Torquato Tasso (Goldoni)/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Torquato e Targa servitore.

(a Targa)

Torquato. Vieni qui... la mia spada.
Targa.   Signor...
Torquato.   La spada mia.
(crescendo nello sdegno)
Targa. Con chi l’avete?
Torquato.   Presto.
Targa.   Questa è un’altra pazzia.
Torquato. Temerario.
Targa.   M’avete detto ch’io vi avvertisca,
Quando mi par, signore, che il cervello patisca.
Torquato. Ah, dell’ira si freni l’impeto micidiale.
Ritirati, per ora.

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Targa.   Sì signor, manco male. (si ritira)

Torquato. A sè mi chiama il Duca; fa che l’udienza aspette;
Prima di me all’udienza il Cavaliere ammette.
Entro: mi guarda appena; poi, con severo ciglio,
Che di Ferrara io parta dar mi vuol per consiglio.
Consiglio d’un sovrano, comando è in caso tale.
Stelle! si vuol ch’io parta? Che mai fatto ho di male?
È ver che d’una colpa porto macchiato il cuore;
Ma noto esser non puote il mio segreto amore.
E al mio signor, se note fosser le mie catene,
Quella per cui sospiro, a lui non appartiene.
Ma a figurar ragioni perchè invan m’affatico?
Il cuor del mio sovrano sedotto ha il mio nemico.
Perfido! a’ tuoi disegni troncar saprò la strada:
Targa, Targa.
Targa.   Signore.
Torquato.   Portami la mia spada.
Targa. La spada?
Torquato.   Sì, fa presto.
Targa.   Ecco qui, siam da capo.
Torquato. Non mi stancar.
Targa.   Badate, torna a girarvi il capo.
Torquato. Misero me! La bile sento che mi divora.
Targa. Un bicchier d’acqua fresca.
Torquato.   Vattene alla malora.
Targa. Un po’ di sangue...
Torquato.   Indegno, vanne, ch’io non t’ammazzi.
Targa. Comincio a dubitare che i poeti sian pazzi. (parte)

SCENA II.

Torquato solo, poi Targa.

Torquato. No, fuor di me non sono; no, non è questa mia,

Che m’agita e m’accende, dichiarata follia.
Ma giugnere all’eccesso potrebbe a poco a poco,
Se a spegner io tardassi nel sen dell’ira il foco.

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Amor, tu mi soccorri; porgimi, Amore, aita.

Oimè! dal mio nemico ho da impetrar la vita?
Sì, l’unico conforto son gli amorosi versi,
Dolce rimedio al cuore, benchè d’amaro aspersi.
Leggansi que’ poc’anzi all’idol mio diretti:
Divertasi la mente nel renderli corretti.
(va al tavolino cercando il madrigale)
Dov’è il foglio? Ma dove? Più nol ritrovo. Oimè!
Targa, Targa.
Targa.   Signore.
Torquato.   Il madrigal dov’è?
Targa. Il madrigal?
Torquato.   Sì, quello.
Targa.   Non so che cosa sia.
Torquato. Pochi versi rimati, una breve poesia.
Targa. Una pentola, un piatto vi darò, se ’l volete;
Ma se poesie cercate, a me non le chiedete.
Quando voi domandato m’avete il madrigale,
Credeva, con rispetto, voleste un orinale.
Torquato. Chi è stato qui?
Targa.   Nessuno.
Torquato.   Testaccia maledetta!
Dov’è il foglio? (lo prende per un braccio)
Targa. (Con timore) Nol so, non me n’intendo.
Torquato. (Lo lascia) Aspetta.
Stato v’è don Gherardo?
Targa.   Sì, don Gherardo, è vero.
Torquato. Egli l’avrà...
Targa.   Pigliato.
Torquato.   No, ch’egli è cavaliero.
Tu dei renderne conto. (lo afferra)
Targa.   Signor, per carità.
Torquato. Potrebbe averlo preso...
Targa.   Per sua curiosità.
Sapete pur ch’egli è curioso, curiosissimo.

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Torquato. Non è vano il sospetto.

