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V VII
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VI


A
ndrea si muoveva a stento in quel buio e stretto corridoio sotterraneo, seguendo la tartara e tirandosi dietro i sacchi del pane.

— Presto si comincerà a vedere — disse la guida — ci accostiamo al posto in cui ho lasciato un lume.

E infatti, le tetre pareti del sotterraneo cominciarono a rischiararsi debolmente. Giunsero cosí ad una modesta piazzetta, in cui pareva che ci fosse una cappella; almeno, era attaccato alla parete un tavolino stretto in forma di mensa d’altare, e sopra di esso si poteva scorgere, quasi interamente cancellata, una sbiadita immagine cattolica della Madonna. Una piccola lampada d’argento sospesa innanzi ad essa la illuminava appena appena. La tartara si chinò e prese da terra il lume d’ottone che vi aveva lasciato, che sorgeva sopra un piede lungo e sottile, da cui pendevano sospesi a catenelle un paio di forbici, uno spillo per tirar su il [p. 115 modifica]lucignolo e uno spegnitoio. Tiratolo su, l’accese alla fiammella della lampada. La luce prese vigore, e i due, camminando insieme, ora erano illuminati da una fiamma viva, e ora venivano coperti da una tenebra nera come il carbone; avrebbero fatto venire in mente, a vederli, un quadro di Gherardo dalle Notti. Fresco, esuberante di salute e di gioventú, il volto bellissimo del cosacco presentava un forte contrasto col viso smunto e pallido della sua guida. Il passaggio si andava facendo un po’ piú largo, tanto che Andrea poté raddrizzarsi; e non senza curiosità andava guardando le pareti del sotterraneo, che gli ricordavano le catacombe di Kiev. Anche lí come nelle catacombe di Kiev, si vedevano degl’incavi nelle pareti, e qua e là delle tombe; in certi posti s’incontravano perfino nude ossa umane, ammollite dall’umidità e in procinto di ridursi in polvere. Si capiva che anche qui erano vissute persone di santa vita, e vi avevano allo stesso modo cercato un rifugio dalle tempeste, dai dolori e dalle seduzioni del mondo. L’umidità in certi punti era molto forte; talora sotto i loro piedi non c’era che acqua. Andrea fu costretto a fermarsi spesso per dar agio di riprendere fiato alla sua guida, la cui stanchezza si rinnovava continuamente. Un piccolo tozzo di pane che aveva inghiottito non [p. 116 modifica]serví ad altro che a darle un forte dolore allo stomaco, non piú assuefatto al cibo; e spesso ella rimaneva immobile nello stesso punto per alcuni minuti. Finalmente apparve innanzi a loro una porticina di ferro.

