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XI XIII

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Tutta la famiglia era a tavola; la signora Soave, con due fettine di limone sulle tempia, lagnandosi dolcemente; l'esattore rosso in faccia, sbuffante; le gemelle silenziose; l'Ida, versando di soppiatto un po’ di minestra nel bicchiere.

Teresina, in mezzo a quelle persone note, a quelle persone che ella chiamava i suoi cari, che per vent’anni avevano esclusivamente occupato il suo cuore, si sentiva quasi straniera. L’amore la isolava, la assorbiva con quell’egoismo tirannico che è uno de’ suoi principali caratteri. [p. 168 modifica]

Lei, così buona, così timida, che si angosciava sempre ai dolori della mamma; lei che tremava davanti alle terribili sopracciglia inarcate del padre, quel giorno aveva una sola preoccupazione, il timore d’essere scoperta.

L’orologio del campanile, incastonato fra gli alberi di cartone, non aveva mai attirato i suoi sguardi come allora; le quattro braccia del mulino a vento sembravano agitarsi per lei, come braccia di silfi, di gnomi, di deità sconosciute che le additassero orizzonti lontani. Tutta la sua anima era attaccata a quell’orologio.

— Il brodo non ha nessun sapore — disse il signor Caccia.

La signora Soave sospirò, costernata.

— Vi ho detto tante volte di metterci un sedano a bollire. L’avete messo?

— Bisogna domandarlo a Teresina — rispose prontamente una delle gemelle.

— Hai messo il sedano nel brodo, Teresina? L'hai messo?

La voce stridente del signor Caccia dovette ripetere la domanda. Teresina non aveva capito. Alla seconda volta, scossa da quel falsetto imperioso, restò imbambolata come uno che si desti improvvisamente, per sorpresa; avvertendo una sensazione di antipatia per tutte quelle persone che la tormentavano.

Il sedano? Ella non ricordava piú; per quanti [p. 169 modifica]sforzi facesse non riuscì a raccapezzare la memoria di un fatto così semplice e recente. Si pigliò della stupida, fra i sospiri di sua madre e il riso ironico delle gemelle.

Nel suo accasciamento, la fanciulla fu colta da un improvviso terrore. Se il padre sapesse?

Nessuna cosa poteva spaventare maggiormente Teresina. Ella chiese a se stessa come mai ardiva nascondere una lettera e vagheggiare un appuntamento davanti alla terribilità di quel personaggio.

Abbassò gli occhi e si pose a tremare come una foglia; si sentiva venir meno.

Altro pensiero orribile. Se la cogliesse uno svenimento? Se le aprissero il busto, per farla rinvenire, e la lettera, la fatale lettera...

Diede un balzo sulla sedia.

— Che hai, Teresina?

— Nulla.

Ella doveva avvezzarsi a quella risposta. Nulla. Nulla di ciò che si può dire, che si può vedere, nulla di ciò che gli altri capiscono.

Nulla — così spesso sinonimo di tutto.

Rapidamente decise di non comparire all'appuntamento e di distruggere subito la lettera. Era una vergogna nutrire pensieri simili nel grembo della famiglia, accanto a sua madre ammalata e triste, fra le sorelle innocenti...

Un vivo sentimento di pudore la imporporò tutta. Come si trovava colpevole! Quanto era sfrontata! [p. 170 modifica]Che ne aveva fatto de’ suoi buoni principii, de’ suoi voti di purezza?

Si ricordò certi discorsi uditi, che per perdere una donna basta un minuto; che l'onore delle fanciulle si appanna, come il cristallo, ad un soffio; e tornò a tremare, sbigottita, alterata in viso per modo che sua madre la indusse a muoversi, a prendere qualche cosa.

— È il tempo, — disse il signor Caccia — con questa umidità continua, non si può star bene —. Teresina ringraziò Iddio che suo padre non avesse alcun sospetto.

L'orologio segnava sette ore. Il signor Caccia si alzò dignitosamente; andava a prendere la sua porzione di politica al caffè di piazza.

Le donne rimaste sole, si raccolsero in gruppo attorno alla lucerna.

