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VI VIII
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umore e agitazione si produsse nell’accampamento cosacco. Da principio nessuno poteva spiegarsi come fosse avvenuto che delle truppe entrassero nella città. Ma dopo, venne in chiaro che tutta la kurjenja di Perejaslav, accampata presso le porte laterali della città, era ubbriaca fradicia. Dovette accadere — non c’è da meravigliarsene — che una metà furono uccisi e l’altra metà legati, anche prima che potessero capire che cosa avveniva. Mentre le kurjenje vicine, destate al rumore, si affrettavano a dar di piglio alle armi, già l’esercito nemico era giunto alla porta, e le sue ultime file sentirono le fucilate dei Saporogini accorsi in disordine all’inseguimento, ancora assonnati, a mezzo riavuti dalla sbornia.

Il Koscevoj diede ordine a tutti di adunarsi, e quando tutti furono lí in cerchio attorno a lui, e, cavatisi i berretti, si tacquero, egli disse:

— Ecco qua, illustri signori, che cosa è [p. 139 modifica]successo questa notte; ecco a che punto giunse la crapula! Ecco quale oltraggio ci ha inflitto il nemico! Ormai s’è formata presso di voi questa consuetudine, che, appena si permette di raddoppiare la razione, voi siete pronti a stendervi giú per modo che il nemico dell’esercito di Cristo non solo vi porterà via i calzoni, ma verrà a starnutarvi sul viso senza che voi lo sentiate.

I cosacchi stavano lí ritti, a testa bassa, per la coscienza della colpa; soltanto uno, il comandante di una kurjenja di Nesamajkov, Kukubjenko, prese la parola.

— Adagio, babbo nostro! — egli disse — quantunque non è nella legge il fare una replica qualsiasi, allorché parla il Koscevoj al cospetto di tutto l’esercito; siccome la faccenda non è come tu dici, cosí è necessario che io parli. Tu non hai punto ragione di rimproverare tutto l’esercito di Cristo. I cosacchi sarebbero colpevoli e degni di morte, se avessero bevuto durante la marcia, in mezzo alla battaglia, nel corso di un’impresa difficile e faticosa: ma noi qui stavamo inoperosi, languivamo inutilmente dinanzi alla città. Non era giorno di digiuno o di qualsivoglia astinenza religiosa: come può avvenire che nell’ozio un uomo non si ubbriachi? Qui non c’è peccato. Ma, piuttosto, ora faremo vedere a costoro che vuol dire dare [p. 140 modifica]addosso a gente inoffensiva. Finora siamo stati buoni, ma adesso ormai li accopperemo per modo che non ne riporteranno a casa le calcagne.

Il discorso del capo-kurjenja piacque ai cosacchi. Si sollevarono le teste che stavano già cosí basse, e molti facevano segno di approvazione col capo e dicevano:

— Ha parlato bene Kukubjenko!

Ma Taras Bul’ ba che era poco distante dal Koscevoj, disse:

— Ebbene, Koscevoj, è chiaro che Kukubjenko ha detto il vero? E tu che rispondi?

— Che rispondo? Rispondo: beato quel padre che mise al mondo un figlio come questo! Non è una grande saggezza dire una parola di rimprovero; ma la piú grande saggezza è dire una parola tale che, senza sbraitare sulla disgrazia di un uomo, lo rinfranchi, gli dia animo, come gli sproni danno animo al cavallo dopo che s’è rinfrescato all’abbeveratoio. Io stesso volevo poi dirvi una parola di conforto, e Kukubjenko ci ha pensato prima.

— Bene ha parlato anche il Koscevoj — si udí tra le file dei Saporogini.

— Parola ben detta! — ripeterono gli altri. Anche i piú canuti, che stavano lí come altrettanti piccioni grigi, approvavano anch’essi col [p. 141 modifica]capo, e, arricciando i grigi mustacchi, dicevano piano: — Parola ben detta!