Targa.   Sospetto fondatissimo.
Torquato. Cercami don Gherardo.
Targa.   Sì signore. (in atto di partire)
Torquato.   Ma no.
(L’amor per Eleonora come nasconderò?) (da sè)
Targa. Picchiano; con licenza.
Torquato.   Deh, non abbandonarmi.
Targa. Torno. (Mai più poeti, se giungo a liberarmi).
(da sè, e parte)

SCENA III.

Torquato solo, poi Targa.

Torquato. Del consiglio del Duca chi sa cagion non sia

Il madrigale, in cui svelo la fiamma mia?
Geloso è don Gherardo del nome d’Eleonora,
Geloso esser il Duca può di tal nome ancora.
L’uno la moglie, l’altro la favorita ha in cuore:
Ambi di me nemici resi da un solo amore.
Se mi dichiaro, acquisto d’uno la grazia, è vero;
Ma l’altro da me offeso sarà meco più fiero.
Parmi miglior consiglio lasciarli nell’inganno,
Dividere il sospetto, dividere l’affanno,
E procurar, per quanto potrà la forza mia,
Scacciar dell’un dell’altro dal cuor la gelosia.
Targa. Signor, siete richiesto.
Torquato.   Chi mi vuole?
Targa.   Una bella
Che chiamasi Eleonora.
Torquato.   Qual di lor? (con agitazione)
Targa.   La donzella.
Torquato. (Oimè, scuoter m’intesi tutte le fibre al petto), (da sè)
Targa. Cosa ho da dirle?
Torquato.   Aspetta. (pensando)

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Targa.   Picchiano.

Torquato.   Aspetta.
Targa.   Aspetto.
Torquato. Dille che venga.
Targa.   Bene. E quel ch’ora ha picchiato?
Torquato. Chi sarà?
Targa.   Lo vedremo.
Torquato.   Di’ che non son tornato.
Targa. Ho inteso, sì signore; mi basta una parola.
(L’amico coll’amica vuol star da solo a sola).
(da sè, e parte)

SCENA IV.

Torquato, poi Eleonora.

Torquato. Costei, che or viene a caso, giovi ai disegni miei;

Credasi che i miei carmi favellino di lei.
Ma io del mondo in faccia m’avvilirò a tal segno?
Anche all’onor del cuore provvederà l’ingegno.
Eleonora. Serva, signor Torquato.
Torquato.   Buondì, Eleonora bella.
Eleonora. Bella a me?
Torquato.   Bella a voi.
Eleonora.   Signor, io non son quella.
Tutto il bello ch’io vanto, è d’Eleonora il nome,
Ma non ho come l’altre bel viso e belle chiome.
Di signoria mi manca il prezioso onore,
Solo vantar mi posso di schiettezza di cuore;
Onde, se non per altro, almeno pel cuor mio
Degna di quattro versi potrei essere anch’io.
Torquato. (Don Gherardo indiscreto! Del madrigale è intesa), (da sè)
Eleonora. (D’esser un po’ lodata proprio mi sento accesa), (da sè)
Torquato. A queste stanze mie qual motivo vi guida?
Eleonora. Una question si brama, che da voi si decida.
Un certo madrigale parla d’Eleonora:

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Alcuno alla Marchesa l’applica, mia signora;

