Tre donne/I
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CAPITOLO I.
In Val Mis’cia.
Il sole era scomparso; una leggera nebbia si stendeva sulla terra fredda e umida.
Oppressi da insolita tristezza, i contadini ritornavano dai campi in silenzio.
Le donne, provenienti dallo stabilimento dove si lavorava la canapa, formavano un gruppo nel quale era tutto un discorrere fitto e sommesso. E spesso le parole erano rotte da singhiozzi, da gemiti.
Maria Scaramelli — moglie di Sandro Rampoldi il cavallante — giovine donna di ventidue anni, diceva tra le lagrime:
— Pare che l’avesse in cuore, povera Giulia! Non ci voleva andare al lavoro stamattina!... Le doleva il capo; aveva bisogno di stare in casa a riposare qualche ora di più. Ma la sua cognata le rammentò ch’era di turno alla macchina, che il padrone l’avrebbe mandata a chiamare, e in tutte le maniere le sarebbe toccato di andarci; altrimenti sarebbe cascata in multa, o avrebbe dovuto pagare una donna, che è poi lo stesso. La si vestì di mala voglia e venne giù brontolando. Io l’aspettavo come tutte le mattine per fare la strada insieme. Per tutta la strada non fece che lamentarsi. Povera Giulia!... l’aveva in cuore, povera figliuola!... Ringrazio il Signore che almeno non l’ho vista quand’è cascata...
— Avete ragione di ringraziare il Signore — entrò a dire una anziana dal viso scarno. — Io invece l’ho proprio vista, e non me ne scorderò finché vivo. È successo tutto in un lampo, veh! Ecco: io stavo a lavorare al mio solito posto, poco discosta dalla Giulia, ma con le spalle voltate. La macchina faceva un rumore di casa del diavolo. Mi pareva che non l’avesse mai fatto un fracasso così. Stavo per alzarmi e andare a vedere. In quella, sento un urlo, che mi ha rimescolata...
— S’è sentito tutti!... esclamò un’altra vecchia facendosi il segno della croce.
— Sì, ma io ch’ero là, l’ho sentito nelle viscere. E son saltata su gridando: Giulia! O Giulia!... Ho subito pensato al grembiale pieno di pane. Certo la macchina l’aveva pigliata per una cocca del grembiale!.. Mi son buttata avanti, con la speranza di fare qualche cosa, chiamando aiuto con quanto fiato avevo... Gesù, mio!... Non sono arrivata che a vederla un momento in faccia — che faccia!... Poi ho sentito un altr’urlo, soffocato... Era già dentro!... E i due piedi in aria facevano così così... Oh! chi non ha visto que’ due piedi, non può figurarsi l’orrore!...
Le donne ascoltavano agghiacciate.
Vi fu un silenzio.
Lo interruppe una ragazzetta che pareva indignata.
— Eh! se gli uomini fossero stati pronti a fermare la macchina, la si salvava.
Le altre protestarono risolutamente.
— Ma che!... Ma che!...
Erano corsi subito, povera gente!
— Subito — confermò la vecchia.
Erano lì altre donne, le quali accennarono tristamente ch’era tutto vero, che gli uomini avevan fatto di tutto per salvare la Giulia. Ma la Cristina Scaramelli — sorella minore di Maria moglie di Sandro — si rivoltò come un serpente, gridando che lei gli uomini non li aveva visti; che d’altronde era ora di finirla con quella storia; che ne avevano parlato tutto il santo giorno, e che lei non ne poteva più. Qualche cosa aveva visto, pur troppo, ma appunto per questo non voleva sentirne parlare. Voleva scordarsene! Loro ci trovavano gusto; ma lei no. Lei non poteva vivere con quell’orrore davanti agli occhi.
E nel suo disgusto uscì in queste frasi:
— Voglio andarmene da questo posto! Non la voglio più fare questa vitaccia, com’è vero che Dio mi sente!...
Le donne la guardarono stupefatte.
Alcune ghignarono perchè questa ribelle Cristina era un bel pezzo di ragazza e i padroni le facevano l’occhio di triglia, e anche don Giorgio Castellani, il giovine curato di Gel, la vedeva volontieri.
Ma la sorella di lei, la sposa Rampoldi, dolente e quasi offesa, esclamò:
— Sei pazza?! Che vita vuoi fare, altro che lavorare?... I poveretti son nati per questo. Anche il mio Sandro, ch’è stato via coi tedeschi e poi coi piemontesi, dice che dappertutto è lo stesso.
