Torquato Tasso (Goldoni)/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Torquato solo, al tavolino, pensando.
Umile a voi mi volgo, voi nel grand’uopo invoco.
Ho gl’inimici a destra, che all’onor mio fan guerra:
A sinistra ho colei che co’ begli occhi atterra.
M’insidiano la pace, m’insidiano la vita:
Soccorretemi, o Muse, dammi, Cupido, aita.
Scrivasi. E che? si scriva contro un nemico audace.
No. Di colei si scriva, che mi tormenta e piace.
Che se torbida invidia m’affanna e m’addolora,
Conforto tu mi rechi, bellissima Eleonora.
A te finor non dissi, ch’io t’amo e ch’io sospiro:
Tacito nutro il fuoco, smanio, peno, deliro;
Ma ignota è la cagione che me da me divide.
Se a cogliere giugnessi delle mie pene il frutto,
Racquisterei la mente, o impazzirei del tutto,
Che ambe cagion possenti, onde ragion si scema,
Son l’estremo cordoglio e l’allegrezza estrema.
Sfogati, cuor ritroso. Di lei che non ha eguale,
Canta, ragiona, scrivi, falle onor: Madrigale. (scrivendo)
Cantava, in riva al fiume,
Tirsi, d’Eleonora,
E rispondean le selve e l’onde, onora,
E l’acque insieme e i rami:
Or chi fia che l’onori, e che non l’ami?
Sotto il nome di Tirsi canto d’Eleonora;
Fingo che in vane parti l’Eco risponda: onora.
Se questi versi miei la luce un dì vedranno,
I critici indiscreti che diran? che faranno?
Coi lirici miei carmi seguiranno il sistema
Con l’epico tenuto mio sudato poema?
Cara Gerusalemme, cara mia Liberata,
Epiteto novello avrai di Conquistata?
Sì, questa il mondo vegga sperienza d’intelletto
Formar nuovo poema sullo stesso soggetto.
E i critici sien paghi d’aver coi lor clamori,
Turbati i miei riposi, spremuti i miei sudori.
Stanza del canto quinto, ch’ora del sesto è terza,
Negli ultimi due versi dai critici si sferza:
«Che nel mondo mutabile e leggiero,
«Costanza è spesso il variar pensiero.
Dicasi, che nel secol mutabile e leggiero,
SCENA II.
Don Gherardo ed il suddetto.
Torquato. Correggo.
Gherardo. Impazzirete.
Torquato. È vero.
(getta la penna, e s’alza)
Gherardo. Posso veder?
Torquato. No ancora.
Gherardo. Vi prego, qualchecosa.
Torquato. Frenate la soverchia avidità curiosa.
Gherardo. Nel veder, nel sapere ho tutto il mio diletto.
Torquato. Quest’è in voi, compatite, stucchevole difetto.
Gherardo. La passion del sapere è naturale in noi.
Torquato. Saper con discrezione. Tutto ha i limiti suoi.
Gherardo. Dunque voi non volete ch’io veda niente, niente?
Torquato. Per carità... La testa mi scaldo facilmente.
Per or non m’inquietate; lo vederete poi.
Gherardo. Sarò il primo?
Torquato. Il sarete.
Gherardo. Ben, mi fido di voi.
Ma ditemi soltanto, s’è ver quello ch’io credo,
Che riformate il vostro bellissimo Goffredo.
Torquato. Sì amico, è ver pur troppo: stanco la mente mia,
Sol de’ critici in grazia.
Gherardo. Cotesta è una pazzia.
Torquato. Il Cavalier del Fiocco, l’acerrimo cruscante,
Fin qui è venuto a farmi il critico, il pedante;
E tanto a danno mio, tanto ha egli fatto e detto,
Che puote il mio poema far passar per scorretto.
Il Duca mio signore protegge il mio nemico:
Di lui parlar non oso, il destin maledico.
Pochi ignoranti, ch’hanno l’adular per mestiere,
Sogliono far per gala la corte al forestiere,
L’un dando all’altro il nome d’altissimo poeta.
Si esaltan fra di loro, indi, non so il perchè,
Le satire d’accordo scaglian contro di me.
SCENA III.
Targa e detti.
Torquato. Che cosa c’è?
Targa. Sua Altezza vi domanda.
Torquato. Sì, v’andrò quanto prima.
Gherardo. Ite pur, s’ei comanda.