— Ascoltate ora, signori! — seguitò il Koscevoj. — Espugnare una fortezza, arrampicandosi e scavare mine, come fanno i condottieri stranieri e tedeschi — lasciamo che il nemico cerchi di imitarli! — né conviene, né è faccenda da cosacchi. Ma, giudicando da quel che è, non è grande la provvigione che il nemico ha portato in città; non dovevano essere molti i carri che lo seguivano. La popolazione in città era affamata; probabilmente divoreranno tutto d’un fiato, e cosí pure il fieno per i cavalli... non so davvero! forse glielo calerà giú dal cielo coi forconi qualcuno dei loro santi... ma questo, Dio solo lo sa, e i loro preti cattolici sono valenti solamente a parole. Per questo o per altro, presto faranno una sortita. Dividiamoci dunque in tre gruppi e occupiamo le tre strade avanti alle tre porte. Avanti alla porta principale, cinque kurjenje, avanti alle altre, tre per ciascuna! Le kurjenje di Djad’kiv e di Korsun, in imboscata! Il colonnello Taras col suo reggimento, in imboscata! Le kurjenje di Tytarev e Tymoscev in riserva presso i carriaggi a destra! Quelle di Sc’cerbinov e Steblikiv-superiore, a sinistra! Poi sceglietevi tra le file i giovanotti piú mordaci nel parlare, per irritare il nemico. Il [p. 142 modifica]Polacco è vano per natura, non tollera l’ingiuria; e può darsi che oggi stesso escano tutti dalle porte. I capi-kurjenje passino in rassegna ciascuno le sue truppe; dove ci sono dei vuoti, si colmino coi residui della kurjenja di Perejaslav. Esaminare tutto, daccapo, per bene! Dare una pozione contro la sbornia, una tazza a testa, e un pane a ogni cosacco; quantunque probabilmente ognuno è ancora sazio da ieri (giacché la verità non si caccia in un cantuccio): si rimpinzarono tutti per modo che mi meraviglio come nella notte nessuno sia crepato. E poi, ecco ancora un solo decreto: se, chiunque sia, un oste giudeo venderà a un cosacco magari una sola pinta di acquavite, io gli inchioderò proprio in mezzo alla fronte un orecchio di porco, a quel cane, e lo impiccherò con la testa in giú! E ora, all’opera, signori! All’opera!

Tali furono gli ordini del Koscevoj, e tutti s’inchinarono a lui fino alla cintola, e senza rimettersi i berretti, si diressero ai loro carriaggi e ai loro bivacchi, e solo quando furono ben lontani, si ricoprirono il capo. Tutti cominciarono i preparativi: provarono le spade e gli squadroni, versarono la polvere dai sacchi nelle fiaschette, spostarono e misero in ordine i carri e scelsero i cavalli.

Andando al suo reggimento, Taras pensava, e [p. 143 modifica]non riusciva a immaginare dove si fosse cacciato Andrea: «Che l’abbiano preso insieme con gli altri è legato mentre dormiva? Ma no; Andrea non è uomo da lasciarsi prendere vivo».

Tra i cosacchi uccisi, non fu trovato egualmente. Tutto immerso in questi pensieri, Taras arrivò al reggimento senza sentire che da un pezzo qualcuno lo chiamava per nome.

— Chi mi vuole? — disse alla fine riscuotendosi. E si trovò davanti l’ebreo Jankelj.

— Signor colonnello! signor colonnello! — diceva il giudeo con voce frettolosa e interrotta, come volendo rivelare qualche affare tutt’altro che di poco conto. — Sono stato nella città, signor colonnello!

Taras guardò l’ebreo; e si meravigliò che costui fosse già riuscito a cacciarsi anche dentro la città:

— Chi dei nemici ti condusse lí?

— Spiegherò immediatamente — disse Jankelj. — Appena sull’alba sentii il frastuono, e i cosacchi cominciarono a sparare, io afferrai il mio caffettano, e senza neppure indossarlo, andai là di corsa! per via poi infilai le maniche, perché volevo sapete al piú presto da che provenisse il frastuono, perché i cosacchi sull’alba si fossero messi a sparare, Presi su e arrivai correndo [p. 144 modifica]fino alle porte della città, proprio nel momento in cui entravano le ultime file delle truppe. Guardo... avanti alla bandiera il signore alfiere, Galjandovic. È mio conoscente: già da tre anni ha con me un debito di cento ducati. Mi accostai a lui, con la scusa di regolare il conto, e cosí entrai in città.

— Come? Entrasti in città, e poi volevi anche regolare il conto? — disse Bul’ ba. — E lui non ti fece impiccare all’istante come un cane?

— Ah, in fe’ di Dio, voleva impiccarmi — rispose l’ebreo — già i suoi servi mi avevano ghermito e messo il laccio al collo; ma io supplicai il signore, gli dissi che aspetterò il debito quanto il signore vuole, e gli promisi di dargli ancora in prestito, purché mi aiuti a riscuotere dei crediti da altri cavalieri; perché il signore alfiere — voglio dire tutto al signor colonnello — non aveva in tasca neppure un ducato. È vero che possiede fattorie e ville e quattro castelli e tenute di steppa fino addirittura a Sc’klov, ma di danaro contante, proprio come il cosacco, neppure l’ombra! Anche adesso, se non l’avessero equipaggiato gli Ebrei di Breslavia, non avrebbe potuto neppure partire per la guerra. Per questo anche non si trovò alla Dieta...