— Oh! per grazia di Dio, siamo arrivati — disse con voce fioca la tartara, e alzò un braccio per bussare, ma non ne ebbe la forza. Invece di lei Andrea diede un forte colpo alla porta; si produsse un rombo, il quale era segno che dietro la porta c’era un grande spazio vuoto. Quel rombo si mutò in un rumore diverso, avendo incontrato, a quanto pareva, delle alte vôlte. Dopo un paio di minuti si sentí uno strepito di chiavi e i passi di qualcuno che pareva venisse giú per una scala. Finalmente la porta si aprí, e si fece loro incontro un monaco sopra una scala stretta, avendo in mano le chiavi e un lume acceso. Andrea senza volere indietreggiò alla vista di un monaco cattolico. Questi religiosi solevano suscitare odio e disprezzo nei cosacchi, che li trattavano anche piú spietatamente di quello che trattavano gli Ebrei. Il monaco pure fece qualche passo indietro, vedendo un cosacco saporogino; ma bastò a rassicurarlo una parola detta a mezza voce dalla tartara. Il monaco fece lume ai nuovi arrivati, chiuse la porta dietro ad essi e li guidò su per la [p. 117 modifica]scaletta, finché si trovarono sotto le alte oscure vôlte della chiesa del convento. Dinnanzi ad uno degli altari, adorno di alti candelabri e candele accese, stava in ginocchio un sacerdote e pregava lentamente. Accanto a lui, ai due lati, erano, in ginocchio anch’essi, due giovani chierici in tunica violacea e camice di merletto bianco, reggendo in mano gl’incensieri. Il sacerdote pregava perché si compisse il miracolo: perché la città si salvasse, perché si fortificasse lo spirito abbattuto, perché si sopportasse con pazienza il dolore, perché fosse allontanato il tentatore, pronto a suggerire il malcontento, e le vili e pusillanimi querele sulle infelicità della terra. Alcune donne, simili a spettri, stavano in ginocchi appoggiando, e addirittura abbandonando, il capo sfinito sulla spalliera della sedia o dello scuro banco di legno che avevano davanti; alcuni uomini, addossati alle colonne e ai pilastri di sostegno delle navate laterali, erano anch’essi in aria triste in ginocchi. Una finestra con le vetrate dipinte, che era al disopra dell’altare, s’illuminò del roseo incarnato del mattino, e ne caddero sul pavimento cerchietti luminosi, azzurri, gialli e d’altri colori, che rischiararono d’un tratto l’oscurità della chiesa. Tutto l’altare col suo abside fondo apparve improvvisamente illuminato; il fumo dell’incenso [p. 118 modifica]si arrestava nell’aria in forma di nuvola accesa dall’arcobaleno. Andrea dal suo angolo oscuro guardava non senza stupore quel prodigio prodotto dalla luce. In quel momento il grandioso ruggito dell’organo riempí tutta la chiesa; si fece via via piú fitto, si accrebbe, esplose in gravi rombi di tuono, e poi, con improvviso mutamento, divenne musica celeste, levandosi in alto sotto le vôlte coi suoi toni sonori che sembravano voci delicate di vergini, e poi daccapo si trasformò in fitto ruggito e tuono, e si spense. Ma per un pezzo ancora, echi di tuono salivano vibrando sotto le vôlte, e Andrea, quasi a bocca aperta, ammirava quella musica grandiosa.

Intanto sentí che qualcuno lo tirava per il lembo del caffettano.

— È ora disse la tartara.

