Tre donne/VIII
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CAPITOLO VIII.
Nuove lotte.
Pallido, la fronte corrugata, gli occhi stanchi, don Giorgio Castellani errava per la campagna, come un’anima in pena.
Non parlava con nessuno, o pronunciava soltanto le parole necessarie.
In casa, solo con Cristina, si forzava a parere calmo; le insegnava a leggere e a scrivere per ingannare il tempo e se stesso. Poi si chiudeva nella sua camera col pretesto di un urgente lavoro. Una terribile battaglia si combatteva nell’animo suo.
Dopo quel primo giorno di delirio, in cui l’umanità aveva trionfato completamente dei propositi e dei pensieri del prete, egli era ritornato su’ suoi passi, tormentato da mille dubbi, da mille angoscie.
Così, mentre i contadini l’accusavano d’avere cacciato Marco per starsene più libero con la sua amante, egli avrebbe potuto spalancare usci e finestre e mettere tutta la propria esistenza, sotto agli occhi indagatori del pubblico.
Non era uomo da crogiolarsi nelle comode transazioni dei costumi e della religione. Ardente, entusiasta, forte e semplice, non poteva trarsi d’impiccio con le solite scappatoie dei frolli, degli ipocriti. Per lui erano le grandi e fatali uscite: le follìe, mai le viltà. Non faceva teoriche; sentiva così, forse senza ben rendersene conto. Natura energica, esaltata dal misticismo della prima educazione.
Insieme a ciò gentiluomo fino allo scrupolo, gentiluomo nell’intimo senso della parola; e recalcitrante a tutte le sottigliezze dello spirito gesuitico fin dalla prima età. I suoi superiori che lo conoscevano, avevano di lui una grande stima; ma in generale opinavano che non avrebbe mai fatto carriera, e che fosse meglio tenerlo in campagna.
Un suo vecchio amico, impiegato alla Curia vescovile di Pavia, diceva: Castellani non sa il valore della parola: distinguo: non può fare strada.
Era tutto di un pezzo.
Se fosse scoppiata una guerra patriottica, avrebbe preso il fucile; e lo diceva; poichè nessuno l’avrebbe potuto convincere che i suoi doveri di prete escludessero i suoi doveri di cittadino.
Col medesimo criterio giudicava i suoi doveri verso Cristina. Pure amandola appassionatamente, se ella non fosse stata quella che era — una creatura, cioè, tutta devota a lui e purissima — egli avrebbe forse troncato il dolce vincolo, sacrificando l’amore al dovere del proprio stato. Poichè — non poteva nasconderlo — passato il primo acciecamento della passione, terribile in lui, il rimorso lo schiacciava. E non tanto per il peccato commesso: egli sapeva che Dio perdona; ma ben più per il bivio crudele, in cui si era messo, di dover abbandonare la donna amata, o mancare all’impegno preso davanti a Dio e davanti agli uomini. Sapeva che molti preti, messi nelle identiche circostanze, se la cavavano con la massima disinvoltura.
C’era una vittima di più nel mondo: una donna gettata nell’infamia, o nella miseria, o nella disperazione; ma il prete si salvava.
Dio perdona.
Quale spirito maligno gli suggeriva che il perdono divino non basta a riparare il male reale fatto ad un nostro simile? Era la sua squisita delicatezza di gentiluomo? Il suo attaccamento all’onore mondano?... La passione, forse, che si mascherava così?... O un intendimento più alto, più nobile della religione e del dovere stesso?...
Nei primi giorni di sbalordimento, dopo la disfatta, il suo cervello preso da vertigine, aveva immaginata una via di salvezza, irta di triboli, ma splendida di poesia e di bellezza.
La giovine che gli si era abbandonata, non aveva più che lui al mondo; egli era responsabile di quell’anima, di quella vita; nè la coscienza gli permetteva di scemare con sofismi tale responsabilità: dunque, come egli stesso aveva detto quel giorno, essa doveva rimanere con lui, nella sua casa, unico asilo per lei. Su questo, nulla era da mutare. Ma... non poteva quella convivenza essere senza peccato, santa, ideale?... Non potevano, libato il calice inebbriante, colto il fiore divino dell’amore, vivere vicini in casta amicizia, amanti sublimi, martiri dell’idea?!...
Oh! il bel sogno!...
