Tragedie, inni sacri e odi/Illustrazioni e discussioni/III. Manzoni e Roma laica
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MANZONI E ROMA LAICA
Ce déplorable Manzoni!, avevano esclamato, sconcertati, gli scrittori dell’Univers, ch’erano gesuiti. S’aspettavano ch’egli respingesse la nomina di senatore del Regno d’Italia, ed egli invece l’aveva accettata; s’aspettavano che almeno ei si considerasse un senatore in partibus e non prendesse alcuna parte ai lavori dell’alto consesso, e invece, nonostante «l’età e la malferma salute» che aveva lasciato sperare non gli avessero permesso «nemmeno di tentare l’adempimento dell’alto incarico», il 26 febbraio del 1861, vecchio di settantasei anni, era voluto esser presente alla storica seduta del Senato, in cui si proclamò Vittorio Emanuele II Re d’Italia. E ora, ora poi non dubitavano che, dopo quella solenne affermazione d’italianità, volesse rimanersene tranquillo a casa sua, a godersi in pace gli omaggi e i fastidi che l’immensa celebrità del nome gli procacciava da ogni angolo d’Italia, anzi del mondo. Il più pericoloso e irresistibile tentatore e seduttore del pericoloso vegliardo era sparito, il 6 giugno del 1861, dalla scena della vita; e i reazionarii e i ritardatarii tiravano il fiato. Oh, finalmente, si sarebbe tornati indietro, o se non altro si sarebbe andati più adagio! Gli scontenti erano tanti, nelle file più diverse e avverse; e si trovavano d’accordo in questo almeno: nel recalcitrare, per sostare o mutar rotta. La viltade li rivolgeva dalla onrata impresa «come falso veder bestia quand’ombra».
Il Manzoni invece ne preparava un’altra delle sue.
Fin dall’11 ottobre 1860, Cavour aveva, nella Camera Subalpina, affermata la necessità che Roma divenisse la capitale d’Italia. Tra uno scrosciare d’eloquentissimi applausi egli aveva detto: «La nostra stella, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico». E la questione romana fu subito proposta alla nuova Camera. Il 25 marzo ’61, in un altro dei suoi mirabili discorsi, il grande ministro chiese al Parlamento un voto che gli desse l’autorità di dire a fronte alta alle potenze estere: «La necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intera nazione». Il 27, egli bandì e illustrò il principio che conteneva in se la soluziono del secolare problema: «Libera Chiesa in libero Stato». La discussione si esaurì in quella stessa giornata, con l’approvazione, presso che unanime, dell’ordine del giorno Boncompagni, affermante «che Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia».
Or questo solenne voto parlamentare del 27 marzo 1861 si riteneva, in alto e in basso, che oramai, morto Cavour, dovesse rimaner platonico. Massimo d’Azeglio aveva dichiarato, prima, che «il partito dal quale uscì il grido di Roma capitale, fu quello che aveva accettata la solidarietà con Agesilao Milano o cogli accoltellatori del 6 febbraio 1853»; e ora veniva ripetendo che anche l’acclamazione del marzo 1861 era stata niente di meglio che uno sfogo di rettorica classicheggiante, e aggiungeva che Cavour tanto desiderava d’andare a Roma «quanto d’essere appeso per la gola». Purtroppo poi i ministri cavouriani non ispiravano quella piena fiducia che il grande ministro imponeva; e lo stesso Imperatore, che si sarebbe piegato ai voleri e ai consigli di Cavour, ora intavolava dirette trattative col governo pontificio, per cercare una via d’uscita.
