Taras Bul'ba/VIII
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VIII
In simili casi i Saporogini solevano lanciarsi immediatamente a inseguire i predoni, cercando di raggiungerli nella loro marcia, perché altrimenti i prigionieri potevano trovarsi da un momento all’altro nei bazar dell’Asia Minore, o nell’isola di Candia, e Dio sa in quali luoghi non sarebbero state messe in mostra delle teste di cosacchi coi loro ciuffi. Ecco perché si adunavano i Saporogini. Tutti dal primo all’ultimo stavano col berretto in testa, perché non erano venuti per ricevere ufficialmente un ordine del capo, ma per consigliarsi come eguali tra loro. — Diano consiglio per prima i piú vecchi! — gridarono alcuni nella folla. — Dia consiglio il Koscevoj! — dissero altri.
E il Koscevoj si cavò il berretto, questa volta non da comandante, ma come un camerata, ringraziò dell’onore tutti i cosacchi e disse:
— Ci sono molti in mezzo a noi, non solo piú anziani di me, ma anche piú saggi nel consigliare; ma giacché avete fatto a me questo onore, ecco il mio consiglio: non perdere tempo, camerati, inseguire i Tartari. Giacché voi sapete che uomo è il Tartaro: non istarà col ricco bottino ad aspettare il nostro arrivo, ma in un attimo lo dissiperà in modo che non ne troverai neppure la traccia. Quindi il mio consiglio: andare! Qui, noi ci siamo già sbizzarriti. I Ljachi sanno quel che valgono i cosacchi; per la religione, per quanto era nelle nostre forze, ci siamo vendicati; bottino dalla città affamata non se ne caverà molto. Dunque il consiglio mio: andare!
— Andare! — fu il grido che risonò forte tra le kurjenje dei Saporogini. Ma a Taras Bul’ba non andavano a sangue tali parole, e piú che mai egli calò sugli occhi i corrugati suoi sopraccigli, non piú neri né ancora bianchi, ma simili a cespugli cresciuti sull’alto cocuzzolo di un monte, invasi nelle loro cime da un’ispida brina di tramontana.
— Non è giusto il tuo consiglio, Koscevoj! egli disse. — Tu non parli a modo. Tu hai dimenticato che qui rimangono prigionieri i nostri, catturati dai Ljachi? Tu vuoi evidentemente che noi non apprezziamo la prima legge sacrosanta della solidarietà? Dovremmo lasciare qui i nostri fratelli a questo fine, perché vengano scorticati vivi, o perché dopo avere squartato e fatto a pezzi ogni corpo di cosacco, quelle membra mutilate si portino in giro per le città e per i villaggi, come i nemici hanno già fatto coll’atamano e coi migliori eroi russi nell’Ucraina? Forse sono poche le offese che, anche senza di questo, hanno recate costoro alla nostra santa chiesa? Ma che gente siamo? Io lo domando a voi tutti. Che cosacco è colui che ha lasciato nella sventura il suo compagno, lo ha lasciato come un cane, a morire in terra straniera? Se oramai si è giunti a questo, che ognuno fa poca stima dell’onore cosacco, ed è disposto a lasciarsi sputare sui suoi baffi grigi e a lasciarsi offendere con parole oltraggiose, a me questo rimprovero non deve farlo nessuno. Resterò io solo!
Si scossero tutti i Saporogini presenti.
— Ma forse tu hai dimenticato, valoroso colonnello — disse allora il Koscevoj — che i Tartari pure hanno in mano loro altri nostri compagni, e che, se noi adesso non li salviamo, la loro vita è destinata a schiavitú perpetua presso i pagani, cosa peggiore di qualsiasi morte crudele? Hai dimenticato forse che quelli ora hanno tutti i nostri tesori guadagnati col sangue cristiano?
