Teresa/IX
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IX.
Nella camera di Carlino le finestre erano spalancate, tutte e due; e dalle ampie aperture entrava una luce allegra, sfacciatella, che frugava per ogni angolo, dal pavimento al soffitto. Le pareti, quasi nude e bianche, rifrangevanoi raggi del sole nella crudezza di un mattino splendido.
Il giovinotto era giunto la sera prima, alto, impersonito, con un principio di baffi sul labbro superiore, con un cappellino a cencio, verdone, posato sull'occhio sinistro, e un tutto insieme così cambiato, così diverso dal Carlino solito, che in famiglia ne restarono tutti impressionati.
Era partito rozzo, impacciato ne' suoi abiti mal fatti; non sapeva pettinarsi, aveva le mani mal curate, faceva ancora il ragazzaccio, il monello che giuoca in mezzo alla strada.
Dieci mesi erano bastati a trasformarlo, troppo, forse, perché il signor Caccia vedendolo non aveva mancato di aggrottare le sopracciglia; e a questo segno infallibile di burrasca, era successa una vera burrasca di motti acerbi e di rimproveri, quando lo studente dovette confessare che in due esami non era riuscito.
Ma lassù, nella gaiezza della sua camera aperta, nel disordine della valigia sfatta, di tanti oggetti vecchi ritrovati, di tanti nuovi ai quali bisognava trovare un posto, Carlino non ricordava piú la sfuriata paterna.
Rideva, appoggiato colle spalle al muro, fumando mezzo sigaro, intanto che Teresina levava la biancheria dalla valigia.
La piena luce li illuminava entrambi, fratello e sorella, facendo risaltare la lieve somiglianza che avevano nell'ovale della faccia, nel colore dei capelli, nella statura; giovani tutti e due e sani, ma già differenti nell'espressione della vita interna.
Gli occhi di Teresina, malinconici e dolci, cercavano lo sguardo vivace del fratello, scendendo poi con una curiosità ingenua lungo le guancie, su quei piccoli baffi, nella linea del collo forte e muscoloso. Gli si avvicinò toccandogli col rovescio della mano la gota, presso l'orecchio, dove spuntava una lanuggine bruna, e disse, ridendo: — Com'è morbida! — Poi gli rimase accanto, aspirando l'odore dello sigaro che gli usciva dalle labbra, beata, finché presa da una vertigine di tenerezza lo baciò improvvisamente nell'angolo della bocca.
Egli la respinse, dolcemente, piú dolcemente d'una volta, dandole una palmatina sulla guancia.
E poi le chiese a bruciapelo:
— Hai l'amante tu?
La fanciulla divenne rossa rossa, protestando, dicendo no, no, due o tre volte di seguito.
— Si vede.
Carlino non disse altro; andò a mettersi alla finestra, cacciando in alto le nuvolette di fumo e seguendole collo sguardo, ora aperto ora socchiuso, come nella ricerca di memorie varie e piacevoli.
Teresina toglieva dalla valigia le camicie, ammirandone il candore azzurrino e l'insaldatura lucente.
— Io non le so stirare cosí.
— Pur troppo — soggiunse Carlino senza voltarsi.
— Qui però manca un bottone, e i colletti sono sfilacciati. Chi ha cura della tua biancheria?
— La mia padrona di casa.
— Veh, i polsini di lana rossa che ti ho fatto io! sono ancora nuovi; non li hai portati?
— No, di sicuro.
Teresina, mortificata, replicò:
— L'anno passato li portavi...
— Oh! l'anno passato, l'anno passato...
— Soffrivi tanto il freddo alle mani.
— Non lo soffro piú.
— E i calzerotti di filugello... intatti anche questi...
— Prova, tu, a mettere dei calzerotti di filugello, tutto a nodi, grosso come lo spago; prova tu a metterli, dentro a un paio di scarpe strette...
— Ah! se porti le scarpe strette...
— Sta a vedere che porterò i ciabattoni come Caramella.
La fanciulla stette zitta, continuando a levare abiti dalla valigia, spiegandoli sul letto e sulle sedie per far perdere le cattive pieghe.
— Che pezzuola elegante! E Carlo ricamato a mano... non te l'ho fatto io questo.
— È un dono della mia padrona di casa. Gentile, nevvero?
— Oh! gentilissima...
Stava per soggiungere qualche altra cosa, ma si fermò; prese una sedia e venne a mettersi vicino alla sorella, guardando nella valigia spalancata.
— Fa adagio, non sciuparmi le cravatte.
Nel levare un farsetto scappò dalla tasca un ritrattino; una fotografia di donna.
— Che è questo?
Carlino la prese vivamente dalle mani della sorella.
— Non è niente...
Poi, fatto accorto che quel niente era assurdo, disse:
— È l'amante di Orlandi.
— Conosci Orlandi tu?
— Come no? Stando a Parma e facendo la vita dello studente è impossibile non conoscerlo.
— Ma Orlandi è dell'università.
