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lamento era rimasto estraneo, suscitò una violenta opposizione popolare. Forse il Ministero Minghetti ebbe il torto di non accaparrarsi prima l’appoggio dei maggiorenti delle Camere; ma oramai sarebbe stato fatale cedere alla folla, e rimanere a Torino. Si gridava, è vero, nelle vie: Roma o Torino!; ma era evidente che sarebbe poi stato presso che impossibile, cedendo ora, di sradicar poi la capitalo di lassù. «Curiosa la pretesa dei piemontesi», osservò più tardi il Manzoni: «volere che Vittorio Emanuele mettesse l’anello nuziale all’Italia nel dito del piede!».

Tra le augosco di quella sommossa, un eminente statista, Pasquale Stanislao Mancini, deputato dell’Opposizione, scrisse a sua moglie, il 22 di quel funesto settembre:

Circa la Convenzione con la Francia, dopo mature riflessioni, ti dirò che io non avrei preso impegni pel traslocamento della capitalo a Firenze, lasciandolo decidere liberamente al Parlamento. Ma ora che ciò è fatto, soggiungo che cederò alle violenze torinesi sarebbe forse porre la pietra sepolcrale sull’unità d’Italia, essendosi ormai da qualche giorno scoperto che dove credevasi il più saldo sostegno di tale unità, era il lato più debole. Sarebbe ormai impossibile, cedendo, sbarbicare mai più la capitale da Torino, impossibile per sempre andare a Roma; perchè qui, pur dicendo a parole: Vadasi a Roma!, sarebbe ormai palese che in fatti ciò non si vuole, nè si vorrà mai, nè quindi si opererà per andarvi. E la scoperta di questo lato debole, secondo me, potrebbe indicare ai nostri nemici la via per far naufragare l’unità nazionale. Io no sono preoccupato e triste1.

E preoccupati e tristi furono, con lui, i più nobili spiriti d’Italia, che vedevano compromessa, e bruscamente interrotta, la trionfale ascesa dell’idea patriottica, che tanti magnanimi petti aveva scossi e inebriati. Ma anche da quella prova si doveva uscire vittoriosi. Il nuovo Ministero, presieduto dal Lamarmora, presentò imperterrito alla Camera dei deputati, verso la metà di novembre, il disegno di legge che approvava la Convenzione e il trasferimento della capitale a Firenze2. Il Mancini sorse a sostenerlo, pronunziando

  1. Cfr. Grazia Pierantoni Mancini, Impressioni e ricordi, 1856-1861; Milano, Cogliati, 1908, p. 379-80.
  2. Uno scrittore molto meno alto del Manzoni, e assai meno perspicace e conseguente nonostante il vocione da profeta che assumeva, Niccolò Tommaseo, scriveva di quei giorni all’umico Gianni Lotti: «... Firenze doveva essere capitale d’Italia o prima o poi; in questo