Ei l’accarezzò quel sogno: volle farne una realtà.
E la ragazza dei campi, la contadina ignorante, ineducata, intese questa bellezza ideale; e abbracciò con entusiasmo la mistica poesia del sacrifizio.
Ma dopo quattro mesi, quantunque non avesse mancato in alcun modo alle sue promesse, don Giorgio non credeva più di poterle mantenere in eterno. Una grande tristezza era in lui. Capiva d’essere stato eccessivamente presuntuoso, forse ipocrita, forse gesuita.
Il terribile dilemma si delineava sempre più chiaramente sotto ai suoi occhi; tanto più dopo che la Cristina aveva cacciato il vecchio incorreggibile, che si ubbriacava, rubava e li insultava nelle sue orgie. Nessuna via di accomodamento possibile ormai, nè di fronte alla coscienza, nè con le circostanze esteriori.
Abbandonare Cristina vigliaccamente, dopo di averla disonorata; gettarla in balìa ai suoi nemici, nella miseria, nella disperazione; o svestire quell’abito, spezzare il giuramento: spretarsi, insomma, e sposare Cristina. Non vedeva altra uscita da quel ginepraio.
Che schianto! che angoscia! che tormenti!
Egli avrebbe dovuto decidere prontamente. Si irritava con se stesso di quelle titubanze. Ma le sue forze vacillavano.
Ne conosceva parecchi dei preti ritornati laici. Quasi tutti uomini di ingegno: coscienze rette; ma quasi generalmente infelici. D’altra parte quelli ch’egli conosceva erano tutti scienziati positivisti, nei quali la fede era caduta a poco a poco sotto allo scalpello della investigazione. Avevano deposto l’abito come una maschera menzognera.
In tal caso, ciò doveva essere molto più facile. Per lui, credente, mistico in fondo, filosofo della vita per l’abitudine di osservare e di pensare, ma poco addentro nella scienza; per lui povero prete campagnuolo, ciò era terribilmente difficile.
A lui sarebbe bastato che i vescovi, riuniti in concilio, guidati da una mira ambiziosa, non avessero decretata la legge contro natura che vieta l’amore a tanti uomini. Ma la legge esisteva e tutti i colpiti si sottomettevano o fingevano di sottomettersi.
Prostrato ai piedi dell’altare, egli supplicava nelle lagrime il suo Iddio generoso a concedergli una ispirazione, un raggio di luce che gl’indicasse la vera strada.
Che cosa domandava infine? Di poter vivere da uomo onesto, senza ipocrisie, senza vergogna; e di non avere per questo la coscienza scissa, l’anima travagliata dagli angosciosi dubbi.
Ma Dio non l’ascoltava; irato, voltava la faccia dal supplicante.
A poco a poco, egli sentiva un gran freddo nel cuore, la coscienza si paralizzava: la preghiera stessa gli pareva senza senso; vuota la chiesa, lontano il nume. La sua fede illanguidita non era più che un miraggio, un fantasma. Poteva rinnegarla quando voleva. Ma neppure questo stato d’animo gli recava la pace desiderata, la serenità di giudizio, lo slancio del convincimento. Soffriva di sentirsi così: rimaneva prostrato, inerte. E poi, una vaga paura sorgeva dal fondo oscuro del cuore tormentato. Paura materiale, paura delle cose, paura, secondo lui, bassa, ma gelida, opprimente paura.
Rompere col passato: disdirsi dopo tanti anni; spezzare il giuramento; farsi vituperare dagli amici più cari; ed entrare solo, senza appoggi in una società nuova per lui, diffidente, cinica, nemica!
Che cosa avrebbe fatto?... A quale lavoro avrebbe consacrato la sua forza?... Dove avrebbe cercato un pane per sè e per Cristina?
Nella campagna?... In città?... Prete spretato! Vale a dire, un uomo che ha il coraggio di confessare: «È stato uno sbaglio: i principî che avevo abbracciati, non mi soddisfano più;» Oppure: «La superiorità che mi attribuivo era falsa: sono un debole uomo.» E ciò in mezzo ad uomini che si forzano a portare la maschera del leone, anche se la natura li ha forniti di un’anima da coniglio: in un mondo dove tutto si perdona, fuorchè il dire: «Ho sbagliato: cambio opinione.»