Alcun di don Gherardo alla consorte: ognuna
D’esser da voi stimata aspira alla fortuna;
E mandanmi da voi entrambe in confidenza,
A rilevar, se posso, l’arcano e la sentenza.
Torquato. Quel che nel sen racchiudo, non spiego con parole.
Dite alle due Eleonore, ch’elleno non son sole.
Eleonora. È ver, di cotal nome ve ne son altre ancora.
Per esempio, ancor io ho il nome d’Eleonora...
Ma da metter non sono in paragon di quelle.
Torquato. Gli occhi dell’uom son quelli che fan le donne belle.
L’amor, la tenerezza, il cuor d’affetti pregno,
Può far qualunque oggetto meritevole e degno.
Tutti siam d’una pasta, ed è mero accidente
Che una sia la padrona, e l’altra la servente.
Eleonora. È vero, è un accidente ch’io sia a servir costretta.
Nata son cittadina; mio padre era cornetta.
E a quel che dir intesi, mia madre, se non fallo,
Era di Magnavacca, o di Bagnacavallo.
M’hanno allevato sempre con tutta civiltà;
Mia madre praticava il fior di nobiltà,
E s’ella non moriva da certo mal di gola,
Avrei fatto fortuna sotto la di lei scuola.
Torquato. Forse da miglior sorte non siete assai lontana.
Eleonora. Se viveva mia madre, io sarei cortigiana.
Chi sa che non avessi in questa Corte anch’io
Un marito onorato qual era il padre mio?
Era da tutti amato. Facean finezze ognora
A lui, alla consorte e alla figliuola ancora.
Torquato. (Scorgesi l’ignoranza). (da sè) Restino i morti in pace;
Voi potrete finezze aver quante vi piace.
Eleonora. Da chi?
Torquato.   Da chi s’appaga del buon che in voi avete
Eleonora. Dite: son miei quei versi?
Torquato.   Vostri son, se volete.

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Eleonora. Capperi, chi potrebbe ricusare un tal dono?

Sono versi amorosi.
Torquato.   Ma in quelli io non ragiono.
Eleonora. Chi dunque?
Torquato.   Tirsi parla; Tirsi, ignoto pastore.
Eleonora. Eh, che voi siete Tirsi.
Torquato.   Chi ve lo dice?
Eleonora.   Il cuore.
Così quella foss’io, che il pastorello adora.
Torquato. Lo può sperar chi il merta.
Eleonora.   Chi lo merta?
Torquato.   Eleonora. (parte)

SCENA V.

Eleonora sola.

Ei me l’ha detto in modo, che quasi giurerei

Che fosse innamorato cotto de’ fatti miei.
Perchè no? già si sente che un uomo che ha studiato
Non guarda nella donna nè il sangue, nè lo stato;
Fuori di questo, a dirla, non son delle più brutte,
E fuor della ricchezza, ho anch’io quel che hanno tutte1.

SCENA VI.

Don Gherardo e la suddetta.

Gherardo. Or che non vi è Torquato, rimetterò... che vedo?

Che fate qui?
Eleonora.   Signore, gli altrui fatti non chiedo.
Gherardo. Via, via, non v’adirate. Chi vi manda?
Eleonora.   Nol so.
Gherardo. Vi manda la Marchesa?
Eleonora.   Signor sì, e signor no.
Gherardo. Come sarebbe a dire?

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Eleonora.   Come comanda lei.

Gherardo. Siate bonina un poco.
Eleonora.   Che vuol da’ fatti miei?
Gherardo. Se voi mi dite il vero, perchè qui vi trovate,
Uno scudo vi dono.
Eleonora.   Eh!
Gherardo.   Davver.
Eleonora.   Mi burlate.
Gherardo. Eccolo qui, tenete.
Eleonora.   Io vi prendo in parola.
Gherardo. Ecco, lo scudo è vostro.
Eleonora.   (M’ha preso per la gola), (da sè)
Gherardo. E ben, per qual motivo siete venuta qua?
Eleonora. Vi dirò, m’ha condotta certa curiosità.
Gherardo. Il vizio delle donne. E così?
Eleonora.   Mi premeva
Spiegato un madrigale, che ben non s’intendeva.
Gherardo. Qual madrigale?
Eleonora.   Un certo madrigale amoroso,
Composto da Torquato.
Gherardo.   Bello?
Eleonora.   Maraviglioso.
Gherardo. Come dice?
Eleonora.   Non so.
Gherardo.   Sarebbe questo qui?
Eleonora. Come principia?
Gherardo. Tirsi...
Eleonora. È quello2, signor sì.
Gherardo. Ma voi del madrigale come avete saputo?
Eleonora. La signora Marchesa m’ha detto il contenuto.
Cioè, a me non l’ha detto, ma colla vostra sposa
Intesi favellarne; era perciò curiosa
Di sentir da Torquato la vera spiegazione,
Per veder chi di loro aveva più ragione.

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Gherardo. E ben, ve l’ha spiegato?