— Che facesti nella città? Vedesti dei nostri? [p. 145 modifica]

— E come! Ci sono molti dei nostri: Izka, Rchum, Samuilo, Chaivaloch, l’appaltatore ebreo.

— Al diavolo quanti sono, quei cani! — esclamò Taras stizzito. — Che mi stai a importunare con la tua razza giudaica? Io ti domando dei nostri Saporogini.

— Dei nostri Saporogini non ho veduto nessuno, ma ho veduto soltanto il signor Andrea.

— Andrea hai veduto? — gridò Bul’ba. — Che mai dici? Dove l’hai veduto? In una cantina? In una fossa? Messo alla gogna? Legato?

— E chi oserebbe legare il signor Andrea? Adesso è un cavaliere tanto importante... In fe’ di Dio, io non lo riconoscevo! Le spalline in oro, i polsini in oro, il fermaglio in oro, e oro alla cintura, e dappertutto oro, e tutto oro! Come risplende il sole in primavera, quando nell’orto ogni uccelletto cinguetta e canta, e l’erba odora, cosí lui rifulge tutto nell’oro. Anche il migliore cavallo che esista gli ha dato da cavalcare il Vojevoda! Duecento ducati costa, il cavallo solo.

Bul’ba rimase di sasso.

— A che scopo egli indossò una montura straniera?

— Perché è migliore, per questo l’indossò. E va attorno accompagnando e facendosi [p. 146 modifica]accompagnare, e dà istruzioni e riceve istruzioni; come uno dei piú ricchi signori polacchi.

— Chi lo costrinse a ciò?

— Oh, io non dico che qualcuno lo costrinse. Che forse vossignoria non sa che egli passò a quelli di sua volontà?

— Chi passò?

— Ma, il signor Andrea.

— Dove passò?

— Passò dalla parte di quelli; ora egli è tutto loro.

— Tu menti, orecchio di porco!

— Come è possibile che io menta? Sono forse uno scemo, perché io debba mentire? Rimetterei la mia pelle a mentire! Che forse non so che un ebreo viene impiccato come un cane, se dice bugia alla presenza di un signore?

— Cosí vuol dire, secondo te, ch’egli ha tradito la patria e la fede?

— Oh, io non dico questo, che egli abbia tradito qualche cosa: dico solamente che passò da quella parte.

— Tu menti, ebreo del diavolo! Una cosa simile non è mai successa tra la gente cristiana! Tu imbrogli, cane!

— Possa crescere, l’erba sulla soglia della mia casa, se io imbroglio! possa ognuno sputare sulla tomba di mio padre, di mia madre, di mio [p. 147 modifica]suocero, del padre di mio padre e del padre di mia madre, se io v’imbroglio. Se vossignoria lo permette, io dirò perfino il motivo per cui egli passò da quella parte.

— Qual motivo?

— Il Vojevoda ha una figlia che è una bellezza. Dio benedetto, che bellezza! — Qui l’ebreo si provava, per quanto gli era possibile, ad esprimere con la sua faccia e coi gesti la bellezza, allargando le braccia, socchiudendo gli occhi e torcendo da un lato la bocca, come assaggiasse qualcosa.

— Via! e questo che vuol dire?

— Per lei ha fatto tutto, e per lei è passato. Quando un uomo s’innamora, allora per lui tutto è uguale; è come la suola delle scarpe, che, se tu la bagni nell’acqua, la prendi, la pieghi, e quella si piega.

Bul’ba divenne molto pensieroso. Ricordò che grande è il potere di una debole donna, e che molti uomini forti esso mandò in rovina, e che da quel lato era molto arrendevole l’indole di Andrea; e rimase un pezzo come confitto nello stesso posto.

— Ascolta, signore, io dirò tutto a vossignoria — disse l’ebreo. — Non appena io sentii il frastuono e vidi che entravano in città, io presi con me per ogni buon fine un filo di [p. 148 modifica]perle, perché nella città ci sono delle belle donne e delle grandi dame; e basta che ci siano belle ragazze e grandi dame, dicevo tra me, magari non avranno da mangiare, ma le perle, le comprano egualmente. E appena mi lasciarono libero i servi del signor alfiere, io corsi al palazzo del Vojevoda per vendere le perle. M’informai di tutto da una schiava tartara: «Si faranno le nozze appena che avranno cacciato via i Saporogini. Il signor Andrea ha promesso di cacciar via i Saporogini».

— E tu non lo uccidesti sul posto quel figlio del diavolo? — gridò Bul’ba.

— Perché ucciderlo? Egli passò con buona intenzione. Che colpa ha un uomo? Lí si trova meglio, e lí se ne andò.

— Ma tu l’hai veduto proprio faccia a faccia?