— Figlie mie, vi prego, state tranquille; ho la testa che mi vuol scoppiare.

— Che si farà tutta sera?

— La pretora non viene?

— No, ha dei forestieri.

— Giuochiamo a tombola.

— Io proprio, non ne ho voglia.

Questa dichiarazione era di Teresa.

— Sì, sì, a tombola!

— A tombola!

Le gemelle si ostinavano. L’Ida, per giuocare coi fagioli, voleva anche lei la tombola. [p. 171 modifica]

— Che s’ha a fare d'altro?

— Leggete — suggerì Teresina.

— Leggere non è un giuoco.

— Narraci una fola! — esclamò l’Ida.

Una fola era assolutamente impossibile. Dove avrebbe trovato l'argomento? E la calma, e la pazienza per svolgerlo?

— No, no, la fola no...

Si rifiutava, implorando, con una dolcezza dolorosa. Sembrava dire: Allontanate, Signore, da me questo amaro calice. Si sentiva male davvero; i polsi le battevano disordinatamente; aveva la testa in fiamme e le mani di ghiaccio.

La signora Soave gemette:

— Purché siate tranquille...

Teresina si rassegnò alla tombola.

I numeri uscivano lenti dalle sue labbra, spesso incomprensibili, spesso ancora sbagliati. Era ricaduta nelle visioni amorose. Vedeva Orlandi, bello, seducente, che le chiedeva il favore di una parola, nient’altro che una. Che male c’era? Chi lo avrebbe saputo?

Una indolenza molle prendeva il sopravvento nei suoi pensieri. Infine non era lei che lo aveva cercato.

Quest'ultima considerazione, la piú futile, ebbe il potere di calmarla. Disse i numeri a voce alta, chiara, reagendo con un coraggio improvviso, dando un’occhiata rapidissima all'orologio. [p. 172 modifica]

Erano le otto e mezza.

Alle nove cominciò a tentennare.

L’Ida aveva sonno; bisognò portarla di sopra, svestirla e coricarla. La piccina le aveva incollate le braccia sugli omeri; voleva dormire vicino a lei. Teresina pose la testa sul piccolo guanciale e finse di dormire.

Se avesse dormito davvero, là, sulla culla, incosciente e serena come l’Ida?

Un passo, nella via, la fece trasalire. Mio Dio, lui! No, non era lui.

Le gemelle si stavano svestendo, la signora Soave aspettava il ritorno del marito. Teresina, come un’anima in pena, correva dall’una all’altra, volendo mostrarsi disinvolta; ma via via che il tempo passava, era presa da un tremito nervoso che la scuoteva tutta.

Alle dieci, essendo rientrato il padrone di casa, si sprangò la porta; i coniugi si ritirarono nella loro camera. Era il momento decisivo.

Abbattuta sopra una sedia, coll’occhio fisso sul letto delle gemelle, Teresina ripeteva: “Non scenderò, non scenderò”. Ma l'orecchio, intento, spiava ogni passo che risuonasse nella via. Già le sembrava di averlo udito, quel passo, battere in cadenza, lentamente, come un tacito richiamo.

“Non scendo, oh! non scendo certamente”. Disse ancora così, per persuadersi ch'ella era ben decisa. [p. 173 modifica]

A un tratto prese il lume, diede un ultimo sguardo alle gemelle che dormivano e si lasciò scivolare giù dalla scala, leggiera come un’ombra.

All’ultimo gradino si fermò, nascose il lume dietro un pilastro e mosse brancicando nel salotto buio.

Disse ancora: “Non gli parlo, faccio solamente per vedere se c’è”.

Non urtò nessun mobile; giunse dritta davanti alla finestra e l’aperse.

— Grazie.

Orlandi le aveva afferrate le mani e glie le stringeva con passione. [p. 174 modifica]

La fanciulla non rispose né alla stretta né al grazie; ma tremava così straordinariamente, che Orlandi, sorridendo un poco, riprese:

— Sono stato ardito, le chiedo scusa... se mi fossi immaginato di darle dispiacere...

Teresina scosse il capo.