Traversarono la chiesa, senza che nessuno badasse a loro, e quindi uscirono in una piazza attigua. L’aurora già da un pezzo rosseggiava nel cielo; tutto annunziava il sorgere del sole. La piazza, di forma quadrata, era tutta vuota; nel mezzo rimanevano ancora dei piccoli banchi di legno a indicare che lí un tempo — magari fino a una settimana addietro — c’era un mercato di derrate alimentari. Le strade, che in quei tempi non si lastricavano, erano piene [p. 119 modifica]di mucchi di fango disseccato. La piazza era circondata da piccole casette a un piano, di pietra o di mattoni, sulle cui pareti erano visibili per tutta la loro altezza pali e colonne di legno incrociate obliquamente da traverse pure di legno, come costruivano in genere le popolazioni di quei tempi, e come si può vedere anche oggi in alcuni luoghi della Lituania e della Polonia. Tutte quelle case erano coperte da tetti smisuratamente alti con una grande quantità di abbaini e di ventilatori. In uno dei lati della piazza, quasi accanto alla chiesa, sorgeva piú in alto delle altre una costruzione del tutto diversa, forse il palazzo del Comune o la sede di qualche ufficio governativo. Era un edifizio a due piani, e su in alto vi era stato costruito un belvedere con doppia arcata, in cui si trovava una sentinella; una grande mostra di orologio era stata costruita sul tetto. La piazza pareva morta, ma Andrea sentí un flebile lamento. Girando lo sguardo, scorse sul lato opposto di essa un gruppo di due o tre persone giacenti per terra senza quasi piú alcun segno di vita. Egli guardava attentamente per poter distinguere se si trattasse di dormenti o di morti, e in quel momento inciampò in qualcosa che giaceva ai suoi piedi. Era il cadavere di una donna; a quanto pareva, di un’ebrea. Si capiva che [p. 120 modifica]doveva essere ancora giovine, sebbene fosse impossibile scorgerlo nei suoi lineamenti sfigurati e disfatti. Aveva in testa un fazzoletto di seta rosso, i cui angoli, cadenti a modo di infule sugli orecchi, erano ornati con una doppia fila di perle o finte perle; due o tre lunghi riccioli tutti arruffati uscivano di sotto ad essi e cadevano sul collo che mostrava i tendini irrigiditi. Accanto a lei giaceva un bambino convulsamente attaccato con una mano al petto di lei, e lo torceva con le dita, inconsapevolmente cattivo, non trovandovi una stilla di latte. Non piangeva ormai, non gridava, e solo dal suo ventre che lentamente si abbassava e si sollevava, era possibile pensare che non fosse ancora morto; o almeno che ancora non facesse altro che prepararsi ad esalare l’ultimo respiro. I due viandanti si rimisero in cammino, quando a un tratto furono fermati da un certo pazzo furioso, che vedendo Andrea col suo carico prezioso, gli si avventò addosso come una tigre e gli si avvinghiò gridando: «Pane!». Ma le sue forze non erano pari al suo furore; Andrea gli diede una spinta, ed egli rotolò a terra. Mosso a compassione, Andrea gli gettò un pane, sul quale il disgraziato si avventò come un cane rabbioso, lo addentò, lo morse da ogni parte, e all’istante, lí nella strada, fra orrende convulsioni [p. 121 modifica]spirò, per avere da molto tempo perduto l’assuefazione al cibo. Quasi ad ogni passo erano colpiti da spaventosi spettacoli di vittime della fame. Pareva che, non resistendo al loro martirio in casa, molti fuggissero appositamente sulla strada, come aspettando che per l’aria venisse mandato loro qualche ristoro. Sulla porta di una casa era una vecchia seduta, ma non era possibile dire se era addormentata o morta o semplicemente stordita; fatto è che ormai essa non udiva, non vedeva niente, e col capo ripiegato sul petto restava a sedere immobile sempre allo stesso posto. Dal tetto di un’altra casa era appiccato a una corda un corpo umano irrigidito e consunto: il pover’uomo non seppe resistere fino all’ultimo al supplizio della fame, e volle piuttosto con volontaria morte affrettare la propria fine.

Alla vista di tali impressionanti testimonianze della fame, Andrea non seppe tenersi dal domandare alla tartara:

— È possibile che non abbiano trovato proprio nulla per far sussistere la vita? Quando l’uomo si vede giunto a un limite estremo, allora, non c’è che fare, bisogna che si nutra anche con ciò che fino a quel momento gli facea schifo; può cibarsi anche di quegli animali che dalla legge gli sono vietati; qualunque cosa in [p. 122 modifica]quelle circostanze può divenire un nutrimento.

— Tutto è stato divorato — disse la tartara — ogni sorta di bestie, non un cavallo, non un cane, non un topo perfino, si trova piú in tutta la città. Da noi non furono mai portate provviste nella città: ogni cosa veniva giornalmente dalla campagna.

— Ma come, dunque, ridotti a fare una morte cosí atroce, voi pensate ancora a difendere la città?

— Sí, forse il Vojevoda sarebbe stato disposto alla resa, ma ieri mattina il colonnello che si trova in Budjak fece arrivare in città un falcone con un biglietto per raccomandare di non arrendersi: che egli verrà in aiuto col suo reggimento; si tratta solo di aspettare l’arrivo di un altro colonnello, per poter venire tutti e due insieme. E ora li attendiamo da un minuto all’altro... Ma eccoci arrivati a casa.