— In fe’ di Dio, proprio faccia a faccia! Che magnifico guerriero! È il piú ben fatto fra tutti! Dio gli dia salute! Mi riconobbe subito; e quando mi accostai a lui, senz’altro mi disse...

— Che ti disse?

— Disse... Prima mi fece segno col dito e dopo disse: «Jankelj!». Ed io: «Signor Andrea!» dico. «Jankelj, di’ a mio padre, di’ a mio fratello, di’ ai cosacchi, di’ ai Saporogini, di’ a tutti, che adesso il padre non mi è piú [p. 149 modifica]padre, il fratello non è piú fratello, il camerata non è piú camerata, e che io mi batterò con essi tutti; con tutti mi batterò.»

— Tu menti, ebreo del diavolo! — urlò Taras, fuori di sé. — Tu menti, cane! Tu mettesti anche Cristo in croce, uomo maledetto da Dio! Io ti ucciderò, Satana! Lèvati di qui; altrimenti qui avrai la morte!

E dicendo questo, Taras mise mano alla sciabola. L’ebreo atterrito se la diede a gambe, correndo per quanto glielo permettevano i suoi polpacci magri e smunti. E correva da un pezzo, senza voltarsi addietro, tra le file dei cosacchi e lontano, sul terreno sgombro, mentre Taras non pensava affatto a inseguirlo, avendo riflettuto che non è ragionevole far pagare al primo che capita la propria collera.

Adesso si ricordò che la notte avanti aveva veduto Andrea passare per il campo con una donna, e abbassò il suo capo canuto, e ancora non voleva credere che potesse avverarsi al mondo un’azione cosí infame, e che il suo figlio carnale avesse venduto la fede e l’anima sua.

Infine condusse il suo reggimento all’agguato, e con esso si nascose dietro il bosco, il solo che i Saporogini non avevano ancora incendiato. Intanto i cosacchi, e a piedi e a cavallo, per tre vie si diressero verso le tre porte. [p. 150 modifica]marciavano una dopo l’altra le kurjenje: Uman, Popovicev, Kanev, Steblikiv, Nesamajkov, Gurgusiv, Tytarev, Tymoscev. Mancava una sola: quella di Perejaslav. I cosacchi tiravano per essa forti boccate di fumo e col fumo sfogavano la loro pena. Chi si destò legato nelle mani dei nemici, chi non si destò affatto e dormendo passò nell’umida terra, e perfino l’atamano Chlib, senza calzoni e sopravveste, si ritrovò nel campo polacco.

Nelle città si sentirono i movimenti dei cosacchi. Tutti si sparsero sul terrapieno, e agli occhi dei cosacchi si presentò un quadro vivente: i paladini polacchi, uno piú bello dell’altro, erano sul bastione. Brillavano come il sole gli elmi di rame adorni di piume candide come cigni. Altri avevano berretti leggieri, rosei o turchini, con le creste piegate di traverso; caffettani con le maniche piegate indietro, ricamati in oro e guarniti semplicemente con cordoncini; altri avevano spade e archibugi con bordure preziose, pagate a caro prezzo da quei nobili signori... e c’erano in gran copia altri ornamenti d’ogni sorta. Avanti a tutti alteramente stava il colonnello di Buggiakov, col berretto rosso a fregi in oro. Era una figura pesante e massiccia: piú alto e piú grosso di tutti; e il largo mantello sontuoso riusciva appena a [p. 151 modifica]coprirlo. Da un altro lato, quasi alla porta laterale, stava un altro colonnello, un ometto tutto rinsecchito; ma due occhietti aguzzi guardavano con vivacità di sotto a quelle folte sopracciglia, ed egli si voltava rapidamente in tutti i sensi, additando con gesti impetuosi della sua scarna mano, distribuendo istruzioni; si capiva che, a dispetto del suo corpo meschino, egli conosceva molto bene la scienza della guerra. Poco lontano da lui era l’alfiere, lungo lungo, con folti baffi, e dal vermiglio acceso delle sue guance si vedeva che non aveva sofferto privazioni; il signore amava le bibite forti d’idromele e le buone cenette. Dietro a costoro si potevano vedere in gran numero i piú vari rappresentanti della nobiltà polacca, messi in armi, quali a proprie spese, quali dalla cassa del re, quali con danari presi in prestito dagli ebrei, dando in pegno tutto ciò che si trovava negli aviti castelli. Non pochi erano anche i vari commensali senatorii, persone che i senatori a titolo d’onore menavano con sé a pranzo e cena, persone che rubavano le coppe d’argento dalla mensa o dalla credenza, e che dopo l’onore di oggi, il giorno dopo si vedevano seduti in cassetta guidare i cavalli di un nobile qualsiasi. C’era ogni sorta di gente. Per un’altra occasione, fosse pure per fare baldoria, non c’erano i mezzi; [p. 152 modifica]ma per la guerra si erano tutti bene addobbati.