Alla fortuna d’Italia giovò in quel frangente la goffaggine diplomatica del cardinale Antonelli. E il Ricàsoli, austero carattere di patriota, ne prese occasione per iscrivere al confidente intimo e ascoltato di Napoleone III, il còrso senatore Pietri, una lettera, il cui autografo ho avuto la fortuna di assicurare al nostro Museo del Risorgimento, la quale è un vero monumento di fierezza, di perspicacia, di lealtà, e di carità patria. Innanzi al Sovrano francese egli difende l’Italia «a viso aperto», come aveva fatto il progenitore Farinata. Scriveva tra l’altro:
L’Empereur a arrêté sa grande oeuvre devant le fantôme de Rome: après il s’est égaré... Je crois qu’il n’y a pas de temps à perdre, et qu’il faut... que Rome soit rendue aur Romains. Dans ces mots se trouve la seule, la véritable solution de cette difficulté: Rome rendue sans delai aux Romains. Il faut que la France généreuse, libérale, ne soit pas forcée è se soumettre à une tâche aussi contraire à ses nobles instincts, celle d’appuyer un Gouvernement et un pouvoir qui est la honte des temps modernes, le recluseur des brigands et des voleurs; il faut che l’Empereur cesse de peser aussi funestement sur la volonté de cette Italie, qui sera en tous les temps la naturelle alliée de la France; il faut qu’il cesse d’empêcher son libre essort, et qu’il ne détruise son oeuvre: il faut qu’il laisse aux Romains, qui sont des Italiens, la parfaite disponibilité de leur volontè, que les baionettes de la France ont jusqu’ici suffoquée d’accord avec la brutalité papale. S’il tarde è faire cela, je prévois de grends malheurs1.
Difatto, meno d’un mese dopo, il 29 agosto ’62, avveniva il disgraziatissimo fatto d’Aspromonte! Eppure, a metà di quel mese, il 13 agosto, il D’Azeglio, scrivendo a Eugenio Rendu, gli diceva che se Napoleone III ci avesse liberato dall’incubo di Roma capitale, egli avrebbe reso all’Italia un servigio non minore di quello che lo rese sul campo di Solferino! Ma che s’intendeva con la frase: «liberati dall’incubo di Roma capitale»? Qui era il punto; e su di esso l’onorevole genero non andava d’accordo con l’onorandissimo suocero.
Il D’Azeglio mandò al Manzoni una copia dell’opuscolo del Rendu, La souveraineté pontificale et l’Italie. E il 9 aprile del 1863, papà Alessandro gli rispondeva:
Ho ricevuto l’opuscolo che mi avevi annunziato, e insieme una lettera cortesissima dell’autore. Trovo nell’opuscolo molti fatti cavati fuori a proposito, e dei ragionamenti solidi; ma, non so se per mia colpa, non ne trovo abbastanza chiara la conclusione pratica. Più esplicita è la tua lettera, citata nella prefazione; ma al punto dove sono arrivate le cose e le volontà, dall’ultima volta che ci siamo visti, ti confesso che mi pare che, se ci possono essere delle soluzioni ragionate, non ce ne possano essere delle riuscibili per ora, e Dio sa fino a quando. Ogni accordo volontario, impossibile; un accordo forzato sarebbe, come sempre, una fine in apparenza, o un daccapo in realtà. Vorrei almeno poter concludere, come un corrispondente di giornale, con un Vedremo; ma, per la mia parte e alla mia età, sarebbe un conto altro che senza l’oste!
Dodici giorni dopo, il Manzoni stesso scriveva direttamente al Rendu:
Veuillez agréer l’expression de la vive roconnaissance que je vous dois, en mon particulier, pour le précieux cadeau de votre nouvel ouvrage, et de celle que vous doit tout catholiiue italien, pour avoir éloquemment démontré (hélas! il en est besoin en France!) qu’il n’y a pas d’opposition entro les idées et les tendances logiques que ces deux mots représentent. Quant à la solution qui puisse être proprie; i faire cesser, dans l’ordre des faits, leur antagonisme apparent, je suis forcè d’avouer mon impuissauce, non seulement à en imaginer une, mais même à apprécier celle qui est proposée par un esprit aussi éclairé et aussi droit que le vôtre. Je finis toujours par ne voir que deux ultimatums en présence, et également inflexibles. Ce qui est plus sûr, c’est que vôtre ouvrage ne pout manquer d’éclaircir des faits, de redresser des jugements, et d’affaiblir des aversions; et c’est beaucoup, quund même ce ne sorait qu’en attendant.
Gli è che gli ultramontani francesi, gli energumeni della Gazette e i «pleurards onctueux» dell’Union, eran di quei sordi che non vogliono sentire; e il D’Azeglio, pur raccomandando al Rendu di metter loro sotto gli occhi la lettera del Manzoni e un’altra di Gino Capponi, si mostrava sfiduciato di spuntarne la settaria avversione. «Or, le bon Dieu en personne leur parlerait mal du temporel», egli concludeva, «qu’ils regarderaient le bon Dieu de travers!».E ppure la questione romana bisognava oramai in qualche modo risolverla, o se non altro avviarla verso la soluzione. Nell’animo di Napoleone avevan fatto breccia i consigli liberali di Ricàsoli; ed egli si mostrò disposto a trattare col Ministero Minghetti pel ritiro dell’esercito francese da Roma. Da quegli accordi nacque la convenzione del 15 settembre 1864. Apparentemente, gl’italiani rinunziavano ad aver Roma per capitale, anzi fermavano la sede del Governo a Firenze; ma in realtà era consentimento generale della grandissima maggioranza dei liberali, che Firenze non fosse se non una tappa sulla via di Roma.
