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416 ATTO PRIMO
Ed ei l’adulazione paga d’egual moneta,

L’un dando all’altro il nome d’altissimo poeta.
Si esaltan fra di loro, indi, non so il perchè,
Le satire d’accordo scaglian contro di me.

SCENA III.

Targa e detti.

Targa. Signor.

Torquato.   Che cosa c’è?
Targa.   Sua Altezza vi domanda.
Torquato. Sì, v’andrò quanto prima.
Gherardo.   Ite pur, s’ei comanda.
Per me non v’arrestate; v’attenderò curioso
Di saper che ha voluto.
Torquato.   (Eccolo qui il noioso:
Vuol saper tutto).
Targa.   Andiamo, che sua Altezza vi aspetta.
Torquato. Andrò
Targa.   Tosto vi vuole.
Torquato.   Anderò, non ho fretta.
Ah maledetto il punto, che in Corte io son venuto!
Venero il mio signore, ma a lui non mi ho venduto.
Giovin di quattro lustri venni invitato in Corte;
Sperai co’ miei sudori fabbricar la mia sorte.
Lo studio e la fatica riposo unqua non diemme,
Ott’anni ho consumati nella Gerusalemme;
E il mio signore, a cui l’opra sacrar si vede,
Qual diede a’ miei sudori generosa mercede?
Misero me! per lui faticato ho l’ingegno,
E d’un clemente sguardo appena mi fa degno.
Gli hanno i nemici miei avvelenato il cuore;
Mi tratta da nemico il Prence, il protettore.
Non so il perchè... può darsi... ma no, non è capace.
Facile ascolta, e crede... Chetati, labbro audace.