— O lavorare, o... via! Non sta neppure bene di dirle certe parole. Raccomandiamoci piuttosto al Signore, che ci tenga la sua santa mano sul capo.
Le anziane approvarono gravemente e tutte s’affrettarono verso casa senz’altro dire.
La pianura lombarda ha pochi luoghi più miseri, più desolati di questo mucchio di casette su una specie d’isolotto fra due corsi di acqua: la Vergonza e la Mis’cia. I contadini danno a tutto questo lembo di terra il nome di Val Mis’cia. Due ponticelli servono a chi ci va a piedi; ma gli animali e i rotabili d’ogni genere devono passare a guado dove l’acqua è più bassa. Quando la piena gonfia i fossi, non si passa più.
Val Mis’cia rimane come bloccato.
Per questo lo chiamano pure l’isola.
In fondo non è altro che un cascinale.
Niente chiesa, niente botteghe, neppure un forno per cuocere il pane.
I contadini e le loro donne, occupati da mattina a sera, hanno appena il tempo di far la polenta, la minestra e qualche focaccia da cuocere sotto la brace.
Un garzone di fornaio vi porta il pane regolarmente un paio di volte la settimana, da Casorate o da Gel.
Fino a pochi anni sono, avevano il pregiudizio che i pomidori maturi fossero cattivi; però s’affrettavano a mangiarli verdi, e appena rossi li buttavano via, mentre avrebbero fatto tanto bene alle loro minestre così malcondite.
Quella sera, rincasando, i contadini dell’isola ebbero una sorpresa poco gradita: il garzone del fornaio s’era scordato di portare il pane.
Ciò accadeva qualche volta, se l’uomo era troppo stanco e aveva la fortuna di esaurire il suo carico prima di giungere fino a quell’eremo.
La notizia circolò in un momento da una casupola all’altra.
— Siamo senza pane!
E i bambini tanto più strillavano: — Pane!... Pane!...
Ma gli animi erano così depressi che la cosa passò senza far rumore.
Qualche sorda imprecazione, qualche bestemmia smozzicata, bastarono a sfogare la collera dei più malcontenti e affamati.
Si affrettarono a fare la polenta, maledicendo quella giornataccia da cani.
⁂
In casa Rampoldi era pronta la minestra. L’aveva preparata la Virginia, la moglie di Pietro, il fratello maggiore, che era contadino a podere e aveva sempre una discreta scorta di riso, di fagiuoli e di lardo.
Appena accompagnate le bestie nella stalla e deposti gli arnesi del lavoro, i due uomini si fecero intorno alla Virginia, una pallidona delicata che non andava mai a lavorare in campagna, nè alla canapa. Essi discorrevano con lei, come i contadini usano di rado con le donne; mostrandosi gentili il più che potevano.
La minestra scodellata mandava un eccellente odore, e i due uomini facevano alla brava massaia i soliti elogi di tutti i giorni, per cui lei sorrideva di compiacenza.
Tutti sapevano che la minestra dei Rampoldi era la più buona: perchè la Virginia, essendo stata a servire in casa di ricchi fittabili, se ne intendeva di cucina. Ma si sapeva pure che i Rampoldi non pativano miseria come gli altri. Erano due uomini forti che lavoravano per sei e il podere lo facevano andare quasi senz’altro aiuto: specialmente dacchè Sandro aveva sposata la Maria Scaramelli una sgobbona che se non lavorava la terra, andava alla canapa; e quando ritornava a casa, a giornata finita, si addossava le faccende più gravose, per risparmiare la pallida cognatina incapace di faticare, lei, così gracile.
I maligni ghignavano di quella gracilità. Si sapeva bene che Sandro l’aveva presa di malavoglia la figliuola di Marco Scaramelli, per obbedienza al fratello maggiore che vedeva la necessità di avere in casa una lavoratrice; e per non dargli sospetto. Del resto, come moglie non la guardava neppure; anche questo si sapeva. Lei non era che l’asino di casa Rampoldi: moglie era la Virginia, tanto dell’un fratello che dell’altro, di Sandro come di Pietro. Se ne raccontavano d’ogni colore sugli amori dei due cognati; e Maria, sposa legittima di Sandro, era chiamata impunemente l’asino dei Rampoldi.