Purtroppo la notizia di quegli accordi, ai quali il Parlamento era rimasto estraneo, suscitò una violenta opposizione popolare. Forse il Ministero Minghetti ebbe il torto di non accaparrarsi prima l’appoggio dei maggiorenti delle Camere; ma oramai sarebbe stato fatale cedere alla folla, e rimanere a Torino. Si gridava, è vero, nelle vie: Roma o Torino!; ma era evidente che sarebbe poi stato presso che impossibile, cedendo ora, di sradicar poi la capitalo di lassù. «Curiosa la pretesa dei piemontesi», osservò più tardi il Manzoni: «volere che Vittorio Emanuele mettesse l’anello nuziale all’Italia nel dito del piede!».
Tra le augosco di quella sommossa, un eminente statista, Pasquale Stanislao Mancini, deputato dell’Opposizione, scrisse a sua moglie, il 22 di quel funesto settembre:
Circa la Convenzione con la Francia, dopo mature riflessioni, ti dirò che io non avrei preso impegni pel traslocamento della capitalo a Firenze, lasciandolo decidere liberamente al Parlamento. Ma ora che ciò è fatto, soggiungo che cederò alle violenze torinesi sarebbe forse porre la pietra sepolcrale sull’unità d’Italia, essendosi ormai da qualche giorno scoperto che dove credevasi il più saldo sostegno di tale unità, era il lato più debole. Sarebbe ormai impossibile, cedendo, sbarbicare mai più la capitale da Torino, impossibile per sempre andare a Roma; perchè qui, pur dicendo a parole: Vadasi a Roma!, sarebbe ormai palese che in fatti ciò non si vuole, nè si vorrà mai, nè quindi si opererà per andarvi. E la scoperta di questo lato debole, secondo me, potrebbe indicare ai nostri nemici la via per far naufragare l’unità nazionale. Io no sono preoccupato e triste2.
E preoccupati e tristi furono, con lui, i più nobili spiriti d’Italia, che vedevano compromessa, e bruscamente interrotta, la trionfale ascesa dell’idea patriottica, che tanti magnanimi petti aveva scossi e inebriati. Ma anche da quella prova si doveva uscire vittoriosi. Il nuovo Ministero, presieduto dal Lamarmora, presentò imperterrito alla Camera dei deputati, verso la metà di novembre, il disegno di legge che approvava la Convenzione e il trasferimento della capitale a Firenze3. Il Mancini sorse a sostenerlo, pronunziando uno dei suoi discorsi più fulgidi. Soprattutto ei s’indugiò a dissipare ogni sospetto che quel trasferimento volesse comunque significare rinunzia a Roma. E il suo ordine del giorno, puro e semplice, accolto dal Ministero, raccolse il largo consenso dell’assemblea. Quindi il disegno di legge fu presentato al Senato.
Il senatore Alessandro Manzoni, che fra tre mesi avrebbe compiuti gli ottanta anni, non volle mancare all’appello. Al Senato egli non era intervenuto, fin allora, so non quella volta sola, il 26 febbraio del 1861, per dare il suo voto alla proclamazione di Vittorio Emanuele a Re d’Italia; ebbene, vi tornava, per dare il suo voto alla legge, la quale riconsacrava l’unità della nazione e le aspirazioni e il diritto degli Italiani ad avere per loro capitale Roma, Roma laica! Ce déplorable Manzoni! Fu tentato ogni mezzo perchè lo scandalo non avvenisse. Gli amici Collegno o Arconati-Visconti ricorsero anche al Giorgini acciò che trattenesse a Milano l’illustre e temerario suocero. Ma pare che si dirigessero male, perché al Giorgini non dispiaceva punto che il Manzoni portasse l’immensa autorità del suo nome in favore della legge. Il D’Azeglio invece si agitava assai perchè il viaggio non avvenisse. Egli scriveva assicurando che la legge «sarebbe stata votata», che «tutti i senatori piemontesi eran pronti a questo sacrificio»; ma, per amor di Dio, non venisse lui, dacché il voto d’un milanese, e d’un tal milanese, avrebbe peggio attizzati i malumori e le rivalità fra lo due regioni padane. Giacomo Lacàita narrò al Panizzi come il D’Azeglio ricorresse per aiuto fino al prevosto di San Fedele, don Giulio Ratti; ma quando questi si recò in casa Manzoni, trovò che il maraviglioso vegliardo era già partito, nelle ore mattinali, per Torino. Non gli rimase di meglio a fare che mandargli dietro la lunga lettera esor- tatoria, con altro esortazioni suo. Ma il Manzoni, soggiungo il Lacàita, non vi diede altra risposta «che di porsela tranquillamente in tasca»4.