Per me non v’arrestate; v’attenderò curioso
Di saper che ha voluto.
Torquato. (Eccolo qui il noioso:
Vuol saper tutto).
Targa. Andiamo, che sua Altezza vi aspetta.
Torquato. Andrò
Targa. Tosto vi vuole.
Torquato. Anderò, non ho fretta.
Ah maledetto il punto, che in Corte io son venuto!
Venero il mio signore, ma a lui non mi ho venduto.
Giovin di quattro lustri venni invitato in Corte;
Sperai co’ miei sudori fabbricar la mia sorte.
Lo studio e la fatica riposo unqua non diemme,
Ott’anni ho consumati nella Gerusalemme;
E il mio signore, a cui l’opra sacrar si vede,
Qual diede a’ miei sudori generosa mercede?
Misero me! per lui faticato ho l’ingegno,
E d’un clemente sguardo appena mi fa degno.
Gli hanno i nemici miei avvelenato il cuore;
Mi tratta da nemico il Prence, il protettore.
Non so il perchè... può darsi... ma no, non è capace.
Facile ascolta, e crede... Chetati, labbro audace.
Se il nemico m’insulta? Mi saprà far ragione.
Qual ragion, qual ragione? Perfidi, l’ingannate...
Oimè! l’alma delira. Vado a lui: perdonate, (parte)
SCENA IV.
Don Gherardo e Targa.
Sei, sette volte il giorno lo vedo in frenesia.
Egli non ha perduto della ragione il lume,
Ma tetro divenuto mi pare oltre il costume.
Gherardo. Giovine egli era ancora, era in età puerile,
Che gravità mostrava sostenuta e virile.
Narrano quanti amici finor l’han conosciuto,
A ridere giammai non averlo veduto.
Questo suo umor patetico principio ha dalle fasce;
Difficile è la cura d’un mal con cui si nasce.
Targa. È vero, anch’io il proverbio dir più volte ascoltai:
Quando si nasce matti, non si guarisce mai. (parte)
SCENA V.
Don Gherardo solo.
Misero chi è soggetto al mal di fantasia!
Io almen l’indifferenza ebbi dal cielo in dono:
Vada ben, vada male, sempre lo stesso io sono.
Forza è dir di Torquato, che la bile lo prema,
Or che del suo Goffredo cambiar vuole il poema.
Curiosità mi sprona veder com’egli è accinto...
Il duodecimo canto fatto è il decimoquinto.
(va leggendo sopra vari fogli che trova sul tavolino)
Era la notte, e non prendean ristoro
Col sonno ancor le faticose genti,
Faceva i Franchi alla custodia intenti.
Ha scassato, ha cambiato. Il cambio eccolo qui.
Vediam la correzione. Ora dice così:
Ma qui vegghiando nel fabbril lavoro,
Stavano i Franchi alla custodia intenti.
Ecco dove si perde, chi di sè ha poca stima:
La mutazion peggiora: meglio diceva in prima.
E rintegrando le già rotte mura,
E de’ feriti era comun la cura.
E rintegrando gian le rotte mura,
E degli egri s’avea pietosa cura.
Spiacemi di Torquato l’inutile lavoro;
Vedo che per far meglio vuol perdere il decoro.
Questa non parmi ottava. Leggiamo. E un madrigale.
Che un amico lo vegga non dee aversene a male.
Cantava in riva al fiume Tirsi d’Eleonora.
Che sento? e rispondean le selve e l’onde, onora,
E l’acque insieme e i rami. Costui di chi favella?
Or chi fia che l’onori e che non l’ami? Oh bella!
Quel che Torquato turba, son l’amorose doglie.
Amante è d’Eleonora? sarebbe ella mia moglie?
Due altre ve ne sono in Corte di tal nome:
Non spiega il madrigale nè il grado, nè il cognome.
Ma una è la Marchesa, del Duca favorita;
L’altra è la damigella: non sarà preferita.
Torquato, il cuor mi dice, amante d’Eleonora,
Mi fa l’onor sublime d’amar la mia signora.
Dottissimo poeta, una finezza è questa,
Che può d’estro poetico aggravarmi la testa.
Tu sei, per quel ch’i’ vedo, per amor melanconico;
Io non vorrei d’intorno di gelosia il mal cronico.
Finora è un mio sospetto. Forse ciò non sarà.