S’impensierirono i Saporogini, e non sapevano che dire. A nessuno di loro piaceva di guadagnarsi una fama ignominiosa. Allora venne fuori dinnanzi a loro il piú vecchio d’età in tutto l’esercito cosacco, Kasjan Bovdjug. Era un uomo a cui tutti i cosacchi rendevano onore; due volte già era stato eletto Koscevoj, e in guerra pure era stato un cosacco forte e prode, ma già da un pezzo era invecchiato e non prendeva piú parte ad alcuna spedizione; neanche gli piaceva di dare consigli a nessuno, ma il vecchio guerriero amava stare sdraiato su un fianco nei crocchi dei cosacchi e ascoltare i racconti di tutte le passate vicende e imprese cosacche. Non si mischiava mai in quei discorsi, ma sempre stava a sentire solamente, e ogni tanto con un dito scoteva la cenere dalla pipetta corta che non si toglieva mai di bocca, e poi rimaneva lungamente lí a sedere con gli occhi socchiusi, e i cosacchi non sapevano se dormisse o continuasse ad ascoltare. In tutte le spedizioni restava a casa, ma questa volta anche il vecchio s’era mosso. Fece il solito verso con la mano alla cosacca e disse:
— Ma non c’è gusto a non andare in nessun posto! Voglio andare anch’io; chi sa che in qualche cosa io non possa giovare agl’interessi dei cosacchi?
Tutti i cosacchi si chetarono in attesa, quando egli si fece avanti all’adunanza, giacché da molto tempo nessuno aveva udito da lui una parola. Ognuno desiderava sapere che cosa avrebbe detto Bovdjug.
— È venuto il turno anche per me di dire una parola, egregi signori — egli cominciò. — Ascoltate, ragazzi, un vecchio. Da savio ha parlato il Koscevoj; e come capo dell’esercito cosacco, tenuto a proteggerlo e ad accudire alle provviste dell’esercito, un discorso piú savio non poteva farlo. Ebbene, dunque? Sia questo il mio primo discorso! Ma ora state a sentire un mio secondo discorso. Ed ecco che cosa dice il mio secondo discorso. Una gran verità ha detto anche Taras, il colonnello (che Dio gli conceda lunga vita, e che di tali colonnelli ce ne sia sempre piú nell’Ucraina!). Primo dovere e primo onore del cosacco è di tener fede ai compagni d’arme. Da quando io sono al mondo, non ho mai inteso, egregi signori, che un cosacco abbandonò dove che fosse o tradí come che fosse un suo compagno. E questi e quegli altri sono nostri compagni: in minore o in maggiore numero, non fa differenza; tutti sono compagni, tutti ci sono cari. E cosí, ecco qual è il mio discorso: chi tiene piú ai compagni catturati dai Tartari, lasciamo che vada all’inseguimento dei Tartari, e chi ha piú a cuore i compagni presi dai Ljachi e non ha voglia di abbandonare una giusta impresa, lasciamo che resti qui. Il Koscevoj per dovere d’ufficio andrà con una metà dell’esercito a raggiungere i Tartari, e l’altra metà dovrà scegliersi un comandante luogotenente. Alla carica di luogotenente, se volete dar retta a una testa canuta, non c’è nessun altro piú adatto dell’unico Taras Bul’ ba. No, fra noi nessuno lo pareggia in valore.
Cosí disse Bovdjug e tacque; e si rallegrarono tutti i cosacchi di essere stati in tal modo illuminati dal vecchio. Tutti gettarono in alto i berretti e presero a gridare: — Grazie a te, babbo! Hai taciuto, hai taciuto, per tanto tempo hai taciuto, ma alla fine hai parlato. Non per niente dicesti quando ti apparecchiavi alla spedizione che saresti stato utile alla causa cosacca; e cosí è successo.
— Ebbene, siete d’accordo voi in questo? — domandò il Koscevoj.
— Tutti d’accordo! — gridarono i cosacchi.
— È dunque finita la discussione?
— Finita la discussione! — gridarono i cosacchi.