Non avrebbe voluto, in quelle speciali circostanze, accettare l’ospitalità degli Arconati; ma alle insistenze dell’ottima marchesa Costanza, s’arrese, scrivendole da Milano, il 23 novembre:
Non potevo dubitare della costante disposizione di tanto cari e boni ospiti; ma mi rimaneva una certa paura, che l’usarne in questa circostanza potesse parere in qualche parte contrario a quel rispetto che è pari in me alla tenerezza per loro. Le Sue parole sempre indulgenti mi rassicurano pienamente. Non posso determinare il giorno della mia partenza, perchè, oltre la solita instabilità della mia salute, aspetto un avviso di Bista [Giorgini] sul giorno probabile della votazione Il mio incomodo d’occhi, che va cedendo alla cura, ma che richiede ancora il riposo, mi obbliga a un rigoroso laconismo. Ma spero che in breve sarò non solo compensato del dover risparmiare le mie parole, ma, ciò che importa molto e molto più, avrò il vivissimo piacere di sentir le Sue5.
A Torino, nel Senato e fuori, tutti i vecchi amici gli tennero il broncio. «Durante la sua dimora qui in casa di Arconati-Visconti, ove era un concorso continuo di persone a fargli onore», narra ancora il Lacàita, «nè il D’Azeglio, nè lo Sclopis, nè il San Martino, nè il Revel, nè alcun altro piemontese furono a salutarlo. Anzi, ed in Senato e fuori finsero di non vederlo. Solo il marchese Alfieri, l’ultimo giorno della discussione, gli si avvicinò e gli parlò in Senato».
Intanto il D’Azeglio ne veniva dicendo di tutti i colori. Nella tornata del 3 dicembre aveva esclamato: «La chiave di tutti i fatti che si complicano oggidì, è la questione di Roma»; ma «nelle tendenze verso Roma», soggiungeva, «entra per molto una questiono d’odio contro il papato: e l’odio è il pessimo dei consiglieri per tutti, e più per l’uomo di Stato. E noi domandiamo come il Papa possa vivere tranquillamente in Roma accanto a coloro che lo hanno spogliato, non per amore dell’Italia, ma per odio contro il papato!... Duro fatica a persuadermi», concludeva, «che il cattolicismo riesca mai a concepire il Papa al Vaticano e il Re d’Italia al Campidoglio, come alcuni vorrebbero». Il cattolicissimo Manzoni, ch’era proprio di codesti alcuni, i quali, divinando la realtà che da mezzo secolo ci sta sotto gli occhi, concepivano l’assurdo, lasciava dire. «M’ingannerò», egli aveva scritto molti anni prima nella Morale cattolica, «ma credo che, quando la religione era spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, potè parlare più alto, e fu ascoltata». E al momento della votazione, il suo voto fu, senza esitazione, pel trasporto, provvisorio, della capitale a Firenze. Di qui era più facile andare a Roma: a che pretendere dai governanti del 1804 pur l’ultima o più ardua tappa? «Gli uomini», egli osservò a chi quella pretesa aveva, «che compiscono un passo della civiltà, giunti al punto della salita che ad essi pare comodo, senza badare se v’abbia altra salita o necessaria o possibile, s’arrestano a quel ripiano, e dicono: Fermiamoci qui».
Il giorno dopo la votazione, prima di lasciar Torino, con la coscienza intemerata di chi si sente puro, si recò in compagnia del Giorgini a salutare il D’Azeglio. «Il quale», riferisco il Lacàita, «per circa un’ora non gli parlò d’altro che di tavolini che girano o saltano, di spiriti e cose simili, coi quali si crede in continua comunicazione». Puntigli, aberrazioni o debolezze indegne d’un così insigne valentuomo; ma la passione politica è di quelle che fan perdere la testa anche a chi l’ha più salda. Sulla copia del discorso stampato del D’Azeglio, che raggiunse il Manzoni a Milano, qualcuno scrisse, con arguzia non iscevra d’ingiustizia, il virgiliano: Italiam non sponte sequor!