Ecco, sia maladetta la mia curiosità.
La moglie mia conosco. Vivo di lei sicuro.
Vorrei però sapere con queste rime sue
Qual altra il buon Torquato onora delle due.
Voglio portarli meco questi graziosi carmi,
Voglio copiarli, e voglio di tutto assicurarmi.
Non sarò queto mai, se il ver non si saprà.
Questo è zelo d’onore, non è curiosità. (parte)
SCENA VI.
Anticamera della Duchessa.
La Marchesa Eleonora avendo nelle mani il poema
del Tasso in quarto, e donna Eleonora.
Il poema del Tasso da lui stesso corretto.
In sei mesi di tempo ne uscir quattro edizioni,
Ma sui testi rapiti, pieni di scorrezioni.
Il povero poeta, che tanto ha in quel sudato,
Penò contro sua voglia mirandolo stampato.
Ed or sarà famosa, grata sarà ad ognuno
Questa edizion del mille cinquecento ottantuno.
D. Eleonora. In fatti meritava dal mondo più rispetto
Opera che all’Italia accresce il buon concetto;
Dagli editor stampata finor fu con malizia,
Non so se per impegno, o pur per avarizia.
Marchesa. Questo, per chi lo gusta, in oggi è il miglior spasso;
Ciascun che sappia leggere, legge e rilegge il Tasso.
Il Duca signor nostro, dotto, prudente e grave,
Meco passando l’ore, gusta le dolci ottave,
Gara tra noi facendo chi con maggior franchezza
Sa rilevar dei versi lo spirto e la bellezza.
Stanza che, s’io non erro, mi par che così dica:
Teneri sdegni, e placide e tranquille
Repulse, e cari vezzi e liete paci,
Sorrisi, parolette e dolci stille
Di pianto, e sospir tronchi, e molli baci.
Marchesa. Tenero amor si sente ne’ vivi carmi espresso.
D. Eleonora. Dite, tra ’l duca e voi li ripetete spesso?
Marchesa. Donna Eleonora, intendo. Pungermi voi cercate.
D. Eleonora. Pungervi? la mezzana vi farò, se ’l bramate.
Vedova siete voi, vedovo è il Duca1 ancora
Dama nasceste, il prence vi venera e vi adora:
Gran cosa non sarebbe se anch’ei, per viver queto,
Volesse fare un dolce matrimonio segreto.
Marchesa. D’altro parliamo, amica: io son per suo favore
Della Duchessa madre damigella d’onore;
A tanto non aspiro, so che tanto non merto;
Coi versi di Torquato mi spasso e mi diverto,
E i versi del poeta mi dan tanto piacere,
Che in leggerli talora spendo le notti intere.
D. Eleonora. Marchesa, lo sapete, io son d’allegro umore:
Vi piace il suo poema, o piacevi l’autore?
Marchesa. Vi dirò: dell’autore ho qualche stima, è vero,
Ma è troppo melanconico, troppo in volto severo;
Ne so come prodotte abbia sì dolci rime,
Un uom che nel vederlo nera mestizia imprime.
Ammiro il suo talento, gradisco i carmi sui,
Ma egual piacer non trovo a conversar con lui.
D. Eleonora. Io, io lo sveglierei, se non fosse un riguardo.
Marchesa. Temete che geloso di voi sia don Gherardo?
D. Eleonora. Mio marito, per dirla, non credo sia geloso;
Si fida, e può fidarsi. Ma è piuttosto curioso.
Ma ch’egli tutto sappia, qualche volta mi spiace.
SCENA VII.
Eleonora e dette.
Marchesa. Che volete, Eleonora?
D. Eleonora. Eleonora si chiama ella pur?
Eleonora. Sì signora.
Fece tre nomi eguali maraviglia anche a me.
Chi paga la merenda, ora che siamo in tre?
Marchesa. Via, che volete?
Eleonora. È quivi il Cavalier del Fiocco.
Marchesa. Di Torquato il nemico. (a donna Eleonora)
D. Eleonora. Di lui nemico? sciocco!
Marchesa. Digli che venga.
D. Eleonora. Oibò.
Marchesa. Godrete il bell’umore.
D. Eleonora. Sentite, io non mi tengo, se strapazza l’autore.
Eleonora. Anch’io tengo da lui; son proprio innamorata:
Trovo nei dolci versi la manna inzuccherata.