Andrea, già da lontano, aveva veduto quella casa, che non somigliava alle altre, e si capiva che doveva essere stata costruita da qualche architetto italiano. Era costruita con eleganti mattoni sottili e divisa in due piani. Le finestre del primo piano erano chiuse da un’incorniciatura di granito molto sporgente; il piano superiore consisteva tutto in piccoli archi formanti una galleria; tra gli archi si vedevano delle [p. 123 modifica]inferriate con armi gentilizie, e agli angoli della casa parimenti erano degli stemmi. Una larga scala esterna in mattoni dipinti giungeva fin sulla piazza. Ai piedi della scala, uno da ciascun lato, sedevano due soldati di guardia, che in modo pittoresco e simmetrico si appoggiavano con una mano all’alabarda piantata lí accanto, e con l’altra mano ciascuno sosteneva la sua testa reclinata; e in tal modo parevano piú simili a statue che ad esseri viventi. Non dormivano e non sonnecchiavano, ma si vedeva che erano insensibili a tutto; non badarono neppure a chi andava su per le scale. In cima alla scalinata trovarono un guerriero riccamente adornato e armato di tutto punto, che aveva in mano un libro di preghiere. Egli rivolse un momento su di loro i suoi occhi stanchi, ma come la tartara gli disse una sola parola, li calò di nuovo sulla pagina aperta del suo libro di preghiere. I due passarono nella prima sala, piuttosto larga, che serviva per ricevimento, o semplicemente da anticamera; era tutta piena di soldati seduti in varie posizioni lungo le pareti, e di servi, di scrivani, di coppieri e altre persone di corte, indispensabili ad indicare il grado di un magnate polacco, tanto come comandante militare quanto come proprietario di latifondi privati. Si sentiva un tanfo di candele smorzate, ma [p. 124 modifica]altre due erano ancora accese sopra due candelabri giganteschi, quasi ad altezza d’uomo, piantati nel mezzo della sala, sebbene già da un pezzo tra le inferriate della larga finestra occhieggiasse la luce del mattino. Andrea voleva senz’altro andare difilato verso una grande porta di quercia, adorna di uno stemma e di molti alti fregi intagliati; ma la tartara lo tirò per una manica e gl’indicò una porticina in una parete laterale. Per quella passarono in un corridoio e quindi in una camera che egli cominciò ad osservare attentamente. La luce, passando per una fessura delle imposte, toccava qua e là qualche oggetto: una tenda cremisi, una cornice dorata e una pittura su una parete. Qui la tartara avvertí Andrea di fermarsi, ed essa aprí la porta che dava in un’altra stanza, da cui guizzò una luce di lumi accesi. Egli udí un bisbiglio, e una voce soave, che lo fece sussultare da capo a piedi. Attraverso la porta socchiusa vide balenare rapidamente una magnifica figura di donna con una lunga chioma opulenta che ricadeva sopra un braccio levato in alto. La tartara tornò e gli disse di entrare. Egli non avrebbe saputo poi dire come entrò e come la porta si richiuse dietro a lui. Nella stanza erano due candele accese, e una lampada ardeva innanzi a un’immagine sacra, sotto la quale era [p. 125 modifica]posto un tavolino alto, all’usanza cattolica, con gradini da potervisi inginocchiare durante la preghiera. Ma non era questo che cercavano i suoi occhi. Si volse dall’altra parte, e vide una donna che sembrava gelata e impietrita nell’atto di un rapido movimento. Si sarebbe detto che tutta la persona si era mossa per gettarsi su di lui, e improvvisamente si era arrestata. Anche lui si fermò trasognato dinanzi a lei. Non era cosí che egli s’immaginava di vederla; quella non era lei, non era quella che egli conosceva prima. Non c’era in lei nulla di simile a quella, ma era ora due volte piú bella e piú meravigliosa di prima. Allora si scorgeva in lei qualcosa di non finito, di non perfetto; adesso era il capolavoro a cui l’artista ha dato l’ultimo tocco di pennello. Quella era una ragazza seducente e capricciosa; questa era una donna formosa, nel pieno sviluppo della sua bellezza. Una pienezza di sentimento si esprimeva nei suoi occhi levati in alto; non frammenti né indizi di sentimento, ma sentimento intero. Le lagrime non s’erano ancora asciugate su quegli occhi e li coprivano di un molle luccichío che passava l’anima. Il seno, il collo e le spalle erano contenuti in quelle linee incantevoli che caratterizzano una bellezza pienamente sviluppata, Le chiome che prima si espandevano in [p. 126 modifica]riccioli attorno al volto, ora si erano mutate in una folta opulenta treccia, di cui una parte era raccolta, e un’altra parte sciolta su tutto il lungo braccio e mandava sul petto certi capelli finissimi e lunghi, piegati in forma incantevole. Era manifesto che tutti i suoi lineamenti s’erano cambiati, dal primo all’ultimo. Invano egli si sforzava di ritrovarne almeno uno di quelli che solevano apparire nella sua memoria; nemmeno uno! Per grande che fosse il suo pallore, esso non offuscava la sua meravigliosa bellezza, anzi le dava per cosí dire un fascino travolgente, irresistibile. E Andrea sentí nell’anima sua un senso di timore e di adorazione, e rimaneva immobile dinanzi a lei. Essa, si vedeva bene, era a sua volta impressionata dall’aspetto del cosacco che le si presentava in tutta la bellezza e la forza della sua maschia giovinezza, e in quella stessa momentanea immobilità delle sue membra faceva intendere chiaramente tutta la sua agilità e libertà di movimento; il suo sguardo brillava di serena fermezza, in una curva ardita si piegava il sopracciglio vellutato, le guance accese s’illuminavano di tutta la luce di una casta fiamma, e i piccoli baffi rilucevano come seta.