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Nella seconda delle sue tragedie, il poeta trentenne aveva messe in bocca al vecchio re longobardo queste fatidiche parole, che gl’italiani avevan lette fremendo e non avevan mai dimenticate (I, 2):
Quel dì che indarno |
Ora a lui era serbata la fortuna incommensurabile di viver tanto a lungo da vedere la sospirata alba di quel magnifico giorno. Al posto del re barbaro Desiderio, era l’italianissimo re Vittorio; al posto d’Adriano, Pio IX. Un papa costui che, come sovrano, non aveva mai riscosso lo sue simpatie. Al Casanova disse che Pio IX non sapeva quel che si facesse: «lo spingevano avanti, e lui avanti; lo spingevano indietro, e lui indietro». E al Centofanti, che gli rammentava come a buon conto quel Pio avesse nel ’48 pur benedetta l’Italia, egli rispose: «Ma l’ha poi mandata a farsi benedire nel ’49!». Roma finalmente era nostra.
A un benedettino francese il quale gli predicava essere un dovere per l’Italia il lasciar Roma al papato, egli aveva replicato: «E voi gli lascereste Avignone?». «Mais Avignon est à la Franco», quegli rispose. E il Manzoni: «Mais nous aussi nous sommes nés quelque part!».
Sul soglio pontificio s’assideva, per voto di popolo, il Re d’Italia. E il 28 giugno del 1872, i padri coscritti di Roma italiana, quasi a novella ricompensa nazionale, acclamarono cittadini della città eterna i tre più illustri scrittori ancora viventi: il Manzoni, Gino Capponi, Terenzio Mamiani. Perfino la prosa ufficiale del verbale di quella seduta tradisce l’entusiasmo che la nobile iniziativa suscitò. «Con vivi segni di esultanza», vi è detto, «e con plauso simultaneo generale, viene accolta la proposta dall’intero Consiglio, sorto in piedi con commovente slancio come un sol uomo». Il poeta degl’Inni sacri e dell’Adelchi, il polemista della Morale cattolica e lo storico della Rivoluzione francese, oramai nonagenario, risposo da Brusuglio al sindaco di Roma, il 28 luglio, con questa lettera:
Se nell’alto e inaspettato onore d’essere, con tanta degnazione, ascritto alla cittadinanza romana, io non avessi a considerare altro che la mancanza in me di ogni merito corrispondente, la confusione che ne risentirei prevarrebbe a qualunque altro sentimento. Ma questa, non solo non può estinguere, ma rende più vivo quello della mia riconoscenza per cotesto onorevole Consiglio comunale, che, degno rapprosentante d’una città generosa, ha voluto ricompensare, come fatti, delle buone intenzioni, o dare il valore di merito alle aspirazioni costanti d’una lunga vita alla indipendenza e unità d’Italia.
Si compiaccia, rispettabile signore, di farsi interprete, presso cotesto onorevole Consiglio, di questa mia rispettosa, e, oso aggiungere, affettuosa riconoscenza; e di gradire per sè l’attestato del mio profondo ossequio.
Ce déplorable Manzoni! Questa volta si trovaron tutti d’accordo a gridarlo: dai giornali cattolici quali l’Union e L’Osservatore cattolico, ai critici liberalissimi quali il Settembrini. E il Carducci — quello più impulsivo, d’avanti il discorso di Lecco, — ebbe a sentenziare che «Manzoni, rinfiancando il cattolicismo e promovendo il neoguelfismo, ha tanto nociuto all’Italia!». Lasciamo che la bella Immortale, ai trionfi avvezza, sperda dalle stanche ceneri ogni ria parola! E in questi giorni di glorioso memorie patriottiche6, ricordiamo invece alcuno parole che nell’Antologia di Firenze del luglio 1830 scriveva un giovane di venticinque anni, che non sarebbe rimasto un ignoto.