Eleonora.   Me l’ha spiegato or ora.
Gherardo. Di chi parla il poeta?
Eleonora.   Parla d’Eleonora.
Gherardo. D’Eleonora parla, si sente, anch’io lo so.
Parla della Marchesa?
Eleonora.   Ho paura di no.
Gherardo. Ah sì, sì, sarà vero. Ardo di gelosia:
Torquato sarà acceso della consorte mia.
Questo è quel che s’acquista a prendere una sposa,
Che sia di bell’aspetto, disinvolta, graziosa.
A simili perigli, no, non si può star saldi:
La bile mi divora.
Eleonora.   Signor, la non si scaldi,
Che se il poeta nostro sente d’amore il foco,
Alla di lei consorte molto non pensa, o poco.
Gherardo. E a chi dunque?
Eleonora.   Vi basti saper che non è quella.
Gherardo. Ma chi sarà?
Eleonora.   Non so.
Gherardo.   Ditelo, gioia bella.
Ditelo a me.
Eleonora.   Non posso.
Gherardo.   Un altro scudo.
Eleonora.   Eh via.
Gherardo. Eccolo, ve lo dono.
Eleonora.   Grazie a vossignoria.
Gherardo. E così?
Eleonora.   Deggio dirlo?
Gherardo.   Sì, saperlo desio.
Eleonora. Sa chi è la favorita?
Gherardo.   Dite chi è?
Eleonora.   Son io.
(fa una riverenza, e parte)

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SCENA VII.

Don Gherardo, poi Torquato.

Gherardo. Come! sentite, dite: par ch’abbia ai piedi l’ale.

Vorrei saper... due scudi, affè, li ho spesi male.
Può darsi che Torquato sia acceso di costei;
Ma come, quando, dove... tutto saper vorrei.
Eccolo ch’egli viene. Ripongo il madrigale.
Che cos’è questo scritto? qualch’altro originale?
Tondo è il ricco edificio... Vuò ricavar da lui...
Torquato. Signor, chi v’ha insegnato guardare i fatti altrui?
Gherardo. Compatite: v'è noto ch’io son de’ versi amante,
Stimo le cose vostre d'ogn'altra cosa innante.
Quella che qua mi porta, non è curiosità;
E amicizia, è3 passione...
Torquato.   Unita a inciviltà.
Gherardo. Voi m’offendete, amico, parlandomi così.
Torquato. Dov’è il mio madrigale?
Gherardo.   Il madrigale è qui.
Torquato. A voi chi diè licenza levarlo da quel loco?
Gherardo. Con un par mio, Torquato, voi eccedete un poco.
Torquato. Libero a tutti parlo, se so d’aver ragione.
Non porterei rispetto in tal caso al padrone.
Gherardo. Spiacevi che si sappia l’amor che in sen nutrite?
Torquato. Qual amor? io non amo.
Gherardo.   Eh, che si sa.
Torquato.   Mentite.
Gherardo. Una mentita a me? Vi corre un bel divario...
Torquato. Perdonate il trasporto; lo so, fui temerario;
Ma i primi moti in seno frenar non mi è permesso.
Gherardo. Dell’amicizia in grazia, vi perdono ogni eccesso.
Basta che in ricompensa di mia benevolenza,
Non ricusate almeno farmi una confidenza.
Qual sia quella che amate, da voi saper io bramo.

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Torquato. Amico, questo tasto, pregovi, non tocchiamo.