Le schiere dei cosacchi si stendevano tranquillamente avanti le mura. Nessuno aveva dell’oro addosso: soltanto qua e là si vedeva l’oro rifulgere in qualche elsa di spada o in qualche bordura di fucile. Non piaceva ai cosacchi abbigliarsi sontuosamente per le battaglie: indossavano una semplice maglia e il cappotto, e da lontano nereggiavano e rosseggiavano i loro neri berretti di montone coperti di rosso.

Due cosacchi si fecero avanti uscendo dalle file dei Saporogini: uno ancora molto giovine, l’altro piuttosto anziano; tutti e due mordaci nel parlare, ma anche capaci di menare le mani da buoni cosacchi: Ochrim Nasc e Mykyta Golokopytenko. Dietro ad essi uscí anche Demid Popovic, un cosacco robusto che già da gran tempo aveva vivacchiato alla Sjec, dopo essere stato sotto Adrianopoli e aver molto sofferto in vita sua: stavano per bruciarlo vivo, e riuscí a scappare alla Sjec col capo impiastrato di pece e affumicato, e coi baffi bruciati; ma Popovic risanò, rimise il ciuffo di capelli sull’orecchio e fece ricrescere i baffi, neri e folti come la pece. E Popovic era anche forte nell’usare le parole ingiuriose.

— Eh! quanti bei mantellini in tutto [p. 153 modifica]quell'esercito! ma vorrei sapere se ha una bella forza quell’esercito!

— Vi farò vedere io! gridò dall’alto il corpulento colonnello. — Vi legherò ben bene tutti quanti! Su, valletti, dateci i fucili e i cavalli. Avete visto come ho legato ben bene i vostri compagni? Portate fuori a costoro sul bastione i Saporogini!

E furono portati sul bastione i Saporogini prigionieri, strettamente legati con corde. Avanti a tutti era il capo-kurjenja Chlib, senza calzoni e senza sopravveste, cosí come era stato preso mentre era ubbriaco. Aveva gli occhi fissi a terra quel comandante, vergognandosi della sua nudità, dinnanzi agli stessi cosacchi, e d’essersi lasciato prendere come un cane durante il sonno. In una sola notte la sua fiera testa era incanutita.

— Non ti affliggere, Chlib! Noi ti riscatteremo! — gli gridarono di sotto i cosacchi.

— Non ti affliggere, camerata! — disse a gran voce il capo-kurjenja Borodatyj — tu non hai colpa se ti presero nudo: una disgrazia può capitare a ogni uomo: ma vergogna a quelli che ti hanno esposto per ludibrio, senza coprire decentemente la tua nudità!

— Voi altri, a quanto pare, formate un [p. 154 modifica]esercito valente sulla gente che dorme? — disse guardando sul bastione Golokopytenko.

— Aspettate un po’, e vedrete che vi raderemo i ciuffi! — gli risposero gridando dall’alto.

— Io vorrei stare a vedere come ci raderanno i ciuffi! — gridò Popovic voltandosi innanzi a loro sul suo cavallo, e poi, adocchiando i suoi compagni, disse: — Ma come sarà? Forse i Ljachi hanno ragione: se li conduce fuori quel panciuto, guardatelo lí! sarà lui un buon riparo per tutti quanti.

— Perché tu pensi che avranno in lui un buon riparo? — chiesero i cosacchi, avendo capito che Popovic sicuramente aveva già preparato qualche motteggio.

— Ma, per questo, che dietro a lui si nasconderà tutto l’esercito, e poi sfido io a raggiungere qualcuno con una picca attraverso quella pancia!

— Tutti i cosacchi diedero in una gran risata; e per un bel pezzo molti di essi ancora dondolavano il capo e dicevano: — To’, ecco Popovic! Ecco, se impegna con qualcuno la sua parola, basta, to’!...

Non dicevano però i cosacchi che significasse quel «to’!».

— Scostatevi, scostatevi al piú presto dalle mura! — comandò urlando il Koscevoj; perché [p. 155 modifica]i Ljachi, a quanto pareva, non sopportarono il motteggio, e il colonnello fece un cenno con la mano.

S’erano appena scostati i cosacchi, che dal bastione tuonarono le artiglierie. Si produsse gran movimento sul bastione, e si vide il canuto Vojevoda in persona apparire a cavallo. Le porte si aprirono e l’esercito uscí. In prima fila andavano in bell’ordine a cavallo gli usseri dalle vesti ricamate, dietro ad essi quelli coperti di maglie, poi i corazzati armati di lance, poi tutti quelli con gli elmi di rame, poi, separati dagli altri, i migliori dei nobili signori, ciascuno armato a modo suo. Non volevano quei nobili orgogliosi mescolarsi nelle file con gli altri, e chi non aveva un comando, procedeva solo coi suoi servi. Dopo, ancora altre file, e dietro ad esse uscí l’alfiere; dietro a lui, daccapo altre squadre, e uscí il grosso colonnello; e quando tutto l’esercito era uscito, venne fuori per ultimo il colonnello mingherlino.

