Tito Andronico/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
La stessa. — Dinanzi al palazzo.
Entra Aaron.
Aar. Ora Tamora sale alle cime dell’Olimpo, lunge dai dardi della fortuna; ora ella non teme nè i fuochi del lampo, nè gli scrosci della folgore; ora è al disopra degli assalti minacciosi della pallida invidia. Simile al sole, quando saluta l’aurora, e indorando l’oceano co’ suoi raggi percorre lo zodiaco nel suo carro raggiante, e vede al disotto di sè la cima dei monti più alti; tale è oggi Tamora. Tutte le grandezze della terra rendono omaggio al genio suo ed alla sua fortuna; la virtù s’umilia e trema all’aspetto della sua fronte imperiosa. Animo, Aaron; afforza il tuo cuore e disponiti ad innalzarti colla tua regal signora, e ad attingere le altezze ove ella regna: lungo tempo tu l’hai trascinata in trionfo sull’orme tue, prigioniera nei lacci d’amore; più tenacemente avvinta agli sguardi di Aaron che non lo era Prometeo alle rupi del Caucaso. Lungi da me queste vesti da schiavo; lungi gli umili e inutili pensieri. Vuo’ risplendere e scintillare d’oro e di perle, per servire la mia nuova sovrana. Che dissi io? Servire? Per inebbriarmi di piacere con lei, regina vera, vera dea, vera Semiramide; sirena incantatrice che ammalierà il Saturnino di Roma, e assisterà al suo naufragio, e a quello de’ suoi dominii. — Che romore odo io?
(entrano Chirone e Demetrio contendendo)
Dem. Chirone, la tua giovinezza difetta di spirito, il tuo spirito non è abbastanza educato, nè buone maniere hai tu per introdurti laddove io sono bene accolto, e dove posso, lo sai, ispirare amore.
Chir. Demetrio, petulante troppo in tutto tu sei, e specialmente nel credere di avvilirmi colle tue parole: non è la differenza di un anno o due che possa rendermi meno gradevole, o render te più fortunato: ho tutto quello che mi abbisogna per servire al pari di te la mia signora, e ottenerne le grazie; la mia spada te lo proverà e difenderà i dritti miei all’amore di Lavinia.
Aar. Armi, armi! Questi amanti non manterran la pace.
Dem. Garzone, perchè mia madre ti permise di portare una spada, sei tu fatto tanto temerario da minacciare gli amici tuoi? Va a configgere questa lama nel fodero, fino a che imparato abbi a trattarla meglio.
Chir. Intanto con quella poca perizia che possiedo, tu conoscerai fin dove si estenda il mio coraggio.
Dem. Sei tu divenuto tanto prode? (sguainano le spade)
Aar. Ebbene, signori? Osate voi snudare le spade, a sì piccola distanza dal palazzo dell’imperatore, e porvi insieme in disperata contesa? Io ben conosco la sorgente di tale animosità; nè vorrei per un tesoro che fosse nota a quelli cui più interessa; nè per ogni prezzo del mondo che la vostra illustre madre fosse così disonorata nella corte di Roma. — Per vergogna, riponete le armi.
Dem. Non io, prima che immersa non l’abbia nel suo petto, o fatto non gli abbia disdire le ingiuste parole, che con mio disonore ha profferite.
Chir. E risoluto del pari io sono. Un vile, un codardo è colui che tuona colla lingua, e col braccio non osa nulla compiere.
Aar. Via, dico. — Per gli Dei che i guerrieri goti adorano, un’insensata contesa ne condurrà in rovina. — Signori, non sapete quanto è periglioso il discutere i diritti di un principe? Lavinia è forse sì negletta, o Bassanio sì corrotto, che possiate muovere tali risse per l’amore di lei, senza affrontare tremendi ostacoli e feroci vendette? Giovani, siate cauti! Se l’imperatrice sapesse la cagione di tal discordia, sdegnata ne sarebbe.
Chir. Non mi cale ch’essa la sappia, non che tutto il mondo; io amo Lavinia più dell’universo.
Dem. Fanciullo, impara a scegliere più umilmente: Lavinia è la speranza del tuo maggior fratello.
Aar. Siete voi insensati? fingete ignorare come avvampino di furiosa gelosia questi Romani? Io ve lo dico, principi, voi vi esporrete a certa morte con tal pazzo amore.
Chir. Mille morti, Aaron, affronterei per possedere quella che io amo.