Manzoni è un affetto per noi, e il suo nome si confonde con quanto di bello e di grande santifica in Italia la giovino scuola; e se la parola del giovine ignoto, e impotente a tradurre le idee che talvolta gli fremono dentro, potesse aggiungere dramma al tributo che tutta una generazione gli paga, questo giovine volerebbe incontro all’autore dei Cori, e deponendo sulla sua fronte il bacio dell’entusiasmo, gli mormorerebbe: Manzoni! tu sei grande ed amato!
Questo giovane, così ardente ammiratore del Manzoni, non era precisamente nè un neoguelfo nè un cattolico intransigente, nè tanto meno un reazionario: si chiamava Giuseppe Mazzini7.
Note
- ↑ M. Scherillo, Napoleone III e Cavour, lettere inedite; nella Nuova Antologia del 16 agosto 1910.
- ↑ Cfr. Grazia Pierantoni Mancini, Impressioni e ricordi, 1856-1861; Milano, Cogliati, 1908, p. 379-80.
- ↑ Uno scrittore molto meno alto del Manzoni, e assai meno perspicace e conseguente nonostante il vocione da profeta che assumeva, Niccolò Tommaseo, scriveva di quei giorni all’umico Gianni Lotti: «... Firenze doveva essere capitale d’Italia o prima o poi; in questo momento non è che una umiliazione e un imbroglio di più. La sapienza del Cavour, che invocò lo straniero intendendo di canzonarlo, comincia a portare i suoi frutti. Spostarono i vecchi principi: adesso tocca a spostarsi loro. Torino non avea stomaco da ingoiare Firenze e tutta Italia; avrebbe adesso a rimaner ingoiata: ma dove lo stomaco che la digerisca? S’andrà innanzi a forza di spropositi dalla parte degl’italiani, e a forza di miracoli dalla parto di Dio».
- ↑ Cfr. Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani, pubblicato da Luigi Fagan; Firenze, llarbèra, 1880. p. 485.
- ↑ Lettere inedite di A. M. pubblicate da E. Gnecchi; Milano, 1900, p. 118.
- ↑ Questo scritto fu pubblicato la prima volta nel Corriere della Sera del 4 aprile 1911.
- ↑ Il prof. Alessandro D’Ancona pubblicò, alcuni mesi dopo del mio articolo, la lettera in cui il Giorgini dava conto alla moglie, la Vit- toria Manzoni, della sua andata e dell’arrivo a Torino in compagnia del grande vegliardo. Essa è, oltre che bellissima, un documento interessantissimo, il quale riconforma, con un’autorità che non si potrebbe desiderare più solenne, quanto abbiamo minuto fin qui. Eccola, nella parto che meglio ci riguarda. Ha la data di «Torino, 5 decembre 1864». (Cfr. D’Ancona, Aneddoto Manzoniano, negli Studj in onore di F. Torraca, Napoli, Perrella, 1912; e ora nelle Pagine sparse di letteratura e storia, Firenze, Sansoni, 1911, p. 259 ss.).
«Siamo arrivati a Torino in questo momento (1,30), e ho accompagnato Pappà in casa Arconati. Mi trovo qui nel suo salottino, dove mi ha pregato di aspettarlo mentre è in camera a fare la sua toilette. — Nella previsione che la cosa andrà assai per le lunghe, mi metto a scriverti, e mi affretto a dirti che Pappà ha fatto ottimo viaggio ed è di ottimo umore.
«Gli Arconati, conio sai, lo avevano insistentemente invitato a scendere da loro, qualora egli fosse venuto per davvero a Torino: benchè avessero sperato fino all’ultimo che questo caso non si sarebbe verificato, lo hanno accolto colla solita affettuosa premura. — Per parte mia ho avuta l’impressione che abbiano ricevuto me con una certa freddezza, come se fosse stato in mio potere, anche volendo, di dissuadere Pappà dal venir qui a dare il suo voto! Scesi ieri a Milano, carico di esortazioni e di raccomandazioni di Massimo, di Geppino, di donna Costanza [Giuseppe e Costanza Arconati] ecc. ecc., diretto ad impedire la sua venuta qui: arrivato a casa, trovai altre difficoltà fatte da Pietro [Manzoni], spalleggiato dal medico, che non trovavano prudente di lasciarlo viaggiare con questo freddo; mi provai dunque anch’io a farlo riflettere di nuovo prima di mettersi in treno; ma lui non ci sentiva da quell’orecchio, si ritirò più presto del solito, e quando mi fui ritirato anch’io, Clemente [il fido vecchio servitore] venne a dirmi che Pappà mi voleva parlare. — Andai in camera sua, e lo trovai che non si era ancora coricato; mi disse che desiderava partire stamani di buon’ora, per tagliar corto a tanti discorsi che lo avevano già abbastanza seccato... Prendemmo con Clemente, che ci ha seguiti, i concerti del caso, ed eccoci qui!