— Non gli date tempo! non gli date tempo di fermarsi e di ordinare le schiere — gridò il Koscevoj. — Di colpo date loro addosso, tutte le kurjenje insieme! Abbandonate tutte le altre porte! Kurjenja di Tytarev, assalta di fianco! Kurjenja di Djadjkiv, assalta dall’altro lato! [p. 156 modifica]incalzate alle spalle, Kukubjenko e Polyvoda! Scompigliateli, scompigliateli e divideteli!

E i cosacchi attaccarono da tutti i lati, strinsero in mezzo i Ljachi, e li confusero, e si confusero essi stessi. Non diedero neppure il tempo di usare le armi da fuoco; si venne subito alle spade e alle lance. Tutti si strinsero in una sola massa, e ad ognuno si presentò l’occasione di mostrare la sua bravura.

Demid Popovic colpí tre soldati semplici e buttò giú da cavallo due dei piú insigni tra i nobili polacchi, dicendo:

— Ecco dei buoni cavalli! Era un pezzo che volevo procurarmi dei cavalli come questi!

E per un bel tratto inseguí nel campo aperto i cavalli, gridando ai cosacchi di fermarli. Poi di nuovo si cacciò nella mischia, si gettò daccapo sui nobili scavalcati; ne uccise uno, all’altro mise un laccio al collo, lo legò alla sella e se lo rotolò dietro per tutto il campo, dopo avergli staccato dalla cintola tutta la borsa piena di ducati.

Kobita, un bravo cosacco e giovine tuttora, venne alle prese anche lui con uno dei piú prodi dell’esercito polacco, e lottarono insieme a lungo. Si giunse a una lotta corpo a corpo. Ormai il cosacco aveva il sopravvento, e buttato giú l’avversario, lo ferí al petto con la punta di [p. 157 modifica]un pugnale turco; ma non guardò se stesso: in quell’istante una palla infocata gli fracassò una tempia. Lo atterrò uno dei piú notabili tra i magnati, un cavaliere dei piú belli, di antica famiglia principesca. Alto e slanciato come un pioppo, andava egli sul suo cavallo baio. E già aveva dato molte prove di audacia signorile ed eroica: con un fendente spaccò in due un cosacco e poi un altro; atterrò Fedor Korg, un valoroso cosacco; insieme col suo cavallo, sparò al cavallo e con la lancia di dietro al cavallo raggiunse il cosacco; a molti portò via la testa o il braccio, e abbatté il cosacco Kobita, cacciandogli una palla nella tempia.

— Ecco uno con cui vorrei provare le mie forze! — esclamò il capo-kurjenja di Nezamajkov, Kukubjenko. Allentate le redini al cavallo, volò diritto alle sue spalle, e mandò un urlo cosí forte che tutti i circostanti trasalirono per quell’urlo inumano. Il polacco voleva subito voltare il suo cavallo e affrontare l’assalitore, ma il cavallo non gli obbedí: spaventato da quel grido terribile; diede un salto di fianco, e con una palla di fucile Kukubjenko colpí il cavaliere. Gli penetrò nelle prime vertebre della spina dorsale la palla infocata, fra le scapole. Egli rotolò giú dal cavallo. Ma neppure allora il polacco si attese; anche allora egli si sforzò [p. 158 modifica]di tirare un colpo al nemico, ma gli venne meno il braccio, che ricadde giú insieme con la spada. E Kukubjenko, afferrato a due mani il suo pesante squadrone, glielo cacciò proprio in mezzo alle labbra impallidite. Lo squadrone cavò fuori due denti incisivi, tagliò in mezzo la lingua; ruppe la vertebra del collo e andò a conficcarsi lontano nel suolo. Cosí l’eroe fu sconfitto in eterno nell’umida terra. A guisa di una sorgente zampillò in alto, simile a un pioppo in riva a un fiume, il sangue rosso del nobile eroe, e tinse tutto in rosso il suo caffettano giallo ricamato in oro. Ma Kukubjenko già l’aveva lasciato, e si scagliava coi suoi compagni di Nesamajkov in mezzo a un’altra frotta.