— Ascoltate ora l’ordine del comandante, figliuoli — disse il Koscevoj; si fece avanti e si mise in testa il berretto, ma i Saporogini, tutti quanti erano, si tolsero i berretti e stettero lí a capo scoperto e con gli occhi chinati a terra, come si faceva sempre tra i cosacchi quando il superiore si preparava a dire qualche cosa. — Adesso dividetevi, egregi signori! Chi desidera andare, passi al lato destro; chi rimane qui, passi a sinistra! Dove passa la maggioranza della kurjenja, lí vada anche il comandante; se passa la minoranza, questa si aggreghi ad altre kurjenje.
E tutti cominciarono a passare quali a destra, quali a sinistra. Dove passava la maggioranza di una kurjenja, lí passava l’atamano della kurjenja; dove passava una minoranza, essa si aggregava ad altre kurjenje, e ne venne fuori presso a poco un numero eguale da ciascuna parte. Vollero restare: quasi tutta la kurjenja di Nesamajkov, la maggioranza di quella di Popovic, tutta quella di Uman, tutta quella di Kanev, la maggioranza di quella di Streblikiv, la maggioranza di quella di Tymoscev. Tutte le altre si offrirono per andare all’inseguimento dei Tartari. Molti erano in ambedue le parti i forti e valorosi cosacchi. Tra quelli che scelsero di andare a inseguire i tartari era Cerevatyj, vecchio prode cosacco, Pokotypolje, Ljemisc, Prokopovic Koma; anche Demid Popovic andò là, perché era un cosacco di carattere molto intraprendente, e non poteva stare fermo a lungo in uno stesso posto: coi Ljachi aveva già fatto le sue prove; ora voleva provarsi un po’ coi tartari. Capi di kurjenje c’erano: Nostjugan, Pokrysc’ka, Nevylyckij, e ancora molti altri famosi e valenti cosacchi ebbero voglia di provare la spada e il braccio poderoso in qualche scaramuccia coi tartari. Non pochi erano anche i valenti e piú che valenti cosacchi tra quelli a cui piacque di rimanere: i capi-kurjenje Demitrovic, Kukubjenko, Vertychvist, Balaban, Ostap il figlio di Bul’ ba. E poi tanti altri rinomati e robusti cosacchi: Vovtusjenko, Cerevycenko, Stepan Guska, Mykola Gutyi, Ochrim Guska, Sadorog’ nij, Meteliza, Ivan Sakrutyguba, Mosij Scilo, Degtjay’enko, Sydorjenko, Pissarjenko, poi un secondo Pissarjenko, e poi ancora un Pissarjenko, e c’erano anche molti altri bravi cosacchi. Tutti erano andati attorno e avevano viaggiato lontano: avevano fatto spedizioni sulle spiagge dell’Anatolia, alle saline di Crimea e nelle steppe, per tutti i fiumi, grandi e piccoli affluenti del Dnjepr, in tutti gli approdi e nelle isole del Dnjepr; erano stati in territorio moldavo, valacco e turco; avevano percorso tutto il Mar Nero coi canotti cosacchi a due remi; avevano assalito in cinquanta canotti in fila i piú alti e ricchi navigli; avevano affondato non poche galere turche, e avevano in vita loro consumato un’infinità di polvere da sparo. Piú d’una volta s’erano preparate fasciature ai piedi strappando preziosi broccati e sciamiti; piú d’una volta avevano rimpinzato di zecchini d’oro sonanti le borse che portavano legate alla stringa dei calzoni. E quanta ricchezza aveva ciascun di loro consumata nel bere e nel darsi bel tempo (ricchezza che ad un altro uomo sarebbe bastata per tutta la vita), non si può calcolare. Tutto sperperavano alla cosacca, regalando a destra e a sinistra e noleggiando bande di musicisti per fare stare allegro ogni essere vivente in questo mondo. Anche adesso era difficile che a qualcuno di loro mancasse qualche tesoro sotterrato: coppe, ramaiuoli d’argento e braccialetti, sepolti sotto i canneti nelle isole del Dnjepr, perché non potesse trovarli il tartaro, qualora per una disgrazia gli venisse fatto di piombare all’improvviso sulla Sjec; ma sarebbe stato difficile per il tartaro trovare uno di quei tesori, perché lo stesso proprietario aveva già dimenticato in qual posto l’aveva sepolto. Cosí fatti erano i cosacchi che vollero rimanere e vendicare sui Ljachi i loro compagni fedeli e la religione di Cristo! Il vecchio cosacco Bovdjug volle rimanere anche lui, dicendo:
— Adesso io non ho un’età da poter correre dietro ai Tartari, ma qui c’è posto per addormentarsi in una bella morte da cosacco. Da gran tempo già io pregai il Signore che, se è giunto il momento di finire la vita, io la finisca in guerra per la causa santa e per la religione. E cosí è successo. Una fine piú gloriosa non può esserci in altro luogo per un vecchio cosacco.