La sorella di lei, l’ardita Cristina, che di tali discorsi ne aveva sentiti anche troppi, fremeva dentro di sè; ma non le bastava il cuore di dire tutto quello che pensava alla sua sorella.
Tanto non sarebbe giovato; Maria non era donna da vendicarsi.
Seduti nella cucina semibuia, intorno alla vecchia tavola, i due Rampoldi e la bella Virginia mangiavano la minestra e del buon pane che Sandro aveva portato da Casorate, dov’era stato quel giorno nella sua qualità di cavallante. E insieme al pane giallo egli aveva portato anche un panino bianco, che la Virginia mangiucchiava a guisa di companatico insieme a quello giallo. E mangiando parlottavano allegramente con la bocca piena.
Secondo il solito, non s’erano dati pensiero di aspettare Maria che non aveva ancora finito di portar l’acqua nella stalla ed in casa.
Quand’ella arrivò finalmente, dalla porta di dietro che menava all’orto e alle stalle, gli altri s’erano già alzati, e di pane bianco non ce ne era più sulla tavola; anzi neppure di quell’altro.
Ella non si mostrò nè stupita, nè offesa che non l’avessero aspettata.
Succedeva così tutti i giorni: c’era avvezza.
Prese la sua scodella e andò a mangiare sull’uscio di strada, come sempre, perchè le piaceva di mangiare all’aria aperta e scambiare qualche parola con quelli che passavano.
Mangiava adagio, senza appetito, il cuore oppresso come da un incubo. Pensava all’orribile morte di quella povera Giulia; ma insieme alla sanguinosa immagine, che non riesciva ad allontanare, le ritornavano le amare parole della Cristina.
Sull’uscio dalla casupola da canto, apparve una vecchia mangiando un pezzo di polenta. Era l’Annunziata Meroni.
Le due donne si salutarono; e Maria si staccò dalla sua abitazione per avvicinarsi alla anziana.
— È per stasera il funerale?
— Si. Per farle un po’ d’accompagnamento; nella giornata di domani sarebbe impossibile.
— Verrà il curato?
— Non credo. Mi pare che ha mandato a dire che non poteva. Ci aspetterà in chiesa. Ho visto il Tonio della Mora e l’altro becchino che andavano a inchiodare la cassa... Vostro padre porterà la croce.
— Lo so. E la Cristina, mia sorella, l’avete vista?
— Era qui ora. È andata a farsi un po’ di polenta.
Maria sospirò, ma non disse nulla. Pensava che avrebbe potuto prenderla con sè la sua sorella, nella casa del marito, se la non fosse stata tanto scontrosa e difficile.
— Se mia sorella fosse come me — disse dopo un momento di silenzio — non avrebbe bisogno di stare sola.
— Oh! è meglio così. Vostra sorella somiglia a vostro padre; mentre voi siete come la vostra povera mamma.
— Cosa volete dire?
— Voglio dire che siete troppo buona. E poi, avete sentito? vostra sorella Cristina è stufa di questa vitaccia di contadina.
— Oh!... Cosa volete che faccia?
— Manca cose! Può andare anche a Gel a servire il curato.
Maria arrossì fino alla radice dei capelli.
— Al curato gli basta nostro padre per servirlo.
— Potrebbe mandarlo via per fare posto alla figliuola.
— Oh! Nunziata, non dite questo!... Mia sorella è una ragazza per bene. Siamo figliuole della stessa madre, sapete!
— So bene; ma lei dice sempre che voi siete una sgobbona; una... scusate veh?... dice che siete una stupida, che fate la serva a quella smorfiosa di vostra cognata.
— La serva no. Sono in casa mia come lei. Lavoro di più perchè son forte e sana, grazie a Dio; mentre lei ch’è pochina pochina, s’ammala per nulla...
— Un bel comodo ammalarsi quando si vuole!
Ferita da questa ironia la moglie di Sandro tacque un istante e trangugiò alcune cucchiaiate di minestra, ciò che le permise di stare un poco voltata nascondendo la faccia.
La sua figura si disegnava mollemente nella luce grigia del crepuscolo. Era una bella contadina, alta, dalle spalle larghe, dalle braccia solide quanto quelle di un uomo, ma belle, tonde e grassoccie. Il viso regolare, freschissimo, sebbene già un po’ abbronzato dal sole e dalle intemperie, aveva una espressione dolce, in cui la bontà appariva serenamente mista alla forza.