— Ehi! ha trascurato di spogliarlo di un’armatura cosí preziosa! disse il capo-kurjenja di Uman, Borodatyj, staccandosi dai suoi verso il posto dove giaceva ucciso il nobile polacco. — Io ne ho uccisi di mia mano sette di questi nobili, ma un’armatura siffatta non la vidi addosso a nessuno. — E si lasciò sedurre dalla voglia del lucro, Borodatyj: si piegò per togliergli le armi preziose, gli cavò fuori il pugnale turco dall’impugnatura adorna di pietre preziose genuine, gli staccò dalla cintola la borsa piena di ducati, gli prese dal petto una tasca con pannilini fini, preziosi oggetti d’argento [p. 159 modifica]un ricciolo di fanciulla conservato gelosamente per ricordo. E non sentí Borodatyj che gli volava addosso di dietro l’alfiere dal naso rosso, già da lui una volta cacciato già di sella e regalato di un buon taglio alla faccia per ricordo. Si slanciò con tutta la forza del suo braccio e lo colpí con la spada sul collo chinato. Non andò bene al cosacco la sua avidità: balzò via la testa poderosa e cadde giú il corpo decapitato, annaffiando il suolo intorno intorno. Si sollevò nelle alte regioni dell’aria la fiera anima cosacca, accigliata e crucciata, e in pari tempo meravigliata di essere volata via cosí presto da un corpo cosî robusto. Non fece in tempo l’alfiere a ghermire per il ciuffo la testa dell’atamano per appenderla alla sua sella, e già era lì un feroce vendicatore.

Come uno sparviero ruotante nel cielo, dopo aver fatto molti giri con le ali possenti, s’arresta tutto teso in un punto, e di lí piomba come una freccia su una quaglia che stride nel mezzo della strada: cosí il figlio di Taras, Ostap, volò improvviso addosso all’alfiere, e di colpo gli gettò il laccio al collo. S’infiammò piú che mai il volto rosso dell’alfiere, quando gli si strinse alla gola il nodo spietato: egli riuscí a impugnare la pistola, ma la mano, contratta convulsamente, non poté dirigere il colpo, e la [p. 160 modifica]palla volò indarno nel campo. Ostap immediatamente dalla sella di lui staccò una corda di seta, che l’alfiere portava con sé per legare i prigionieri, e con quella sua stessa corda gli legò le mani e i piedi, poi fermò un capo della corda alla sua sella e se lo trascinò dietro per il campo, gridando forte a tutti i cosacchi della kurjenja di Uman, che venissero a rendere gli ultimi onori all’atamano.

Come udirono gli Umani che il loro capo-kurjenja Borodatyj non era piú tra i vivi, lasciarono il campo del combattimento e corsero a mettere in salvo il suo cadavere, e in quell’istante cominciarono a consultarsi chi scegliere al comando della kurjenja. Da ultimo dissero:

— To’! che perdere tempo a consultarsi? Non si può scegliere a capo uno meglio di Ostap, il figlio di Bul’ba: è il piú giovane tra noi tutti, è vero, ma ha tanto senno quanto un vecchio.

Ostap, cavatosi il berretto, ringraziò tutti i camerati cosacchi per l’onore fattogli, non istette a scusarsi né con l’età giovanile né con la poca maturità della sua mente, ben sapendo che era tempo di battersi e non era il momento di fare discorsi; ma senz’altro li guidò diritto contro uno stuolo di nemici, e diede subito a tutti loro la prova che non indarno l’avevano scelto [p. 161 modifica]per loro capo. Sentirono i Ljachi che la mischia oramai diveniva troppo accesa, indietreggiarono e attraversarono di corsa il campo per andare a raccogliersi in un altro punto di esso. E il colonnello bassetto fece un cenno con la mano a quattro centurie fresche, poste in disparte proprio accanto alle porte, e di lí partì tuonando una scarica d’artiglieria contro le masse dei cosacchi; ma quasi nessuno fu colpito; la scarica prese i bovi cosacchi, che volgevano alla battaglia uno sguardo feroce. Muggirono i bovi atterriti, si voltarono contro le schiere cosacche, fracassarono i carri, e calpestarono molta gente. Ma Taras frattanto, slanciandosi dall’agguato col suo reggimento, si diede ad intercettarli con grandi urli. Si voltò addietro tutta la mandra infuriata, e sí scaraventò spaventata dagli urli, contro i reggimenti polacchi, rovesciò la cavalleria, pestò e disperse tutti.

— Oh, grazie a voi, o bovi! — gridarono i Saporogini — avete fatto tutto il vostro dovere nella marcia, ma ora avete prestato anche un servigio di guerra!