Aar. Per possederla! E come?
Dem. A che tanta meraviglia? Ella è una donna, e può essere amoreggiata; è una donna, e può esser vinta; è Lavinia, e deve essere amata. Ite, ite; scorre più acqua pel mulino che non ne vegga il mugnaio, e ben sappiamo quanto facile sia il levare una tegola dal tetto senza che niuno se ne accorga. Sebbene Bassanio sia fratello dell’imperatore, uomini da più di lui han portate l’emblema di Vulcano.
Aar. (a parte) Sì, anche uomini grandi come Saturnino potrebbero portarlo.
Dem. Perchè dunque dispererebbe di un buon successo quegli che sa far la sua corte con dolci parole, con teneri sguardi e ricchi doni? Non avete voi di sovente uccisa una damma, e rapitala dinanzi agli occhi del guarda-boschi?
Aar. E’ pare che qualche furto amoroso dovesse rendervi felice.
Chir. Sì, certo.
Dem. Hai colpito nel segno.
Aar. Vorrei che voi pure ciò fatto aveste, onde non fossimo più così tribolati dalle vostre contese. Ascoltatemi, ascoltatemi. Siete voi tanto pazzi da venirne a contesa per simili motivi? Un mezzo che vi facesse riescire entrambi vi offenderebbe?
Chir. Non me, in verità.
Dem. Nè me, purchè la mia parte avessi.
Aar. In nome della vergogna, siate amici, e unitevi per l’oggetto che vi fa discordi. È la dissimulazione e l’astuzia che debbono farvi ottenere quello che tanto desiderate. Ricordatevi della massima, che convien fare come si può, nè far si può come si vuole. Apprendete ciò da me: Lucrezia non fu più casta che nol sia questa Lavinia, adorata da Bassanio. Battere dovete quindi un’altra via più rapida; io vi additerò il cammino che seguir bisogna. Principi, si appresta una regal caccia: le bellezze romane vi accorreranno in folla; i viali della foresta son larghi e spaziosi, e hannovi ridotti solitarii che la natura sembra aver fatti apposta per la frode e pel ratto; traete in uno di quei ricoveri la vostra agile damma, e se le parole sono inutili usate la violenza. Sperate il successo con tal mezzo, o rinunciate ad ogni speranza. Noi istruiremo la nostra imperatrice e il suo genio consacrato al delitto e alla vendetta, di tutti i disegni che meditiamo, ed ella saprà coi suoi consigli togliere gli ostacoli e facilitare i mezzi della nostra impresa: nè tollererà che veniate a litigi, e vi guiderà entrambi al colmo dei vostri voti. La Corte dell’imperatore rassomiglia al tempio della Fama, il suo palazzo è pieno d’occhi, d’orecchie e di lingue; i boschi al contrario sono spietati, insensibili, sordi, spaventosi. È là, egregi giovani, che parlar conviene, che ferire bisogna; disfogate là la vostra passione, non rischiarati dall’occhio dei cieli, e saziatevi liberamente dei tesori di Lavinia.
Chir. Il tuo consiglio, amico, non sente di viltà?
Dem. Sit fas, aut nefas, fino a che io trovi il ruscello che calmar possa l’ardore del mio sangue, o il prestigio che mi disamori, per Stygia, per manes vehor. (escono)
SCENA II.
Una foresta vicino a Roma. — Si vede una capanna in distanza; odonsi corni e latrati di mute.
Entrano Tito Andronico, con alcuni cacciatori, Marco, Lucio, Quinto e Marzio.
Tit. La caccia è incominciata; il mattino è splendido e puro; i campi sono profumati; i boschi verdi e freschi; sciogliamo qui le mute, e facciamole latrare sì che risveglino l’imperatore e la sua amabile sposa e il prìncipe suo fratello: uniamovi quindi anche uno squillo di corni tanto penetrante, che tutta la Corte ne risuoni. Miei figli, assumete insieme con noi la cura di guidare e di proteggere Sua Maestà. Fui turbato questa notte nel mio sonno da terribili visioni. Ma il dì nascente ha riconfortato il mio cuore. (alto squillo di corni; entrano Saturnino, Tamora, Bassanio, Lavinia, Chirone, Demetrio e seguito) Buon giorno a Vostra Altezza! E a voi anche, madonna! Io vi aveva promesso di risvegliarvi colle mie trombe.