Certo qualcuno lo avrebbe compreso, compatito almeno: qualcuno gli avrebbe steso benevolmente la mano. Vere anime superiori esistevano nel mondo; aveva letto tanti libri dettati da un alto pensiero; scritti da uomini veramente liberi. Ma come presentarsi a quegli uomini?... Come cercarli nell’ingranaggio della vita quotidiana?... E se sbagliava?... Se l’uomo apparentemente liberale e superiore, a cui egli si sarebbe rivolto, avesse nudrito dei pregiudizi, o una di quelle ripugnanze ereditarie, invincibili, che fanno dire anche ad un uomo di buon senso: l’unto non si leva mai: il prete resta prete in eterno, e quello spretato lo è due volte?...
O se, pur trovando l’uomo ideale, fosse mancata in lui stesso la capacità di farsi comprendere? Se avesse destato delle diffidenze? Era tanto facile: un prete!... Che umiliazione! Che spasimi in tutto l’essere!...
Oh! maledetti coloro che l’avevano gettato fanciullo in un seminario, facendogli pagare a sì caro prezzo un’illusorio beneficio! Maledetti coloro che, svisando i suoi giovanili entusiasmi e le tenerezze vereconde della sua anima appassionata, lo avevano ingannato con la menzogna; e macchiato col nome bugiardo di vocazione, la eterna verità, il dischiudersi del fiore umano che istintivamente innalza verso il cielo i suoi primi effluvi!... Maledetti! Maledetti!
Solo, nella piccola chiesa piena d’ombre, gettato sui gradini dell’altare la faccia contro terra, egli imprecava e piangeva.
Una mattina un uomo fidato gli portò una lettera della Curia.
Ei l’aspettava in realtà quella lettera: eppure, toccandola, ebbe come una scossa elettrica. Riconobbe la calligrafia del vecchio prete suo amico, impiegato alla Cancelleria vescovile di Pavia.
— Ci siamo! — pensò con una specie di gioia amara. E subito dopo, come per una ispirazione segreta:
— Qui è la soluzione!
La lettera conteneva prima di tutto una chiamata del Vescovo: Ad audiendum verbum.
Poi una missiva confidenziale dell’amico impiegato.
Il buon uomo, esperto della vita, pratico di queste faccende, avvertiva il giovine che qualcosa di troppo azzardato era giunto agli orecchi dei superiori. La parola «scandalo» doveva essere stata pronunciata. Non glie ne facevano una colpa enorme, no, Dio santo! si sa, un prete giovine, e nella noia di quei paesi!... Comprendevano benissimo, compativano...
Ma lo scandalo dispiaceva a Monsignore. In questi tempi di incredulità, con tanti nemici della Chiesa, tutto diveniva pericolo, e le apparenze avevano una straordinaria importanza. Egli però poteva cavarsela con onore, anzi, a dirgliela in amicizia, quella vecchia amicizia ch’ei ben conosceva, destreggiandosi un poco, poteva trarre occasione per migliorare il suo stato, chiedendo un trasloco in paese più ricco; ciò che non gli sarebbe stato negato; purchè accorresse subito, mostrandosi pentito e dolente; e purchè si liberasse della pecorella. Levata di mezzo la pietra dello scandalo egli poteva giustificarsi con grande facilità. Molte cose si potevano mettere a carico della maldicenza della gente e della irreligione che infettava città e campagne.
Naturalmente l’amico non aveva neppure il sospetto che don Giorgio pensasse a resistere. Epperò nessun’altra esortazione; ma sempre quella, ripetuta, di far sparire la bella peccatrice, fosse pure con qualche sacrificio. E qui a guisa di suggello, un distico latino, molto elegante, il quale indicava che il reverendo era un intelligente cultore delle belle lettere, e, a tempo avanzato, un’amico indulgente delle belle peccatrici.
A mano a mano che andava leggendo questa curiosa lettera, una gran luce si faceva nell’anima di don Giorgio. L’ultimo velo cadeva; l’ultimo dubbio era vinto.
Uno strano sorriso gli errava sulle labbra, e nel petto virile rifioriva il coraggio.
Vinto! Ma questa volta era lui che vinceva. Gli occhi sfavillanti, la fronte eretta, andava incontro all’avvenire, conscio del proprio dovere, sicuro in se stesso.