E urtarono con nuove forze i nemici. Molti allora ne uccisero. Si segnalarono in quell’occasione parecchi: Metelizja, Scilo, i due Pisarenko, Vovtusjenko, e tanti e tanti altri. Si [p. 162 modifica]accorsero i Ljachi che la faccenda finiva male per loro, ripiegarono la bandiera e gridarono che si aprissero le porte della città. Si aprirono stridendo le porte rivestite di ferro e accolsero, affollati come pecore all’ovile, gli esausti e polverosi cavalieri. Molti dei Saporogini stettero per slanciarsi dietro di essi, ma Ostap trattenne i suoi Umani dicendo:

— Indietro, indietro, signori miei! scostatevi dalle mura! non conviene avvicinarsi ad esse.

E aveva ragione, perché dalle mura partí una scarica che buttò giú tutto quel che incontrò, e molti ne furono colpiti.

In quel mentre arrivò il Koscevoj, e fece un elogio a Ostap, dicendo:

— Ecco anche il nuovo atamano! ma conduce l’esercito come avrebbe fatto il vecchio.

Volse lo sguardo allora il vecchio Bul’ba per vedere chi fosse il nuovo atamano, e vide che innanzi a tutti gli Umani era a cavallo Ostap col berretto incalzato di traverso e il bastone del comando in mano.

— Vedi, eh! che uomo! — disse guardandolo, e il vecchio si rallegrò e prese a ringraziare tutti gli Umani per l’onore fatto a suo figlio.

I cosacchi si ritirarono di nuovo per recarsi agli attendamenti, ma sul terrapieno della città [p. 163 modifica]si mostrarono ancora una volta i Ljachi, coi mantelli ormai laceri. Su molti costosi caffettani si vedeva del sangue rappreso, e coperti di polvere i begli elmi di rame.

— Che? avete fasciato le ferite? — gridarono di sotto i Saporogini.

— Vi accomodo io! — gridò ugualmente dall’alto il colonnello corpulento, mostrando una corda; e tuttavia non cessavano di minacciare i polverosi ed estenuati cavalieri, e tutti sempre piú infocati, si attaccavano con parole ardite da ambe le parti.

Da ultimo si ritirarono tutti. Chi si sdraiò per riposarsi, sentendosi stanco dal combattere; chi spargeva di terra le sue ferite, e si faceva delle bende strappando fazzoletti e panni costosi tolti al nemico ucciso. Altri, però, che erano piú freschi e vivaci, cominciarono ad avere cura dei morti e render loro gli ultimi onori: con le spade, con le lance scavavano le fosse; nei berretti, nei grembi portavano via la terra; deponevano con tutti gli onori i corpi dei cosacchi e li cospargevano di terra fresca, affinché non riuscisse ai corvi e alle aquile rapaci di beccar loro gli occhi. Non cosí trattavano i corpi dei Ljachi: li legavano, come capitava, a decine, alle code di cavalli indomiti, li lanciavano a correre per tutto il campo, e poi a lungo [p. 164 modifica]li inseguivano frustandoli nei fianchi. Volavano i cavalli infuriati, pei solchi, pei rialzi, attraverso le buche e i ruscelli, e si fracassavano a terra i cadaveri dei Ljachi coperti di sangue e di polvere.

Poi sedettero in cerchio tutte le kurjenje per la cena, e a lungo si trattennero a narrare i fatti e le imprese toccate in sorte a ciascuno, per materia perenne di racconti destinati ai forestieri e ai posteri. Tardarono molto ad andare a dormire, ma piú di tutti tardò il vecchio Bul’ ba, sempre fisso in un pensiero: che mai volesse dire che Andrea non s’era visto in mezzo ai combattenti nemici. Giuda aveva avuto scrupolo di andare contro i suoi? o pure aveva mentito l’ebreo, ed egli era semplicemente stato fatto prigioniero? Ma subito si ricordò che il cuore di Andrea era troppo pieghevole alle parole delle donne, e sentí tutta la sua sventura, e fieramente nell’animo suo imprecò vendetta contro la polacca che gli aveva stregato il figlio. E sarebbe stato capace di attuare la sua imprecazione: non avrebbe guardato alla bellezza di lei; l’avrebbe tirata per la folta chioma lussureggiante; l’avrebbe trascinata dietro a sé per tutto il campo in mezzo a tutti i cosacchi. Si sarebbero infranti per terra, sanguinanti e coperti di polvere, il seno incantevole e le [p. 165 modifica]spalle pareggianti in candore le nevi ammassate che rivestono le cime degli alti monti. A pezzi egli avrebbe strappato quel corpo cosí splendido e bello. Ma Bul’ba non sapeva ciò che Dio prepara all’uomo per il domani, e cominciò a smarrirsi nel sonno, finché da ultimo si addormentò del tutto. I cosacchi, invece, continuarono ancora a discorrere tra loro, e per tutta la notte rimase accanto al fuoco, attentamente guardando da tutti i lati, senza mai chiudere occhio, la solerte sentinella.