Sat. E fatto lo avete con grande ardore. Forse un po’ troppo mattutinamente per persone accoppiatesi da poco.
Bas. Lavinia, che ne dite voi?
Lav. Io non mi dolgo; da più di due ore era interamente desta.
Sat. Su via; ci si conducano i carri e i cavalli, e andiamo ai nostri diporti. Signora (a Tam.), ora vedrete la nostra caccia romana.
Mar. Io posseggo cani che atterreranno la più feroce pantera, e che salir sapranno sino alla cima del più alto promontorio.
Tit. Ed io ho un cavallo che seguirà le mute dapertutto, e che sfiorerà le pianure colla prestezza della rondinella.
Dem. Chirone, noi non caccieremo con cavalli e cani, eppure farem forse la più bella caccia. (escono)
SCENA III.
Una parte deserta del bosco.
Entra Aaron con un sacco d’oro.
Aar. Un uomo di senno crederebbe ch’io senno non avessi, seppellendo tant’oro sotto un’albero per non mai possederlo; ma chi concepisce di me sì trista opinione, sappia che da quest’oro verrà una bella scelleratezza. Giaciti dunque qui, dolce oro, per togliere il piacere di giacere a quelli che ti troveranno: (nascondendo l’oro) se il forziere dell’imperatore ti ascose, ora ti asconda una zolla. (entra Tamora)
Tam. Mio amabile Aaron, perchè sei tu sì mesto, allorchè ogni cosa sorride intorno a te? Sovra ogni cespo gli uccelli cantano arie melodiose; il serpe screziato dorme ai raggi del sole, e un zeffiro purificatore scuote dolcemente le verdi frondi, le cui mobili ombre si disegnano sopra la terra. Assidiamoci, Aaron, in mezzo a tante armonie; e mentre l’eco loquace si piace nel far deviare le mute, ripetendo con la stridula voce i suoni dei corni, come se si udissero in pari tempo gli strepiti di una doppia caccia, riposiamoci ed ascoltiamo in silenzio il romore di quei latrati; e dopo una lotta d’amore, come quella di cui già un tempo Didone e il suo principe errante gustarono, dicesi, le delizie, allorchè sorpresi da una fortunata tempesta si rifuggirono all’ombra di una grotta discreta, noi potremo tutti due allacciati fra le braccia l’un dell’altro assaporare un lieto sonno, e le voci dei cani, dei corni e degli uccelli saranno per noi quel che è la canzone della nudrice al suo roseo lattante.
Aar. Madonna, se Venere governa i desiderii vostri, Saturno regge i miei, come possono chiarirvelo il mio occhio feroce, il mio silenzio e la mia grave malinconia. La lana della mia chioma, che incolta scende come un serpe che si svincola per porre ad esecuzione un funesto disegno, vi parla forse d’amore? No, madonna, in ciò voi non vedete alcun segno amoroso. La vendetta è nel mio cuore, la morte nelle mie mani; la mia mente non si pasce che in propositi di sangue. Udite, Tamora, sovrana della mia anima, che non spera altro cielo che la felicita di possedervi; questo è il giorno fatale per Bassanio; in questo giorno è forza che la sua Filomela perda la lingua, e che i figli vostri depredino i tesori della sua castità, e tuffino le loro mani nel sangue del di lei sposo. Vedete questa lettera? Prendetela, ve ne prego, e datela all’imperatore; essa compirà una gran trama. — Non movete ora dimande; noi siamo spiati; veggo avvanzarsi verso di noi una parte della nostra preda che ignora qual pericolo la minacci.
Tam. Ah mio caro moro, a me più caro della vita!
Aar. Basta, bella imperatrice. Bassanio viene; suscitategli una contesa, qual che ne sia il soggetto; ed io guiderò i vostri figli per sostenervi. (esce; entrano Bassanio e Lavinia)
Bas. Chi troviamo noi qui? È forse la sovrana di Roma divisa dal suo fulgido corteggio? O è Diana che vestita come lei ha abbandonati i sacri suoi boschi per venire a godere in questa foresta dello spettacolo della caccia?
Tam. Insolente delatore dei nostri segreti diporti, se il potere avessi che si attribuisce a Diana, la tua fronte sarebbe tosto ornata da quegli istrumenti che escirono dalla testa d’Atteone, e i cani darebbero la caccia alle tue membra trasformate. Così io ben ti punirei della tua audacia.
