivate alla villetta di Madame Dorè, trovarono Cecilia e Jeannette affaccendate intorno al loro fratello Andrea, un biondo boy-scout di quattordici anni. [p. 27 modifica]

Cecilia gli cuciva sulla manica della blusa di tela verde una striscia colle iniziali: S. M.

«Che cosa vuoi dire S. M.?» domandò Mirella.

«Vuoi dire Service Militaire,» rispose con superbia Andrea.

«Ma guarda un po’!» esclamò Mirella, «e dire che non hai ancora quindici anni!»

Andrea si passò con aria distratta la mano nelle chiome. «Eh, già!» disse con fare di superiorità negligente, «poichè gli altri uomini se ne vanno tocca a noi di vegliare su di voi donne;» e degnò d’uno sguardo di benevola protezione la piccola Mirella che lo fissava estatica d’ammirazione.

«Tieni fermo quel braccio,» disse Cecilia, «se non vuoi ch’io ti punga!»

«Vostro padre dove è?» chiese Chérie. «E’ partito anche lui?»

«Sicuro,» rispose Andrea. «Fa parte della Guardia Civica. L’hanno mandato alla Chaussée di Louvain, non lontano da Bruxelles.»

«Che confusione! che agitazione!» esclamò Jeannette, saltarellando per la stanza.

«Ma noi,» chiese Mirella — «contro chi combattiamo?»

«Non si sa ancora,» sentenziò Andrea. «Forse contro i francesi; forse contro i tedeschi.» [p. 28 modifica]

«E forse contro nessuno,» concluse Cecilia tagliando coi denti il filo, e spianando colla mano il bracciale ben cucito sulla manica del fratello.

«Eh, sì, probabilmente contro nessuno,» fece eco Andrea, non senza un poco di rammarico nella voce. «Già, nessuno oserà mai invadere il nostro paese.»

«Andiamo in giardino!» disse Jeannette.


Tale era l’anima del Belgio alla vigilia dello spaventevole suo fato.

Senza dubbio, in alti lochi — nella Place Royale e nel Palais de la Nation — vi era chi vegliava in preda a febbrile angoscia, paventando e prevedendo l’immane calamità; ma per tutto il resto del paese non vi era che una certa irrequietezza quasi baldanzosa, un senso d’aspettazione risoluta.

Nessuno dubitava che i sacrosanti diritti della nazione non verrebbero rispettati; ciò nonostante — si diceva — non era un male l’essere preparati a tutto. E il paese si mobilizzava e s’armava.

Ma non v’era in quella dolce sera d’estate alcun serio allarme nei cuori; nessuno — dall’ultimo angolo del Lussemburgo, fino al più remoto casolare delle Fiandre — mirando tra[p. 29 modifica]montare quell’ultimo sole del luglio 1914 sui placidi campi di grano sognava che già nel crepuscolo stava a falce alzata la Morte, che già sulla soglia le nordiche belve appiattate e pronte al balzo fremevano, fiutando sangue.... Nessuno, nessuno sognava che di lì a quattro giorni su quelle ridenti vallate delle Ardenne l’orda delle jene germaniche sarebbe passata nel suo delirio di furore, nella sua frenesia di strage.

.... Oh, ridenti vallate delle Ardenne!...

Così, mentre nel villaggetto di Bomal, Chérie e Cecilia, Jeannette e Mirella correvano pel giardino soleggiato, a un lontano balcone di Berlino si affacciava in quell’ora stessa un uomo dalla barba grigia.

Ai suoi piedi ondeggiava una folla convulsa e tumultuosa. Parlava, parlava l’uomo dalla barba grigia. E prometteva sangue alle jene.

... Così, mentre le quattro soavi fanciulle progettavano sorridenti la festa che avrebbero fatta il quattro d’agosto, da quel balcone sulla Wilhelmstrasse veniva pronunciata la sentenza che determinava il loro fato e il fato dell’Europa.

«... Inviteremo Lucilla, Cricri e Verbena,» diceva Chérie. [p. 30 modifica]

«Distruggeremo quanti si porranno sulla nostra via!» gridava l’uomo sul balcone.

«... Faremo musica,» diceva Jeannette.

«Abbatteremo su loro il nostro pugno di ferro,» diceva l’uomo sul balcone.

«... E balleremo,» rise Mirella.

«E il nostro calcagno ferrato li schiaccerà,» disse Von Bethmann Holweg.


E le Jene Grigie ulularono.