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manzoni e roma laica 441

papato!... Duro fatica a persuadermi», concludeva, «che il cattolicismo riesca mai a concepire il Papa al Vaticano e il Re d’Italia al Campidoglio, come alcuni vorrebbero». Il cattolicissimo Manzoni, ch’era proprio di codesti alcuni, i quali, divinando la realtà che da mezzo secolo ci sta sotto gli occhi, concepivano l’assurdo, lasciava dire. «M’ingannerò», egli aveva scritto molti anni prima nella Morale cattolica, «ma credo che, quando la religione era spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, potè parlare più alto, e fu ascoltata». E al momento della votazione, il suo voto fu, senza esitazione, pel trasporto, provvisorio, della capitale a Firenze. Di qui era più facile andare a Roma: a che pretendere dai governanti del 1804 pur l’ultima o più ardua tappa? «Gli uomini», egli osservò a chi quella pretesa aveva, «che compiscono un passo della civiltà, giunti al punto della salita che ad essi pare comodo, senza badare se v’abbia altra salita o necessaria o possibile, s’arrestano a quel ripiano, e dicono: Fermiamoci qui».

Il giorno dopo la votazione, prima di lasciar Torino, con la coscienza intemerata di chi si sente puro, si recò in compagnia del Giorgini a salutare il D’Azeglio. «Il quale», riferisco il Lacàita, «per circa un’ora non gli parlò d’altro che di tavolini che girano o saltano, di spiriti e cose simili, coi quali si crede in continua comunicazione». Puntigli, aberrazioni o debolezze indegne d’un così insigne valentuomo; ma la passione politica è di quelle che fan perdere la testa anche a chi l’ha più salda. Sulla copia del discorso stampato del D’Azeglio, che raggiunse il Manzoni a Milano, qualcuno scrisse, con arguzia non iscevra d’ingiustizia, il virgiliano: Italiam non sponte sequor!

Nella seconda delle sue tragedie, il poeta trentenne aveva messe in bocca al vecchio re longobardo queste fati-