Lav. Con vostra licenza, gentile imperatrice, voi siete riputata tanto liberale dei vostri doni, che ben si potrebbe sospettare che foste venuta in luogo appartato per dare novelli saggi di voi. Giove preservi oggi il vostro consorte dai latrati delle mute! Sventura sarebbe ch’esse lo scambiassero in un cervo.
Bas. Credetemi, regina, il vostro nero Cimmerio tinge il vostro onore col suo colore impuro e abbominevole. Perchè vi siete voi così allontanata da tutto il vostro seguito e discesa siete dal vostro bel corridore bianco come la neve, onde errare per questi deserti con disegni occulti, accompagnata da un barbaro moro, se condotta non vi siete stata da impuri desiderii?
Lav. E veggendo interrotti i vostri sollazzi, giusto è bene che diate al mio nobile sposo nota d’insolenza. — Or ve ne prego (a Bas.), lasciamo questi luoghi e facciamo ch’ella goder possa a suo senno del suo negro corvo; questa valle si addice a meraviglia ai suoi desiderii.
Bas. L’imperatore mio fratello sarà istrutto di ciò.
Lav. Sì, perchè tali ignominie l’han disonorato anche troppo. Quel buon imperatore è indegnamente ingannato.
Tam. Come ho io pazienza per sopportar tanto?
(entrano Chirone e Demetrio)
Dem. Ebbene, cara sovrana, amata madre; perchè siete sì pallida e concitata?
Tam. Non ne ho io donde? Questi due nemici mi hanno attirata in questo luogo orribile e deserto, dove gli alberi anche in estate sono sfrondati e pieni d’insetti malefici, dove mai il sole non penetra per dissiparvi l’orrore, dove nulla è di vivo tranne il notturno gufo e il funesto corvo; e mostrandomi questo orribile abisso mi han detto che qui, durante la notte profonda, mille spettri nemici, mille serpi fischianti, mille rospi velenosi ed altrettanti rettili tremendi fanno uno strepito di discordi voci che getterebbero nel delirio, o colpirebbero di subita morte ogni mortale che gli udisse. Dopo avermi atterrita con tal racconto, minacciata mi hanno di attaccarmi al tronco di un albero, e di abbandonarmi alla più crudel morte; e quindi appellandomi infame adultera, mi offendevano con tutti i nomi più obbrobriosi che mai orecchio umano ascoltasse. Se una felice strana ventura non vi avesse qui condotti, compita avrebbero su di me la loro vendetta. Vendicatemi or voi dunque, se amate vostra madre, o vostra madre vi rifiuta per sempre il nome di figli suoi.
Dem. Questo colpo attesti ch’io figlio ti sono.
(trafigge Bassanio)
Chir. E questo valga a dire per me lo stesso.
(del pari trafiggendolo)
Lav. Oh Semiramide!... no anzi barbara Tamora, perocchè niun nome ti si addice meglio del tuo.
Tam. Datemi il vostro pugnale, e vedrete, miei figli, come vostra madre sappia vendicare le offese fatte alla madre vostra.
Dem. Fermatevi, signora: ad altre vendette agogniamo. Battiamo prima il grano, e poscia bruciam la paglia. Questa superba fonda l’orgoglio suo sulla castità, sul suo voto nuziale, e fiera di tali apparenze disprezza la Maestà Vostra. Dovrà ella recar con sè tai tesori nella tomba?
Chir. Se ella ve li trasporta vuo’ mi si renda eunuco. Trasciniamo il cadavere del suo sposo lunge di qui, e origliere ei divenga a’ nostri amori.
Tam. Ottenuto che avrete il miele che desiderate, questa vespa non sopravviva per pungerne tutti.
Chir. Vi prometto, signora, di metterla fuor di stato di nuocere. — Su via, madonna, la violenza ne farà godere di quell’onore sì scrupolosamente mantenuto.
Lav. Oh Tamora! tu hai volto da donna...
Tam. Non vuo’ udirla parlare, guidatela via.
Lav. Dolci signori, supplicatela perchè ascolti la mia parola.
Dem. Uditela, bella regina, e sia vostro trionfo il vedere sgorgare le sue lagrime, senza che il vostro cuore ne resti scosso.