— Che importa? Egli è il decano di tutti gli studenti, il capo della gioventù parmigiana; senza di lui non si mette in piedi nessun divertimento.
Successe un breve silenzio.
— Fammelo vedere, quel ritratto — domandò Teresina a voce bassa, pregante.
— Curiosa.
— Via, fammelo vedere.
Carlino lo guardava, lui, tenendolo chiuso fra le due palme delle mani, riunite e ricurve ad uso nicchia.
La ragazza, inginocchiata per terra, davanti alla valigia, sporgeva il capo sollevato verso il fratello, colla gola che palpitava fortemente. Tornò a pregare:
— Fammelo vedere.
— Tutte eguali! Guardalo.
Glie lo pose davanti, coll'intenzione di farlo sparire subito; ma Teresina, balzando in piedi, lo afferrò con tanta prontezza che fu suo. E lo rimirò lentamente, con attenzione, concentrata, quasi ansante.
Era una bella donna, di una bellezza immensamente procace. La posa drammatica e ricercata metteva in mostra d'un colpo solo, come una scarica mitragliatrice, l'occhio assassino, il sorriso sensuale e il braccio e la rotondità della spalla accentuata dall'abito attillatissimo.
A Teresina parve che quella donna fosse nuda, ne sentì vergogna e insieme alla vergogna una sensazione confusa di rabbia, che le fece sbattere quasi dispettosamente la fotografia sui ginocchi del fratello. Cadde a terra, egli la raccolse lisciandola colla manica, e tornò a guardarla.
— Bella!
— È antipatica.
— Ma no... tutt'altro. Si direbbe che sei invidiosa.
— Io?...
Non fu capace di rispondere altro. Si sentiva avvilita, malcontenta che Carlino potesse sospettarla invidiosa di una donna piú bella di lei; malcontenta del malcontento che provava e con la percezione improvvisa di un isolamento, come di una barriera posta fra lei e il mondo; una specie di quarantena sanitaria, per cui gli echi della vita le giungevano in ritardo, rovistati, sfrondati, monchi.
E sprofondò le mani nella valigia, febbrilmente colla speranza di incontrare altre rivelazioni, con una curiosità a cui si mesceva una leggera punta di dolore.
Trovò una fettuccia di raso rosso, in mezzo alla quale era appuntato un cagnolino di carta argentata. Non osò chiedere che cosa fosse. Fu Carlino:
— Sai che cos'è?
— No.
— È una figura di cotillon.
— Una figura di cotillon?
— Non capisci?
— No.
Carlino scosse il capo con aria compassionevole.
— Il cotillon è un ballo. Ci si mette in tanti giovani e in tante ragazze; si distribuiscono dei gingilli, come questo, e in cento altre foggie; poi ogni uomo balla con quella donna a cui corrisponde il dono ricevuto. Io per esempio ebbi questo cagnolino, e andai a cercare una signora che aveva la cagnolina. Capisci adesso?
Teresina accennò di sì; e guardava, guardava la fettuccia rossa, seduta sull'orlo della valigia, quasi ai piedi di suo fratello.
— Hai ballato a Parma?
— Tutto il carnevale.
— Oh! raccontami...
Gli si strinse addosso, prendendogli una mano, ricacciando in gola la voglia di baciarlo.
— Che vuoi che ti racconti?...
Egli si dondolava sulla sedia avanti e indietro, non avvertendo il contatto della fanciulla, guardandola distrattamente. Il mezzo sigaro non tirava piú; lo gettò via.
Teresina si chinò sul mozzicone, attratta da quel profumo stuzzicante, e fece atto di metterselo alla bocca, scherzando.
— Peuh!
Ella arrossì tutta, e lo respinse colla punta del piede. Poi si chinò ancora verso il fratello, colla faccia che gli toccava i ginocchi, con un raggio di tenerezza umile in fondo alla pupilla.
— Dove hai ballato?
— Dappertutto. In teatro, al Casino, in famiglie particolari...
— E c'erano delle ragazze?
— Sicuro.
— ... Belle?
— Belle e brutte.
Teresina sospirò.
— All'ultima festa del Casino ho veduto le Portalupi.
— Sì? Come erano vestite?
— Figurati se lo ricordo! Non le ho nemmeno guardate.
— Perché?
— Perché non mi piacciono; e poi là, in mezzo a tante altre, avevano proprio l'aspetto dei pifferi di montagna; goffe, mal vestite... non so come, ma male certo.
— Eppure sono sempre così eleganti!
— Fammi il piacere! Come vuoi giudicare tu dell'eleganza?
Teresina abbassò il capo. Egli soggiunse ridendo:
— Non per farti torto, sai? ma bisogna uscire da questo paese, e sopratutto da questa casa per sapere come vestono le signore eleganti. Tu vedi la mamma, la pretora, la moglie del sindaco, la sorella del dottor Tavecchia, la cuoca di Monsignore, alla domenica, quando mette l'abito di gros, e, in mezzo a tutte queste, le Portalupi ti sembrano uno splendore.