Gherardo. Vi compatisco; in fatti, un uomo come voi,
Impiegar non dovrebbe sì mal gli affetti suoi.
Torquato. (M’annoia). (da sè)
Gherardo.   Un uom dotto, di meriti ripieno,
Amar femmina vile?
Torquato.   (Or or disciolgo il freno), (da sè)
Gherardo. Ma l’amate davvero?
Torquato.   Basta, per carità.
Gherardo. Ditemi sì o no, almen per civiltà.
Torquato. Di quel che a voi non preme, siate curioso meno.
Gherardo. Alfin non è gran cosa. Ditemi il ver.
Torquato.   Son pieno.
Gherardo. D’amor per la ragazza?
Torquato.   Di rabbia e di dispetto.
Gherardo. Via, sfogatevi meco.
Torquato. (Che tu sii maladetto). (da sè)
Gherardo. Confidatevi a me.
Torquato.   Voi stuccato m’avete.
Voi, signor, m’annoiate.
Gherardo.   Una bestia voi siete.
Torquato. Cessate, don Gherardo, di rendermi molestia,
O vi darò ragione di chiamarmi una bestia.
Gherardo. Siete un ingrato.
Torquato.   È vero. (fremendo)
Gherardo.   Un incivile.
Torquato.   Sì.
Gherardo. Un mentecatto.
Torquato.   Ancora.
Gherardo.   Un vil.
Torquato.   Basta così. (minacciandolo)
Avvezzo a tali insulti Torquato unqua non fu.
Gherardo. Vado via.
Torquato.   Sarà bene.
Gherardo.   E non ci torno più.

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Torquato. Meglio assai.

Gherardo.   Dell’affronto me ne ricorderò.
Torquato. Quando si va, signore?
Gherardo.   Mai più ci tornerò.
(in atto di partire)

SCENA VIII.

Targa e detti.

Targa. Signore, un forestiero favellarvi desia.

Torquato. Si trattenga un momento.
Gherardo.   Dimmi: si sa chi sia? (a Targa)
Targa. Parmi napolitano.
Gherardo.   Quand’è arrivato?
Targa.   Ieri.
Torquato. Vattene. (a Targa, che parte)
Gherardo.   (Son curioso. Resterei volentieri). (da sè)
Torquato. Signor, ricever devo, se mi date licenza,
Il forestier.
Gherardo.   Servitevi con tutta confidenza.
Torquato. Può esser ch’ei non voglia per or conversazione.
Gherardo. Venga, parli; il sapete, io non do soggezione.
Torquato. Lo vo’ ricever solo. Ve l’ho da dir cantando?
Gherardo. Voi mi mandate via.
Torquato.   Sì signore, vi mando.
Gherardo. So che scherzate, amico, perciò non me n’offendo:
Dovete restar solo, è ver, non lo contendo.
Ma quando il forestiere sia stato un pezzo qui,
Potrò venire allora?
Torquato.   Signor no.
Gherardo.   Signor sì. (parte)

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SCENA IX.

Torquato solo.

La sofferenza mia giunta parmi all’eccesso.

Fuori per l’atra bile soglio andar di me stesso.
Sentiami nell’interno moti violenti e strani,
Poco mancò non abbia adoprate le mani.
Chi è di là? s’introduca il forestier. Che vedo?
Don Gherardo con lui? sarà suo amico, io credo.

SCENA X.

Don Fazio, don Gherardo e detto.

Gherardo. Venite pur, signore...

Fazio.   Schiavo allo sì Torquato.
Gherardo. Vedrete un uomo grande. (a don Fazio)
Fazio.   Voi m’avete frusciato.
(a don Gherardo)
Torquato. Signor, lo conoscete quel ch’è con voi venuto?
(a don Fazio)
Fazio. Da che l’ho dato a balia, più non l’aggio veduto.
Torquato. Don Gherardo, da voi dunque si spera invano...
Gherardo. Aspettate un momento. (a Torquato) Siete napolitano?
(a don Fazio)
Fazio. Sì signore.
Gherardo.   Non pare: non siete caricato
Nelle parole vostre.
Fazio.   Aggio un poco viaggiato.
Torquato. Ehi! chi è di là? sediamo.
Gherardo.   Voglio seder vicino...
Torquato. Don Gherardo...
Gherardo.   Per grazia, soffritemi un pochino.
Torquato. (Di rompergli la faccia prurito ora mi viene.)
Ah, si freni la collera. Non facciamo altre scene).
(da sè, siedono)

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Fazio. Tu sei, Torquato mio, in Sorriento nato;