— No, io non ho la forza per ringraziarti in qualche modo, magnanimo cavaliere — ella [p. 127 modifica]diceva, e intanto tremolava tutta, la nota argentina della sua voce. — Dio solo può ricompensarti; non io povera donna...

Abbassò gli occhi; a guisa di due bellissimi semicerchi di neve si distesero su di essi le palpebre orlate di ciglia lunghe come frecce; si chinò tutto il suo volto meraviglioso, e un tenue rossore si diffuse su di esso. A ciò neppure una parola seppe dire Andrea; egli avrebbe voluto esprimere tutto quello che aveva nell’anima, dirlo con tutto il calore con cui lo sentiva nell’anima, — e non poteva! Sentiva qualche cosa che gli sbarrava le labbra; mancava la voce alla parola; sentiva che non era da lui, educato in collegio e in una vita guerresca e nomade, il rispondere a un discorso siffatto, e s’indignava di essere nato cosacco.

Frattanto entrò nella stanza la tartara, che già s’era data premura di tagliare a fette il pane portato dal cavaliere, e portandolo in un piatto d’oro lo mise davanti alla sua padroncina. La bella la guardò, guardò il pane, e poi girò gli occhi verso Andrea — e quante cose erano in quegli occhi! Quello sguardo commosso, che la faceva apparire affranta e incapace di esprimere i sentimenti da cui era avvolta, penetrò nell’anima di Andrea meglio di qualsiasi discorso; parve che lo liberasse da ogni imbarazzo. I moti [p. 128 modifica]dell’anima e i sentimenti che fino allora una mano ignota avea trattenuti con un rigido freno, ora si sentirono liberati, padroni di sé, e già volevano effondersi in un torrente irresistibile di parole, quando la bella, volgendosi improvvisamente alla tartara, le domandò tutta inquieta:

— E la mamma? Hai portato il pane a lei?

— La mamma dorme.

— E al babbo?

— Gliel’ho portato; mi ha detto che verrà in persona a ringraziare il cavaliere.

Ella prese il pane e se lo recò alla bocca. Con una gioia inesprimibile Andrea stava a guardare come ella lo spezzava con le sue nitide dita e lo mangiava; e ad un tratto si ricordò di quell’ossesso per fame, che era spirato sotto i suoi occhi per avere inghiottito un tozzo di pane.