In fondo, Teresina non era malcontenta di quella dichiarazione. Scivolando sulla sua poca competenza in fatto d'eleganza, si fermava con piacere sulla constatazione di Carlino, che le Portalupi erano goffe e punto avvenenti. Piú tardi, quando da fanciulla religiosa doveva fare l'esame di coscienza, quella subita allegrezza le sarebbe pesata come un peccato grosso: ma al momento, lì per lì, non credette di far male.
Carlino soggiunse:
— Avessi veduto la marchesina Varisi...
— Come? I Varisi non stanno a Cremona?
— Sì; ma la marchesina si trovava questo carnevale a Parma, in casa di una parente. Una figurina da silfide vaporosa, eterea; una grazia da sirena, una distinzione da gran dama. Vestiva sempre di velo bianco, e portava un fiore sul petto; il fiore solo cambiava, ora bianco come l'abito, ora roseo, ora vermiglio cupo, ora del piú pallido azzurro; una volta lo mise nero, di velluto... e si disse che era un segno di lutto per una persona a lei cara.
Teresina ascoltava, senza fiatare, colla bocca semichiusa, il petto ansante.
— Ed è tanto bella, dici?
— Un angelo.
— Bionda o nera?
— Castagna.
— Era la piú bella di tutte?
— Di tutte... non saprei. C'era la moglie dell'avvocato Neri che le contendeva discretamente la palma, in ricchezza e in adoratori.
Teresina esitò un momento, malsicura; infine si arrischiò a balbettare:
— Ma se questa signora è maritata?
— Ebbene?...
— Nulla, nulla.
La ragazza abbassò il capo, confusa, abbacinata da un vortice di idee nuove. Dopo un istante di silenzio, chiese:
— Ed è vero che alle feste da ballo le signore vanno scollate?
— Certamente.
Esitò ancora, ma la curiosità la vinse:
— ... Fin dove?
— Fin dove vogliono.
Teresina si morse le labbra, colla faccia nascosta contro i ginocchi del fratello; mentre sul collo e sulla nuca le salivano strisce di rossore.
— E tu non hai ballato mai?
— Mai.
Il silenzio si rifece. Carlino continuava a dondolare la sedia, col pensiero lontano, assorto nel suo beato egoismo d'uomo.
Sembrava alla fanciulla che tra lei e suo fratello fosse sorta una barriera. Egli era minore di un anno, ma le appariva assai piú grande; e le incuteva un senso di soggezione dove annegava la sua tenerezza di sorella. Aveva aspettato con ansia il ritorno di lui in famiglia, per un bisogno indistinto di affezione, di espansione; perché non aveva amiche, perché le sue sorelle erano troppo piccine e sua madre troppo triste; perché si sentiva sola in quella casa, sola nel mondo, sola colla sua inutile giovinezza.
Ma il fratello, l'amico invocato, non la comprendeva. Le loro vite si svolgevano in senso opposto; avevano un concetto differente dell’esistenza e bisogni e idee differenti. E poi Teresina anelava, inconsciamente, all'intimità dell'uomo. La freddezza di Carlino la feriva in una fibra che, per essere inavvertita, non era meno potente. Ella soffriva accanto a quel giovane robusto e felice, a quel giovane pago, a cui i privilegi del suo sesso aprivano tutte le porte. Non ragionava così la fanciulla, ma aveva l’intuizione di una profonda ingiustizia, mentre l’istinto della donna la spingeva ciecamente verso il suo signore e padrone.
Una vocetta, fuori dell'uscio, chiamò ripetutamente Teresina.
Ella balzò in piedi, corse fuori, e rientrò nella camera tenendo in braccio un amorino di quattro anni, l'Ida, che prometteva già di essere la bellezza della famiglia.
E la stringeva, e la baciava con un ardore che, represso fino allora, scoppiava in piccoli gridi esultanti; strano contrasto alla mestizia dell'occhio, in fondo al quale c'era come un velo di lagrime.
La piccina era scappata dal letto, in camicia, coi capelli sciolti a riccioli sulle spallucce nude, sfuggendo senza un terrore al mondo, al vocione del signor Caccia che la richiamava.
Ed ora s'acchetava nelle braccia della sorella, tenendosi aggrappata al suo collo, guardando in giro per la camera gli oggetti sparsi.
Qualunque fossero i pensieri di Teresina, ella non aveva tempo di ascoltarli; dovette rispondere a tutte le interrogazioni della bimba, soggiogata da quelle grazie infantili, commossa dalla fragilità della creaturina bella, per cui ella era una seconda madre.
E poi, a diciannove anni, le pene mettono radici, ma non danno ombra ancora. Ella si pose a cantare in mezzo al sole, cullando il leggero peso sulle braccia; con una abbondanza di parole dolci, di nomi d'amore, di carezze e di baci; cantava in mezzo al sole, che dalle ampie finestre entrava luminoso e caldo.
X.