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manzoni e roma laica 435

capitale d’Italia. Tra uno scrosciare d’eloquentissimi applausi egli aveva detto: «La nostra stella, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico». E la questione romana fu subito proposta alla nuova Camera. Il 25 marzo ’61, in un altro dei suoi mirabili discorsi, il grande ministro chiese al Parlamento un voto che gli desse l’autorità di dire a fronte alta alle potenze estere: «La necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intera nazione». Il 27, egli bandì e illustrò il principio che conteneva in se la soluziono del secolare problema: «Libera Chiesa in libero Stato». La discussione si esaurì in quella stessa giornata, con l’approvazione, presso che unanime, dell’ordine del giorno Boncompagni, affermante «che Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia».

Or questo solenne voto parlamentare del 27 marzo 1861 si riteneva, in alto e in basso, che oramai, morto Cavour, dovesse rimaner platonico. Massimo d’Azeglio aveva dichiarato, prima, che «il partito dal quale uscì il grido di Roma capitale, fu quello che aveva accettata la solidarietà con Agesilao Milano o cogli accoltellatori del 6 febbraio 1853»; e ora veniva ripetendo che anche l’acclamazione del marzo 1861 era stata niente di meglio che uno sfogo di rettorica classicheggiante, e aggiungeva che Cavour tanto desiderava d’andare a Roma «quanto d’essere appeso per la gola». Purtroppo poi i ministri cavouriani non ispiravano quella piena fiducia che il grande ministro imponeva; e lo stesso Imperatore, che si sarebbe piegato ai voleri e ai consigli di Cavour, ora intavolava dirette trattative col governo pontificio, per cercare una via d’uscita.

Alla fortuna d’Italia giovò in quel frangente la goffaggine diplomatica del cardinale Antonelli. E il Ricàsoli, austero carattere di patriota, ne prese occasione per iscrivere al confidente intimo e ascoltato di Napoleone III, il còrso senatore Pietri, una lettera, il cui autografo ho avuto la fortuna di assicurare al nostro Museo del Risorgimento, la