Si fece pallido, e, prendendola per un braccio, cominciò a gridare:

— Basta! Non mangiare piú! È tanto tempo che tu non mangi; ora il pane ti può avvelenare.

Ed ella subito abbassò il braccio, depose il pane nel piatto, e come un bambino obbediente guardava il giovine negli occhi. E magari potesse la parola di un uomo qualsiasi [p. 129 modifica]esprimere... ma né lo scalpello né il pennello, né la parola piú potente è in grado di esprimere ciò che qualche volta si vede negli occhi di una fanciulla, e tanto meno quel senso di commozione da cui è avvolto colui che mira cotali occhi di fanciulla.

— O mia sovrana! — esclamò Andrea, pieno di ogni esuberanza, di cuore e di spirito — Di che hai bisogno? Che vuoi? Non hai che a dirmelo. Assegnami il compito piú impossibile che mai sia al mondo, e io correrò ad eseguirlo. Dimmi di fare quello che supera le forze di ogni uomo, e io lo farò, io andrò incontro alla mia rovina. Perirò, sí, perirò! E perire per te, lo giuro per la Croce santa, è per me cosí dolce... Ma non sono capace di dire quanto! Ho tre fattorie; una metà delle mandre di mio padre è mia; tutta la dote che mia madre portò a mio padre, e anche tutto ciò che essa ha messo da patte all’insaputa di lui, tutto è mio. Non c’è nessuno adesso tra i nostri cosacchi che possieda armi cosí belle come le mie: per un’elsa delle mie spade mi danno la migliore mandra di cavalli e tremila pecore. A tutto questo io rinunzierò, l’abbandonerò, lo getterò via, lo brucerò, l’affonderò, basta che tu dica una parola sola, o basta che tu muova semplicemente il tuo fine nero sopracciglio! Ma so bene che [p. 130 modifica]probabilmente dico sciocchezze, ed è fuor di luogo e sconveniente tutto questo, e che non è da me, vissuto in collegio e a Saporog, il parlare cosí come di solito si parla dove sono i re, i principi e tutti i dignitari della nobiltà cavalleresca. Vedo che tu sei una creatura di Dio, diversa da tutti noi, e che sono a grande distanza da te tutte le altre dame e donzelle delle nobili famiglie. Noi non siamo adatti ad essere tuoi schiavi; soltanto gli angeli del cielo possono servirti.

Con crescente stupore, tutta concentrata nell’udito, senza perdere neppure una parola, la fanciulla ascoltava quel discorso sincero ed aperto, in cui, come in uno specchio si rifletteva una forza d’animo giovine e piena. E ogni semplice parola di quel discorso, pronunziata con una voce che si levava a volo dal fondo del cuore direttamente, era rivestita di forza. Sporgeva in avanti il suo bellissimo volto, ed ella aveva gettato addietro lontano i fastidiosi capelli, aveva dischiuso la bocca e contemplava a lungo con le labbra aperte. Poi voleva dire qualcosa e ad un tratto si arrestò, e ricordò che un destino diverso dal suo guidava quel giovine cavaliere, che il padre, il fratello e tutto il parentado erano dietro a lui come severi vendicatori, che tremendi erano i Saporogini [p. 131 modifica]assedianti la città, che ad una morte atroce era destinata lei stessa con tutta la città... e i suoi occhi a un tratto si empirono di lagrime. Ella prese in fretta un fazzoletto ricamato in seta e se lo gettò sul volto; in un minuto, esso fu tutto bagnato. Per un pezzo ella rimase a sedere tenendo riverso indietro il suo bellissimo volto, stringendo coi denti candidi come neve il suo labbro inferiore incantevole — come se avesse improvvisamente sentito il morso di un rettile velenoso e senza togliersi dal viso il fazzoletto, acciocché egli non vedesse la sua pena desolata.