— No?... non dispiacere forse, ma certamente un disturbo. Oh! mi assicuri; mi dica che questa sua bontà per me non le procurerà delle noie in famiglia...

Teresina fece per dire qualche cosa, e non potendo riuscirvi, strinse leggermente le mani che imprigionavano le sue.

Orlandi ebbe uno slancio di gioia; soggiunse:

— Siamo soli?

— Sì.

Seguì un breve silenzio. Ad onta della sua franchezza, anche il giovane sembrava commosso. Disse infine a voce bassa, avvicinandosi piú che poteva, colla faccia passata a metà fra le sbarre della finestra:

— Sa che cosa volevo dirle?

Teresina principiò a tremare.

— Non lo indovina?

Istintivamente, come all'avvicinarsi di un pericolo, ella volle ritirare le mani.

— Non lo indovina?... — ripeté il giovane stringendo piú forte.

— Non s’è accorta di nulla?... Non sa che io l’amo? [p. 175 modifica]

Irrigidita, la fanciulla ascoltava quelle parole così nuove per lei, sentendo salire, dalle mani del giovane, una ebbrezza in tutte le fibre.

— È la prima volta che un uomo le parla così?

— Oh! sì...

E vi era tanta innocenza, tanta mestizia e tanto sgomento insieme in quella esclamazione, che Orlandi continuò, trasportato:

— L’amo, l’amo!

Pioveva sempre. Orlandi era bagnato dalla testa ai piedi; anche Teresina si sentiva piovere in faccia, tante stille gelate sulla sua faccia che ardeva. La via, sotto la fiamma scialba di un lampione, luccicava, piena di pozze; quasi tutte le case vicine erano immerse nell’oscurità; solo ad una finestra della Calliope brillava, oscillante, un lume.

— Mi dica qualche cosa... l'ho offesa?

— No, signore...

Quel “signore” tornò a far sorridere Orlandi. Egli non riusciva a comprendere lo sbigottimento della fanciulla; non vi era abituato; però assuefacendosi a poco a poco, vi trovava un gusto piccante, mentre una tenerezza insolita gli ondeggiava nel cuore.

— Una parola ancora... mi permette di amarla?

— Oh Dio...

— Mi permette?

Voleva aggiungere: sarà un amore nobile e puro; ma comprese che era inutile dir ciò. Teresa non ne poteva immaginare un altro. [p. 176 modifica]

— Ho paura.

Anche questa parola fece sorridere il giovane; ma di un sorriso che non aveva nulla di irritante, che pareva anzi un compatimento, una carezza, un’indulgenza di persona forte.

— Cara... non si fida di me?

Le accarezzava le mani dolcemente, prima sul dorso, poi nel palmo, stringendole le dita ad una ad una. Non si vedevano bene in quel buio, dove apparivano solo i contorni, ma si guardavano intensamente, attirati l’uno verso l’altra.

Orlandi parlò ancora del suo amore. Disse che partendo all’indomani, sarebbe felice di portare con sé una parola di speranza, che le avrebbe scritto da Parma, e le domandò s’ella risponderebbe.

A monosillabi, balbettando, la fanciulla dichiarò che non avrebbe potuto ricevere le sue lettere.

— Perché?

— Se mio padre lo sapesse!

— Non lo saprà.

— Io non esco sola.

— Basta parlare col procaccio. È un buon uomo, ci aiuterà. Ella stia pronta quando passa, nient’altro... qui a questa finestra. Non è difficile.

Teresina non voleva. Orlandi fu eloquente, insinuante; le dimostrò così chiaro che sarebbe stato inconsolabile del suo rifiuto, che alla fine acconsentì.

Un passo incerto e zoppicante risuonò nel vuoto della via, verso la piazza. [p. 177 modifica]

— Per l'amor del cielo!

Teresina, spaurita, fece atto di chiudere la finestra.

— No, aspetti... mi lasci vedere...

La fanciulla aveva già accostato i vetri, ma non si risolveva a mettervi l’arpione, mormorando nella fessura:

— Si allontani, per carità...

— Aspetti un momento. È Caramella.