«Se Geppino è stato un po’ freddo meco, mi aspetto addirittura una spostata [uno sgarbo] da Massimo, o dei solenni musi da questi bravi Torinesi. — Non mi sorprenderebbe neppure che dessero segno del loro malumore anche a Pappà stesso, eccezion fatta forse del solo marchese Alfieri, che considera il trasferimento della capitale come una necessitià, qual è, e lo accoglie con animo sereno. Ma figurati che Sclopis arrivò a dire l’altro giorno che — se Manzoui commettesse la gravissima mancanza di vonire a Torino, la responsabilità sarebbe di Giorgini. — Si vede proprio che questi signori conoscono poco Pappà, che ne hanno un concetto molto inferiore a quello che merita, e che per conseguenza si esagerano grandemente il potere della mia influenza su di lui. Dovrebbero sapere che egli è ben chiaro e ben fermo nello sue idee e nei suoi propositi, e che poche idee ha più chiare e più ferme di quella di volere che si vada a Roma. Per lui è evidente che l’andare adesso a Firenze significa incamminarsi sulla via di Roma, e non saremmo certo capaci nè io, nè Massimo, nè donna Costanza, nè altri, di fargli cambiar rotta: ha in testa più fitto che mai il chiodo di Roma, ed è sempre pieno di fiducia che a Roma ci potremo andare col pieno consenso della coscienza cattolica. Non spera nulla da Pio IX, ma spera molto dal Pa- pato, e sogna ancora, come lo sognava quando scrisse l’Adelchi, di poter vedere sulla Cattedra di S. Pietro un Papa re delle preci. Attendo dal Papato delle cose così grandi, che, secondo me, perchè si potessero veder attuate, dovrebbe esser Papa lui!
«Per conto mio, nonostante il gran discorrere che ne abbiamo fatto con Pappà, ho perduta da un pezzo, come sai, ogni fiducia in un possibile accordo dello Stato colla Chiesa sulla quistione romana. Del resto, se non c’è buona fede al Vaticano, non potrei asserire che ci sia completa buona fede fra i nostri amici... Comunque sia, l’intesa colla Chiesa su questo punto non riuscì al Conte di Cavour e non riuscirà a nessuno, almeno per molto tempo ancora..., e il seguitare a trastullarsi coll’idea della conciliazione è vana illusione quando non è passatempo accademico. Se per andare a Roma vorremo aspettare che il Papa ci dia lui il passaporto, non ci andremo mai! Se poi vorremo andarci senza tener conto delle sue proteste, lo potremo forse fare, quando ce lo consenta la Francia...; ma in tal caso porteremo nelle coscienze degli Italiani cattolici, e dei cattolici di tutto il mondo, un perturbamento tale di cui non è facile prevedere le conseguenze prossime e remote, interne ed universali...
«Vedi bene che io, come al solito, a forza di guardare e riguardare tutte le quistioni da ogni loro lato e spigolo, vivo con l’animo agitato dal dubbio, che annienta qualunque energia. Felici i sicuri! Essi vedono le cose dalla parte dove ci batte la luce, e non curano i lati ravvolti nelle tenebro. — Così, vedendoci chiaro, camminano diritti per la loro strada: se la strada vada poi a sboccare proprio dove vorrebbero, questa è un’altra quistione... Ma solo chi crede di andar bene, cammina spedito, e chi si arresta, come faccio io, ad interrogarsi e a scandagliare ogni voltata, s’indugia e non arriva in fondo.
«Basta: torniamo a bomba! Per ora intanto verremo a Firenze; non credo che il Senato potrà votare prima di sabato: dopo il voto io accompagnerò Pappà a Milano, e so anche che il Babbo [il senatore Gaetano Giorgini] ha una mezza intenzione di unirsi a noi...
«Ma ecco Pappà che mi viene davanti tutto ripulito e rilisciato, o mi dice di mandarti un abbraccio anche da parte sua. Vado ora a cercare del Babbo, che gli Arconati vogliono a pranzo qui stasera. — Cercherò anche di Massimo, lusingandomi che non mancherà di venir a trovare Pappà».