Dopo che si furono divisi e disposti in due file ai due lati, ordinati per kurjenje, il Koscevoj avanzò in mezzo alle file e disse:
— Ebbene, egregi signori, siete contenti gli uni degli altri?
— Tutti contenti, babbo! — risposero i cosacchi.
— Ebbene, ora baciatevi e datevi un addio gli uni agli altri, perché Dio solo sa se ci sarà ancora concesso di rivederci nella vita. Obbedite al vostro comandante; ma fate da voi stessi ciò che da voi sapete: sapete da voi quello che comanda l’onore cosacco.
E tutti i cosacchi, quanti erano, si baciarono fra loro. Cominciarono per primi i comandanti e, tirando indietro con la mano i loro baffi grigi, si baciavano sulle gote e si prendevano per mano e si stringevano forte la mano. L’uno avrebbe chiesto volentieri all’altro: «Di’, egregio camerata: ci rivedremo o non ci rivedremo?». Ma non domandavano, tacevano... e rimanevano pensierosi tutti e due quei capi canuti. Quindi i cosacchi si salutarono dal primo all’ultimo, sapendo che avevano ancora molto lavoro da compiere gli uni e gli altri; però decisero di non separarsi subito, ma di aspettare l’oscurità della notte per non lasciare scorgere al nemico la riduzione delle forze dell’esercito cosacco. Quindi tornarono tutti alle kurjenie per cenare.
Dopo la cena, quelli a cui sarebbe toccato tra poco di mettersi in marcia, si misero a riposare e si addormentarono di un sonno profondo e lungo, come se sentissero che quello forse era l’ultimo sonno che veniva loro concesso di gustare in tale libertà. Dormirono fino al tramonto; ma come fu calato il sole e l’aria cominciò a imbrunire, si diedero a ungere le ruote dei carri; mettendosi in ordine di marcia, mandarono avanti i carriaggi, ed essi, salutatisi ancora una volta coi camerati agitando i berretti, si avviarono pian piano dietro ai carri; la cavalleria in buon ordine, senza gridare né fischiare ai cavalli, trottava leggiera dietro ai pedoni, e presto sparirono tutti nelle tenebre. Si udiva soltanto il sordo scalpitío dei cavalli e qualche stridere di ruota non ancora ben messa in carreggiata o non abbastanza unta, nell’oscurità della notte.
Per un bel pezzo ancora i compagni rimasti continuarono a far loro cenni di saluto agitando le braccia di lontano, quantunque non si vedesse oramai piú niente. Ma quando si mossero per tornare ai loro posti, quando alla chiara luce delle stelle videro che una metà delle teljeghe non c’era piú, e che molti e molti compagni mancavano, sentí ognuno una stretta al cuore, e tutti senza volere rimasero pensierosi, chinando a terra le loro teste di gente allegra. Taras vide come erano turbate le file cosacche, e come un senso di sgomento, non conveniente all’uomo prode, cominciava ad avvolgere le loro teste; ma taceva: voleva dare tempo al tempo, acciocché si assuefacessero anche alla tristezza prodotta in loro dalla partenza dei compagni. Ma frattanto, nella quiete, si preparava a ridestarli tutti in una volta e all’improvviso, mandando un grido di guerra alla cosacca, perché di nuovo e con piú forza di prima tornasse la baldanza a ciascuno nell’anima; cosa a cui si presta, unica al mondo, la natura slava, natura larga e possente al paragone delle altre come il mare al paragone di fiumi sottili: in tempo di burrasca si altera tutto in mezzo ad urli e fragori, contraendosi e sollevando ondate quali non possono sollevarsi dai deboli fiumi; ma nel sereno e senza vento, piú chiaro e lucente che tutti i fiumi esso spiega a guisa di specchio abbagliante la superficie delle sue acque, perenne letizia degli occhi.