— Dimmi una parola! — disse Andrea, e le prese la mano vellutata. Un fuoco fiammeggiante corse per le vene del giovine a quel contatto, ed egli strinse quella mano, che rimaneva insensibile nella sua.

Ma ella taceva e non si toglieva dal viso il fazzoletto e restava immobile.

— Perché sei cosí addolorata? Dimmelo, perché sei cosí addolorata?

Ella gettò via lontano da sé il fazzoletto, ravviò i lunghi capelli che le erano caduti sugli occhi dalla folta chioma, e si diffuse tutta in parole di lamento, pronunziandole con una voce quieta quieta, come quando il vento levatosi in una sera incantevole corre a un tratto in mezzo [p. 132 modifica]al fitto di un canneto cresciuto sopra uno specchio d’acqua: un fruscío, un bisbiglio, e risuonano a un tratto tenui e meste note, che con incompresa tristezza raccoglie il viandante, fermandosi nel suo cammino, non badando né al vespero che si estingue, né ai lieti canti della gente che riede fantasticando dal lavoro dei campi e dalla mietitura, né al lontano rullío di qualche carro diretto chi sa dove.

— Non merito forse pietà in eterno? Non è sciagurata la madre che mi mise al mondo? Non è amara la sorte che mi è toccata? Non sei tu il mio boia crudele, o mio feroce destino? Tutti tu portasti ai miei piedi: i migliori signori di tutta la nobiltà polacca, i piú ricchi possidenti, i conti e i baroni forestieri, e tutto quanto è il fiore della nostra cavalleria. A tutti fu permesso di amarmi, e ognuno di essi avrebbe stimato il mio amore una grande felicità. Bastava un cenno della mia mano, e il preferito tra essi, il piú bello, il piú brillante per l’aspetto e per i natali, sarebbe divenuto mio marito. E per nessuno di essi tu ammaliasti il mio cuore, o mio feroce destino; ma tu ammaliasti il mio cuore, passando sopra a tutti i migliori eroi dei nostri paesi, per uno straniero, per un nostro nemico. Perché mai Tu, Purissima Madre di Dio, per quali peccati, per quali gravi falli, [p. 133 modifica]cosí inesorabilmente e implacabilmente mi perseguiti? Nell’abbondanza e nella lussuosa sovrabbondanza di ogni cosa scorrevano i miei giorni; i piatti migliori e piú costosi e i dolci vini erano pronti alla mia mensa. E perché c’era tutto questo? a qual fine era tutto? Forse per farmi alla fine morire di una morte atroce, di cui non muore nel nostro regno l’ultimo mendicante? E non basta che sia stata condannata io a una sorte cosí orrenda; non basta che prima della mia fine dovessi vedere come stanno per morire fra tormenti insopportabili mio padre e mia madre, per salvare i quali ero pronta venti volte a dare la vita mia; era necessario che prima della mia fine mi capitasse di udire e vedere un linguaggio e un amore quale io non conobbi mai prima. Era necessario che egli con le sue parole lacerasse a brani il mio cuore, acciocché la mia sorte amara fosse ancora piú amara, acciocché io provassi anche maggiore pena per la mia giovine vita, acciocché anche piú orrenda mi apparisse la mia morte, acciocché anche piú, morendo, io dovessi imprecare a te, mio feroce destino, e a te (perdona il mio peccato!), santa Madre di Dio!

Quando ella si chetò, disperato era il sentimento che si rifletteva sul suo volto; ogni suo lineamento parlava di una tristezza che [p. 134 modifica]trafiggeva l’anima, e tutto in lei, dalla fronte mestamente chinata e dagli occhi abbassati fino alle lagrime gelate e disseccate sulle sue guance percorse da una fiamma lenta, tutto pareva fosse lí a dire: «Non c’è ombra di felicità in questa persona».