Lav. Quando mai i figli della tigre insegnarono la crudeltà alla loro madre? Oh! non ammonire la sua rabbia: fu essa che ti ispirò la tua. Il latte che tu hai succhiato dal suo seno si è cangiato in marmo; dalle sue mammelle tu non estraesti che crudeltà. — Nondimeno non tutte le madri partoriscono figli a loro simili. Pregala tu, te ne scongiuro (a Chir.), a mostrare cuore di donna.
Chir. Vorresti che mi dichiarassi figliuolo illegittimo da me medesimo?
Lav. È vero che il corvo non genera l’allodola; ma pure ho inteso dire (e credo ora sia vero) che il leone tocco di pietà permetta gli si recidano gli artigli. Si dice anche che i corvi alimentano i nati d’altri uccelli rimasti orfani, intantochè i loro proprii languono famelici nel nido. Sii per me, malgrado il tuo cuor duro, non tanto buono, ma un tal poco pietoso.
Tam. Non comprendo quel che voglia dire; guidatela via.
Lav. Oh! lascia ch’io t’insegni la pietà per amore del mio padre che ti fe’ dono della vita quando era signore di toglierla: non indurirti contro la mia preghiera; apri il tuo orecchio a queste voci dolorose.
Tam. Quand’anche oltraggiato non mi avessi, il nome di tuo padre basterebbe a rendermi spietata. — Ricordatevi, figli miei, che le mie lagrime sgorgarono invano per salvare il fratel vostro da barbaro sacrifizio. Il crudo Andronico non volle intenerirsi: guidatela via, quindi usatene come vi piace; più l’oltraggerete e più sarete amati da vostra madre.
Lav. Oh! Tamora, acquistati nome di mite regina, uccidendomi qui colle tue mani; perocchè non è la vita ch’io ti chieggo, che perduta ho, sventurata, fin da quando rimase ucciso Bassanio.
Tam. Che dimandi dunque? Donna insensata, lasciami.
Lav. Una subita morte dimando, ed anche una cosa che il pudore m’impedisce di proferire. Ah! salvami dai furori della loro passione, e seppelliscimi in qualche orrendo abisso dove mai l’occhio dell’uomo mirar possa il mio corpo. Concedimi tal grazia, e sii un’ucciditrice pietosa.
Tam. Così frustrerei i miei figli della loro mercede: vuo’ che essi sfoghino i loro desiderii.
Dem. Vieni, già troppo rimanesti.
Lav. Niuna grazia? Non è in te alcun sentimento di donna? Ah! femmina iniqua, obbrobrio eterno, obbrobrio del nostro sesso, i mali tutti possano...
Chir. Io le chiuderò la bocca: tu trascina il di lei sposo: (guidando via Lavinia) questo è il luogo dove Aaron ci disse di nasconderlo. (escono)
Tam. Addio, miei figli: pensate a bene assicurarcene. Non mai il mio cuore gusti alcun sentimento di gioia fino a che l’intera schiatta degli Andronici non sia distrutta. Ora vuo’ ire in traccia del mio nobile moro, e lasciare che i miei figli facciano cencio di quell’indegna. (esce)
SCENA IV.
La stessa.
Entra Aaron con Quinto e Marzio.
Aar. Venite, signori; mettete innanzi il piede più fermo; vi condurrò fra breve all’odiosa fossa dove ho scoperta la pantera profondamente addormita.
Quin. La mia vista è oscurata assai, qual che ne sia il presagio.
Mar. E la mia pure, ve lo dichiaro; se vergogna non fosse dormirei volentieri un poco. (cade entro la fossa)
Quin. Sei tu caduto? Qual precipizio pericoloso è mai questo la di cui bocca è coperta di spine tinte di un sangue novellamente sparso, e fresco come la rugiada del mattino distillata sui fiori? Questo luogo mi sembra fatale. — Parlami, fratello, ti sei tu ferito nella tua caduta?
Mar. Oh! fratello, sono ferito dalla vista del più tristo oggetto che mai facesse gemere un cuore.
Aar. (a parte) Ora andrò in traccia dell’imperatore, e lo condurrò qui ond’ei li trovi, ed abbia con ciò indizio che essi sono, che ucciso hanno il di lui fratello. (esce)
Mar. Perchè non mi esorti e non mi aiuti tu a ritrarmi da questo infame luogo, tutto lurido di sangue?
Quin. Mi sento compreso da un terror sovrumano; un sudor gelido bagna le mie membra tremanti; il mio cuore imagina più orrori che non ne veggano i miei occhi.