Bene o male, li leggo anch’io la notte e ’l dì;
Oh, mi piace pur tanto, quando dice così:
«Sani piaga di stral piaga d’amore,
«E sia la morte medicina al cuore. (parte)
SCENA VIII.
La Marchesa Eleonora e donna Eleonora.
Sia nemico del Tasso?
Marchesa. Lo so; pur troppo è vero.
Ho timor che l’ascolti.
D. Eleonora. Sarà una fanfaluca.
Il Prence lo conosce, n’ha della stima, e poi
Basta, perch’ei lo stimi, che lo stimiate voi.
Marchesa. Amica, v’ingannate.
D. Eleonora. Basta, su ciò non tresco.
Marchesa. Il Cavalier sen viene.
D. Eleonora. Venga, venga: sta fresco.
SCENA IX.
Il Cavaliere del Fiocco e dette.
Marchesa. Serva sua.
Cavaliere. Divotissimo.
Che avete per le mani?
Marchesa. Il Goffredo.
Cavaliere. Bellissimo!
(con ironia)
D. Eleonora. Par che questo bellissimo detto l’abbiate ironico.
Cavaliere. Non meno il can per l’aia; parlar soglio laconico.
D. Eleonora. Voi sprezzate Torquato?
Cavaliere. Non ho negli occhi il fignolo.
Ha la lucerna sua poc’olio, e men lucignolo.
D. Eleonora. Bellezze ha ne’ suoi versi, che non ha par.
Cavaliere. Non veggole.
Marchesa. Colto è lo stii.
D. Eleonora. Purgato.
Cavaliere. Avete le traveggole.
Voci ha latine e barbare, egli è lombardo fracido.
Uggia ci mette2 in leggerlo stile confuso ed acido.
Lampilli per zampilli: bel cambiamento usabile!
Quando una cosa grave prende il Tasso a descrivere,
Parole madornali suol usar nello scrivere.
Latinismi a bizzeffe mesce scrittor ridicolo.
Che gli sieno imburchiati non vi sarà pericolo.
In favor di Torquato odo talor decidere,
Ma decision lombarde i cruscanti fan ridere.
Ha nello scilinguagnolo un difetto epidemico,
Chi non è della Crusca dichiarato accademico.
Marchesa. (Che dite?) (piano a donna Eleonora)
D. Eleonora. (Ira mi desta).
Marchesa. (Prendiamolo per gioco).
SCENA X.
Don Gherardo e detti.
Cavaliere. Ma ritorniamo a bomba.
D. Eleonora. A bomba?
Cavaliere. Sì, al proposito.
Tosto nel primo verso v’incalma uno sproposito.
Canto l’armi pietose. Se dritto il ver si esamina,
Pietosa non può dirsi cosa che non ha l’anima;
Dicendo l’armi pie, detto avrebbe benissimo.
Gli epiteti confonde lombardo ignorantissimo.
D. Eleonora. Orsù, signor cruscante, signor infarinato,
Favorisca per grazia di rispettar Torquato.
Parmi, per dir il vero, un poco troppo audace
Chi sprezza in casa d’altri cosa che preme e piace.
Gherardo. (Preme e piace Torquato dunque alla mia signora.
Sarà del buon poeta l’adorata Eleonora). (da sè)
Marchesa. Sì, Cavalier, voi troppo siete in lodar restio:
Torquato è un uom valente, e lo difendo anch’io.
Gherardo. (A confondermi torno).
Passione in voi soverchia.
D. Eleonora. Tacete.
Cavaliere. Taccio subito.
Lo so cha anfana a secco, so che in arena semina,
Chi l’ostinazione vuol guarir nella femmina. (parte)
SCENA XI.
La Marchesa Eleonora, donna Eleonora, don Gherardo.
D. Eleonora. Invidia è che lo muove contro d’un uom che scrive.
Perchè quattro riboboli sa unire in lingua tosca,
Per maestro di lingua vuol che ognun lo conosca;
E se termine trova, che a lui rassembri nuovo,
Lo critica, e pretende trovare il pel nell’uovo.
Ripieno è di proverbi, usa parole sdrucciole;
Ai gonzi per lanterne suol vendere le lucciole.
Quei che con fondamento non han studiato mai,
Lodano questi tali chiamati parolai;
Ma gli uomini, di cui le teste non son zucche,
Distinguere san bene chi spaccia fanfalucche.