— Non s’è mai inteso al mondo, non è possibile, non deve essere disse Andrea — che la piú bella e la migliore delle donne debba sopportare una sorte cosí triste, mentre essa è stata creata perché dinnanzi a lei, come dinnanzi alle cose sante, dovesse chinarsi in adorazione tutto ciò che c’è di meglio al mondo. No, tu non morrai! Non tocca a te morire; giuro sulla mia nascita e su quanto ho di piú caro al mondo, che tu non morrai! Se proprio si dovesse giungere al punto che in nessun modo, né con la forza, né con le preghiere, né col valore, sarà possibile sfuggire alla sorte amara, allora morremo insieme, e morrò io prima di te, alle tue ginocchia adorate, e solo quando sarò morto, mi staccheranno da te.

— Non illudere, o cavaliere, te stesso e me — disse lei, scotendo lentamente la sua mirabile testa — io so, e per mio grande affanno so anche troppo bene, che tu non puoi amarmi; so quale è il tuo dovere e la tua legge: ti [p. 135 modifica]richiamano tuo padre, i tuoi camerati, la tua patria; e noi siamo nemici per te.

— E che importa a me il padre, i camerati, la patria? — disse Andrea, scuotendo con moto repentino la testa e drizzando tutta la persona come un pioppo piantato sull’acqua corrente. — Giacché siamo a questo, ebbene, cosí è: io non ho nessuno! Nessuno, nessuno! — ripeté con quella voce precisa e accompagnando le parole con quel preciso gesto della mano con cui il cosacco caparbio e indomito esprime la sua decisione a un’impresa inaudita e impossibile per un altro. — Chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data per patria? La patria è quello che l’anima nostra va cercando e che per lei è caro sopra ogni cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria! E la porterò questa patria nel mio cuore, la porterò finché durerà la mia vita. E voglio vedere: venga un cosacco qualsiasi a strapparla di qui! E tutto quel che ho, sono disposto a dare, a vendere, a perdere per questa patria!

Per un attimo ella rimase immobile come una bellissima statua, lo guardò negli occhi, e a un tratto cominciò a singhiozzare, e con quell’incantevole slancio femminile, di cui è capace soltanto la donna non calcolatrice e d’animo grande, creata per i moti piú belli del cuore, si [p. 136 modifica]abbandonò al collo di lui, stringendolo con le sue mirabili braccia candide come neve; e singhiozzava. Frattanto risonavano nella strada grida indistinte, accompagnate da suoni di tromba e di tamburo; ma egli non le udiva: egli sentiva soltanto come quelle labbra incantevoli lo scaldavano col profumato tepore del loro respiro, come le lagrime di lei gli scorrevano a rivi sulla faccia, e come i capelli odorosi, spiegandosi giú dal capo, avviluppavano tutto lui nella loro seta scura e lucente.

Intanto venne da loro correndo con un grido di gioia la tartara.

— Siamo salvi, siamo salvi! — gridava, tutta fuori di sé. — I nostri sono entrati nella città, hanno portato pane, miglio, farina e dei Saporogini prigionieri!

Ma nessuno dei due udiva quali «nostri» erano entrati in città, che cosa avevano portato con loro e quali Saporogini legati. Pieno di sentimenti non mai gustati sulla terra, Andrea baciava la bocca odorosa che gli s’era attaccata alla guancia, e non mancarono di rispondere le labbra odorose. Rispondevano allo stesso modo, e in quel bacio scambievole sentirono ciò che una volta sola nella vita è dato all’uomo di sentire.

E il cosacco perí! Fu perduto per tutta la [p. 137 modifica]cavalleria cosacca! Non sarà piú dato a lui di rivedere né Saporog, né le sue fattorie paterne, né la chiesa di Dio. E l’Ucraina pure non rivedrà il piú prode dei figli suoi che s’erano impegnati a difenderla. Strapperà il vecchio Taras una grigia ciocca di capelli dal suo ciuffo e maledirà il giorno e l’ora in cui procreò per obbrobrio un tal figlio.