La vecchia, che sempre la guardava, riprese:
— È tutto dire che Sandro con quella testa d’avvocato, e la religione che ha, non sappia far rispettare la sua donna...
Maria si voltò di scatto.
— Cosa volete che faccia? S’ha a litigare?... S’ha da spartirsi? Uhm! Un bell’affare! Stando tutti uniti si va là: ma se noi si volesse spartirsi, il podere resterebbe a Pietro... la roba di casa sarebbe pochina, a farne due parti... Si andrebbe a star peggio dimolto. E poi, la discordia in famiglia... Come si fa? Sicuro che io lavoro tanto; ma dal momento che il lavoro c’è, bisogna farlo. Lavoravo anche a casa mia del resto. E Sandro non lavora forse?...
— Oh! per questo nessuno dice nulla. Dico soltanto che vostra cognata fa la signora, mentre voi portate il basto...
A questa insinuazione maligna, Maria impallidì. Più di una volta le era capitato di sorprendere certi sorrisi, certe mezze frasi, il cui senso al primo udire le era rimasto oscuro. L’asino dei Rampoldi! L’aveva sentito dire una sera al figliuolo della Menica, e lei aveva creduto che parlasse veramente del loro asino... Ma il ragazzo aveva riso in un certo modo!... E ora la vecchia Nunziata le diceva che lei portava il basto. Era un insulto dunque? Volevano forse significare che lei non contava per niente in casa di suo marito, che era la sgobbona e nulla altro? Strinse forte i denti e scrollò la testa bruna e poderosa.
— Sentite Nunziata, perchè dite che io porto il basto? Cosa vuol dir questo?
— O Dio! Non andate in furia! È così per dire che voi lavorate troppo, che siete troppo buona...
— Troppo buona, troppo buona... Non so perchè non dovrei esser buona. Quando la mia mamma si è sentita morire, la mi ha raccomandato d’essere sempre buona e di fare il mio dovere in tutte le maniere: io faccio quello che mi ha detto lei. Ero appena sposa quando l’è morta, vi ricordate?
— Eh! altro che ricordarmi. È stata lei che ve l’ha fatto prendere il vostro Sandro. Voi non ci pensavate neppure...
— È vero. È stata lei. Mi ha detto che era un galantuomo, un lavoratore, un uomo che andava piuttosto in chiesa che all’osteria.... Cosa potevo sperare di meglio, poveretta come ero?... Tuttavia avrei detto di no... perchè mi dava troppa soggezione con quell’aria... Ma quando la mia mamma ha insistito, non ho più saputo cosa dire; ho lasciato che facesse lei. E ora che l’ho sposato, vedo che è proprio un galantuomo, che all’osteria non ci va mai, e lavora sempre. In giornata non se ne trovano tanti degli uomini come i Rampoldi. Per questo se mi lamentassi sarei una cattiva donna. Quanto a farmi dei complimenti... lui non c’è tagliato, quantunque sia stato fuori e abbia visto il mondo. D’altronde, lui ha i suoi trentasei anni, e certi fumi gli son passati... Per me poi, mi vergognerei di pensarci. Son contenta così; e contenta io, contenti tutti.
— Siete una brava donna — sentenziò la Meroni. — A proposito, potreste prestarmi un mezzo pane? Ve lo restituirei domani mattina...
— Pane?! Se siamo rimasti tutti senza!... Io non ne ho mangiato... non ne ho neppur visto...
— Come!... Vostro marito è stato a Casorate col padrone; non ne ha portato?... Mi pareva d’avergli visto una micca di pane bianco...
— Ma che! Via, diciamo l’Angelus piuttosto; suona l’Ave Maria a Gel.
S’inginocchiarono sullo scalino dell’uscio.
— Il padre della Giulia!... — mormorò la Annunziata dando nel gomito alla sua vicina.
E tutt’e due fissarono gli occhi sbigottiti nel vecchio Melica lungo e pallido come un fantasma, che passava di là col cappello in mano, pregando e piangendo, tutto assorto nel proprio dolore.
Finita la breve preghiera, Maria salutò la vecchia e s’allontanò perchè voleva far presto a sbrigare le poche faccende e andare anche lei a Gel con la morta.
La Nunziata restò un momento sull’uscio a guardarle dietro; e fra sè pensava:
— La ci deve avere il suo interesse per fingere di non capire. Basta! Chi si contenta gode.