Mar. Per provarti che il tuo cuore si appone al vero, drizza insieme con Aaron il tuo occhio in fondo a questa caverna, e mira un tremendo spettacolo di morte.
Quin. Aaron è partito, e il mio cuore compreso di pietà non può permettere a’ miei occhi di riguardare l’oggetto di cui il sospetto solo mi atterrisce. Fammene tu la descrizione; non mai prima d’ora era stato tanto fanciullo da restare impaurito senza sapere di che.
Mar. Il principe Bassanio giace come un agnello sgozzato in quest’antro orribile e tenebroso.
Quin. Se tenebroso è, come hai potuto tu riconoscerlo?
Mar. Da un suo dito insanguinato cui cinge un anello prezioso, i fuochi del quale rischiarano tutta questa profondità, come una lampada sepolcrale risplende in un monumento sui volto terreo degli estinti. — Oh! fratello, aiutami colla debole tua mano... se il timore non ti ha reso vacillante com’io sono... aiutami ad escire da questa fatal voragine, odiosa come la bocca del nero Cocito.
Quin. Tendimi la destra sì ch’io t’aiuti... o, se la forza mi manca, perch’io sia trascinato dal tuo peso in seno a questo abisso, tomba dello sfortunato Bassanio. Ah! forza non ho per tirarti fino a me.
Mar. Nè forza ho io per salire senza il tuo soccorso.
Quin. Dammi di nuovo la mano; non più la lascierò se tu non sia fuori, od io teco nel fondo. Tu non puoi venir meco, ecco ch’io dunque ti raggiungo. (cade egli pure dentro la fossa; entrano Saturnino e Aaron)
Sat. Venite meco; vuo’ veder questa caverna e chi è quegli che vi è caduto dentro. — Parla; chi sei tu che scendesti nelle viscere della terra?
Mar. Lo sfortunato figlio del vecchio Andronico, venuto qui nell’ora più fatale per trovarvi il tuo fratello Bassanio morto.
Sat. Il mio fratello morto? Tu non dici da senno. Egli è colla sua sposa verso il nord della foresta, entro una bella abitazione. Non è per anche un’ora ch’io vel lasciai.
Mar. Noi non sappiamo dove l’abbi lasciato vivo; ma qui, oimè! lo trovammo estinto. (entra Tamora con seguito, Tito Andronico e Lucio)
Tam. Dov’è il mio sposo, l’imperatore?
Sat. Qui, Tamora; ma oppresso da un dolore di morte.
Tam. Dov’è il tuo fratello Bassanio?
Sat. Ora voi toccate con aspra mano la mia ferita; l’infelice Bassanio giace costà assassinato.
Tam. Dunque troppo tardi io vi reco questo fatale scritto, (dandogli una lettera) dove è esposta la trama di questa infausta tragedia. Stupita sono che un uomo possa celare sotto un sorriso grazioso tanta ferità e barbarie.
Sat. (legge) «Se mancheremo di raggiungerlo a tempo, destro cacciatore, (è di Bassanio che intendiamo) pensa soltanto a scavare una tomba per lui; tu c’intendi. — Va poscia a ricercare la tua ricompensa fra le ortiche che crescono a’ pie del vecchio albero, che fa ombra alla bocca di quella medesima fossa: e sii certo che con ciò avrai in noi eterni amici». Oh! Tamora, si udì mai più orribile cosa? Quest’è la fossa e quello l’albero: cercate, amici, se poteste scoprir il cacciatore che deve aver assassinato Bassanio.
Aar. Mio grazioso signore, ecco un sacco d’oro. (mostrandolo)
Sat. Due de’ tuoi figli (a Tit.), cani crudeli e sanguinosi, han tolta la vita a mio fratello. — Strappateli da quella fossa per condurli prigione, e vi restino finchè abbiamo inventate per supplizio loro torture nuove e inaudite.
Tam. Sono essi colà dentro? Oh! meraviglia! Come in breve si è tal misfatto scoperto.
Tit. Alto imperatore, sulle mie deboli ginocchia vi chieggo una grazia, in nome delle lagrime che non sogliono sgorgare da’ miei occhi..... è che questo delitto atroce dei miei figli maledetti..... maledetti, se provato è ch’essi ne siano gli autori.....
Sat. Se provato è? Ben vedete come è manifesto. Chi trovò questa lettera? Forse voi, Tamora?
Tam. Fu Andronico stesso che la raccolse.