Gherardo. (Non si può dir di più. Ella è la prediletta).
Marchesa. È vero che i Lombardi non han lingua perfetta,
Ma studiano gli autori, scelgon di loro il buono;
Dai vizi della lingua spregiudicati sono.
Non dicon la mi casa, invece della mia.
La mana per la mano non corre in Lombardia.
Scrive ben, parla bene, quivi ancor chi ha studiato;
Scrive ben, parla bene sovra d’ognun Torquato.
Gherardo. (E questa in guisa parla, che di lui pare accesa.
Curiosità mi sprona). M’inchino alla Marchesa.
Marchesa. Serva di don Gherardo.
D. Eleonora. Serva, signor consorte.
Quant’è che si trattiene nascosto in queste porte?
D. Eleonora. So il costume.
Gherardo. Oibò. Di me parlate male.
Marchesa. V’è novitade alcuna?
Gherardo. Vi porto un madrigale.
D. Eleonora. Di chi?
Gherardo. Di chi? del Tasso.
D. Eleonora. Sarà una cosa bella.
Marchesa. Lo sentiremo?
Gherardo. Sì, lo sentirà ancor ella, (a donna Eleonora)
Lo leggerò. Sentite: Cantava in riva al fiume
Tirsi di Eleonora. Ei seguita il costume,
Combiando il proprio nome, dalli poeti usato;
Finge che Tirsi parli, e favella Torquato.
Marchesa. Basta così, non voglio sentir altro da voi;
Interpretar chi scrisse può solo i carmi suoi.
Nel leggere tai versi vi siete a me rivolto:
Quel che nel cuor pensate, vi si ravvisa in volto.
Apprezzo di Torquato il merito sublime;
Giust’è che l’uomo grande si veneri e si stime.
Sola non son che ammiri quel che risplende in lui;
A me non son per questo diretti i carmi sui.
Se parla il madrigale, se canta d’Eleonora,
Altre di cotal nome qui ve ne sono ancora. (parte)
SCENA XII.
Donna Eleonora e don Gherardo.
Se non è la Marchesa...
D. Eleonora. Chi sa ch’io non sia quella?
Gherardo. Esser vi piacerebbe dal poeta lodata?
D. Eleonora. Piaccion le lodi a tutti.
Gherardo. Bravissima, garbata.
Che uguagli il pregio eccelso di lodata beltà.
D. Eleonora. Voi parlate da scherno, io davver vi rispondo:
Torquato è tal poeta, che non ha pari al mondo.
Felice quella donna che di sue lodi è degna!
Egli co’ vivi carmi a rispettarla insegna.
Quantunque lusinghiera, nata di stirpe infida,
Desta amor, desta invidia all’altre donne Armida.
E Clorinda infelice, allor che langue e more,
In chi legge i bei carmi, desta pietade e amore.
Se lo scrittor felice di me formasse istoria,
Voi pur sareste meco a parte di mia gloria.
Ma il dolce madrigale non parlerà di me;
Son parecchie Eleonore: in Corte siamo tre.
L’una serve, egli è vero; di lei non canterà.
L’altra è amata dal Duca, rispettarla saprà.
Dir ch’io sia non ardisco; è ver, son maritata:
Ma puote in ogni stato la donna esser lodata, (parte)
SCENA XIII.
Don Gherardo solo.
Ha sovra il madrigale le pretensioni sue.
Dubito che sia peggio averlo letto; avea
Curiosità d’intendere... Ma so quel che sapea.
Non veggo a chi Torquato rivolga i suoi pensieri;
Ma so che ’l gradirebbe mia moglie volentieri.
Par che di gloria solo senta nel cuore il caldo:
Esser vorrebbe Armida, ma temo di Rinaldo.
Temo, che se Clorinda nell’eroismo eguaglia,
Non trovi il suo Tancredi, che la sfidi a battaglia.
Per lo più queste donne che leggono poemi,
Apprendono d’amore le leggi ed i sistemi.
Ma credo che Torquato lo voglia far per lui;
No, non sarà; sospetto aver non vuò, lo dico.
Della mia cara pace non voglio esser nemico.
Curiosità malnata, vanne da me repente;
Vuò, come dice il Tasso, passarla allegramente:
«E fra pochi sedendo a mensa lieta,
«Mescolar l’onde fresche al vin di Creta. (parte)
Fine dell’Atto Primo.