Lo zoppo passò, e Orlandi, fingendo indifferenza, si pose a costeggiare cautamente il sentiero, come se volesse evitare di bagnarsi i piedi. Quando Caramella fu abbastanza lontano per non destare piú sospetti, Orlandi supplicò:

— Un’ultima parola...

Teresina riaperse i vetri.

— Mi dica che mi vuol bene anche lei!

Questo, Teresina non lo disse; ma sospirò e tremò per modo e strinse così soavemente le mani del giovane, che costui non le chiese altro.

— Buona notte.

— Buona notte.

— Pensi a me...

Silenzio eloquentissimo, prolungatissimo.

— Addio.

— Addio.

Però non si staccavano.

— Verrò presto... [p. 178 modifica]

Un altro passo, in lontananza, li decise; Orlandi, gettandosi il mantello sulla spalla, fradicio d'acqua, strinse ancora una volta le mani della fanciulla e si allontanò.

Teresina, nello staccarsi dalla finestra, dovette reggersi al muro perché barcollava. Aveva le guance, il collo, le braccia bagnate dalla pioggia; eppure ardeva. Trovò il lume semispento, dietro il pilastro. Salì adagino, cauta, ma non piú timorosa, meravigliata ella stessa di sentirsi così forte.

Tutta la casa era tranquilla. Le gemelle dormivano, russando lievemente, colla coperta fin sopra le orecchie.

Teresina cadde in ginocchio nel corsello del letto, colla fronte contro il guanciale, in un’estasi d'amore; con un bisogno immenso di elevare il cuore a Dio, di prenderlo a testimonio delle sue emozioni, di benedirle e di purificarle nello slancio di una preghiera ardentissima. Il cielo, per lei, era il punto di partenza d’ogni cosa bella, ed al cielo mandava i suoi novi desideri, casta, fidente.

Ringraziò Dio come di una grazia ricevuta, come di una felicità insperata. Si sentiva duplicare la vita; un altro essere palpitava in lei, dandole la sensazione strana di due pensieri in un pensiero.

Era amata! Amava!

Si spogliò rapidamente, dimentica di tutto e di tutti; del padre terribile, della sua buona mamma, dell’Ida che fra poche ore sarebbe desta, chiedendo le sue [p. 179 modifica]cure. L'assorbimento amoroso si manifestava con tutta la sua potenza. Dio e Orlandi.

In letto, cogli occhi sbarrati, il corpo immobile, colla lettera stretta sul seno, ella ripensò parola per parola, carezza per carezza, tutta la scena della sera.

Ed era felice.

Di dormire, nemmeno la piú lontana probabilità; potendo, non avrebbe voluto, per non staccarsi dall'immagine diletta.

Si rammaricava un po’ di non aver saputo parlare, di non aver chieste maggiori spiegazioni, di non avergli fatto promettere che l’avrebbe amata sempre. Le dispiaceva soprattutto di non avergli domandato il suo nome.

Come si chiamava Orlandi? Nella firma della lettera prima del casato c'era l'iniziale E. Forse Edmondo, come quell’amico di suo fratello? Forse Enrico? Edoardo sarebbe pur stato carino, o Edgardo ed anche Eugenio.

Baciò la lettera a piú riprese teneramente, parlandole come a persona, improvvisando canti e poemi, trovando tutte quelle parole che un’ora prima, alla finestra, aveva inutilmente invocate.

Stava bene dappertutto, nel corpo, nell’anima, nel cuore. Un’armonia dolcissima correva da’ suoi pensieri alle sue sensazioni; aveva la piena coscienza della sua gioventù e della sua salute. Era sana ed era felice.

Si abbracciava da sé, colle mani sull’alto delle [p. 180 modifica]braccia, sembrandole di avere nelle carni un piacere nuovo; e dentro, nell’intimo delle fibre, una leggerezza ideale che la trasportava.

Non prese sonno in tutta la notte, ma sognò tra un dormiveglia delizioso, mormorando nomi d’amore. Aveva spiegata la lettera sul guanciale e vi posava sopra la faccia, colla bocca in giù, respirandola.

XIII.