Tit. Sì, fui io, signore; e nondimeno permettete ch’io divenga loro garante; perocchè giuro sulla tomba del mio venerabile padre ch’essi saran sempre pronti a presentarsi agli ordini di Vostra Maestà e a rispondere colla loro vita di questo delitto.
Sat. Tu non sarai loro mallevadore; e seguirai me invece. Alcuni tolgano il corpo, ed altri s’assicurino degli uccisori. Essi non profferiscano parola; il delitto è palese; e sull’anima mia! se vi fosse una pena più terribile della morte la farei loro subire.
Tam. Andronico, pregherò il re per te: non temer pei tuoi figli; nessun male accadrà loro.
Tit. Vieni, Lucio, vieni; non fermati per favellare con essi.
(escono)
SCENA V.
La stessa.
Entrano Demetrio e Chirone, con Lavinia violata, a cui hanno tagliate le mani e la lingua.
Dem. Va ora, e di’ se il puoi chi ti ha tagliata la lingua e disonorata.
Chir. Scrivi il tuo pensiero, palesa i sentimenti tuoi; e se i moncherini tel consentono fa prova di delatore.
Dem. Guarda se ella non possa ancora con bastanti segni accusarci.
Chir. Rientra nel tuo palagio, e chiedi acqua per lavarti le mani. (a Lav.)
Dem. Ella non ha lingua per chiamare, nè mani da lavarsi; onde lasciamola alle sue silenziose meditazioni.
Chir. S’io fossi nella sua condizione vorrei appendermi.
Dem. Posto che avessi le mani per formare il nodo.
(esce con Chir.; entra Marco)
Mar. Che veggo io? È mia nipote che mi sfugge così? Cara nipote, una parola; dov’è il tuo sposo? — Se un sogno è questo, vorrei per tutti i miei tesori esserne sciolto. Se desto sono, la influenza di qualche astro fatale mi atterri e mi immerga in un eterno letargo. — Parlami, diletta nipote, qual mano feroce ti ha così mutilata? Chi ha privato il tuo corpo di quei due rami che l’adornavano sì piacevolmente? I re della terra si sarebbero chiamati felici di addormentarsi stretti dai loro dolci amplessi, e la meta segnata dalla tua tenerezza sarebbe stata la maggiore felicità che avessero mai potuta ottenere! Perchè non rispondi tu? Oimè! Un ruscello di sangue fumante, come una sorgente fragorosa e agitata esce dalle tue labbra di rosa, e cade e segue i moti della tua respirazione. Certo qualche nuovo Tereo ti ha profanata, e perchè il suo delitto resti occulto ti ha recisa la lingua. Ah! lo veggo, il pudore ti fa rivolgere altrove il volto e in onta di tanto sangue che perdi le tue guancie si colorano e s’infiammano, come il viso di Titano quando arrossì di essere investito da una nube. Risponderò io per te? Dirò che questa fatale sventura è indubitata? Perchè non posso io leggere nel tuo cuore, e conoscere la belva feroce che ti straziò, onde sollevare la mia anima cogli impeti della collera? Il dolore compresso, come un forno chiuso, incenerisce il cuore che lo contiene. La bella Filomela non perde che la lingua, e potè ricamare sopra un drappo le sue sventure; ma tu neppur questo puoi, mia amabile nipote. Incontrato tu hai un Tereo più crudele e più astuto che tagliate ti ha quelle belle dita, che avrebbero saputo compier lavori più leggiadri assai di quelli di Filomela. Ah! se quel mostro vedute avesse quelle mani di gigli tremare come le foglie del salice sopra il liuto, e porre in fremito le sue corde di seta pel piacere delle loro carezze, non si sarebbe indotto ad offenderle neppure a rischio della sua vita. Se intesa avesse la celeste armonia che produceva quella lingua melodiosa, si sarebbe lasciato sfuggire il fatal coltello, e caduto sarebbe in un dolce sopore, come Cerbero ai piedi del poeta di Tracia. — Ora vieni con me, vieni ad acciecare il padre tuo, perocchè una simile vista deve toglier gli occhi ad un padre. Una pioggia d’un’ora basta per annegare le piante odorifere; e che non produrranno sugli occhi di tuo padre interi anni di lagrime? Non isfuggirmi: noi piangeremo insieme; e volesse il Cielo che i nostri pianti potessero alleviare l’orrore della tua condizione! (escono)