In Napole t’aveva lo patre generato;
Sia per l’un, sia per l’autro, chiaro se bide e chiano,
Tasso, non v’è che dicere, tu sei napoletano.
Gherardo. Dicon sia bergamasco...
Torquato.   Chetatevi un momento.
Fazio. Da Bergamo è lo patre, la matre da Sorriento.
In casa della mamma è nata chissa gioia;
Quella però se dice che sia la patria soia.
Torquato. Signor, sul nascer mio niuno finor pretese;
Merto non ho che vaglia a risvegliar contese.
Misero qual io sono dagli Itali non spero
L’onor ch’ebbe da’ Greci il combattuto Omero:
Anzi che s’abbia a dire paese sfortunato,
Temo, per mia cagione, quello dov’io son nato.
Fazio. Sanno i Napoletani, sa tutta la cettate,
Che tu se’ sfortunato, che vivi in povertate.
I parenti, li amici, el popolo t’invita
A passà, bene mio, chiù meglio la to vita.
Gherardo. Ei non potrà venire, perchè in Corte impegnato.
Fazio. Uh, managgia la mamma porzì che t’ha figliato.
Gherardo. Bravo; così lo stile di Napoli si sente4.
Torquato. Voi meritate peggio. (a don Gherardo)
Gherardo.   Non me n’offendo niente.5
Fazio. Vieni, Torquato mio, vieni alla città bella:
Non essere chiù ingrato all’amore di quella.
Sarai lo ben veduto da principi e marchesi,
Avrai delli carlini, avrai delli tornesi;
Songo per te venuto; viene con meco...
Gherardo.   Io dubito
Ch’egli non ci verrà.
Fazio.   Possa morì de subito, (a don Gherardo)
Gherardo. Obbligato, signore.

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Torquato.   Siete ancora contento? (a don Gherardo)

Gherardo. È de’ Napolitani solito complimento.
Fazio. Vedrai la gran cittate, ch’ogni cittate avanza,
De popolo ripiena, ripiena d’abbonnanza.
Abbonna de persone nobile e vertuose,
D’omeni letterati, di femmine graziose.
Tutti con braccia apierte là stannote aspettanno.
Ciascun se sente dicere, quanno l’avrimmo, quanno?
Dimme, verrai tu meco?
Gherardo.   Non ci verrà, signore.
Fazio. Che te venga lo canchero in mezzo dello core.
Gherardo. Ecco un’altra finezza. (a Torquato)
Torquato.   Finezza a voi dovuta.
Fazio. Possa essere accise (a don Gherardo)
Gherardo.   Sentite? mi saluta, (a Torquato)
Fatemi grazia almeno di dirmi, in cortesia,
Giacchè tanto mi onora, chi è vossignoria?
Fazio. M’hai frosciato abbastanza: te possano pigliare
Tanti cancheri quante le arene dello mare.
Lo fulmene te possa piglià tra capo e cuollo;
Te possa soffocà le fiamme de Puzzuollo;
Possa crepà con tutte porzì le imprecazioni
De tutti i mareiuoli, de tutti i lazaroni;
E quanno sarà ito in braccio a Belzebù,
Poss’essere scannato un’atra vouta, e chiù. (parte)

SCENA XI.

Torquato e don Gherardo.

Gherardo. Chiamatelo, chiedete se nulla si è scordato.

Torquato. Dirò, senza di lui, che siete uno sguaiato.
Non si tratta così, di voi mi maraviglio;
Oprate senza senno, senz’ombra di consiglio.
Sempre da voi mi tocca soffrir ingiurie nove.
Quel forestier mi preme. Andrò ad udirlo altrove, (parte)

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Gherardo. Va in collera Torquato, ma poi è amico mio:

Bel bello il forestiere vuò seguitare anch’io.
Dai termini si sente ch’egli è napolitano,
Però non si distingue se nobile o villano.
Voglio saper chi è, sono curioso in questo:
Bestemmi, maledica, voglio sapere il resto. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.

  1. Zatta: Eccetto le ricchezze, ho dote pari a tutte.
  2. Zatta: è questo.
  3. Zatta: e.
  4. Questo verso manca nell’ed. Zatta.
  5. Segue nell’ed. Zatta questo verso: «Torquato. Di mia sofferenza voi abusate sovente