E Taras diede ordine ai suoi servi di scaricare uno dei grandi carri, che giaceva in un campo appartato. Esso era il piú grande e forte di tutti nei carriaggi dei cosacchi; con doppio grosso cerchione erano rafforzate le sue ruote massicce; esso era pieno stipato, coperto di grosse pelli di bovi, e legato strettamente con corde incatramate. Nel carro non c’erano che damigiane e barilotti pieni di vecchio vino generoso, che per molti anni era rimasto nelle cantine di Taras. Egli lo aveva preso con sé come provvista per qualche solenne occasione, acciocché, se fosse capitato un grande momento e fosse imminente per tutti un’impresa degna di essere tramandata ai posteri, allora ad ogni cosacco, dal primo all’ultimo, fosse dato di bere un vino prelibato, acciocché nel grande momento un grande sentimento dominasse in ogni uomo. Udito l’ordine del colonnello, i servi si precipitarono sul carro, con le scuri ruppero le funi robuste, tolsero le grosse pelli di bue e le coperte e scaricarono giú dal carro le damigiane e i barilotti.
— Via, portate qui tutti — disse Bul’ ba — tutti quanti siete, portate ognuno quello che ha: o un secchietto o una tinozza di quelle in cui si fa bere il cavallo, o una manopola, o un cappello, e magari, chi non ha altro, si faccia avanti con le mani a giumelle.
E i cosacchi tutti quanti erano, portarono chi un secchiello, chi una tinozza di quelle con cui dava a bere al cavallo, chi una manopola, chi un cappello, e qualcuno si fece avanti con le giumelle. A tutti mescevano dalle damigiane e dai barilotti i servi di Taras, passando tra le file. Ma Taras ordinò di non bere finché egli non avesse dato il segnale, acciocché potessero bere tutti in una volta. Si capí ch’egli voleva dire qualche cosa. Ben sapeva Taras che, per quanto sia forte per sé il vino vecchio generoso e per quanto esso sia adatto a rinvigorire l’animo dell’uomo, pure se ad esso si unisce anche una nobile parola, allora la forza, sia del vino, sia dell’animo, si raddoppia.
— Io vi offro da bere, egregi signori! — cominciò a dire Bul’ba — non per ricambio dell’onore che mi avete fatto nominandomi vostro atamano, per quanto quest’onore sia grande, e neppure per il fatto che ci siamo licenziati dai nostri compagni: no, in un altro momento si conviene questo e altro; ma non è tale il momento che abbiamo dinnanzi a noi. Noi abbiamo dinnanzi un’impresa di grande sudore, di grande eroismo cosacco! Ebbene beviamo, o compagni, beviamo in una volta, prima di tutto per la santa fede ortodossa; che venga finalmente un tempo in cui essa si spanda per tutto il mondo e dappertutto sia una sola santa religione e tutti gli increduli, quanti sono, tutti si facciano cristiani! Poi ancora tutti insieme in una volta beviamo anche per la Sjec, acciocché a lungo, a lungo essa rimanga per la rovina di tutti gli infedeli e acciocché ogni anno escano da lei giovani uno migliore dell’altro, uno piú bello dell’altro. E poi ancora beviamo insieme alla nostra propria gloria, acciocché abbiano a dire i nipoti e i figli dei nipoti, che ci furono una volta uomini cosiffatti da non far torto alla solidarietà fra compagni e da non tradire i loro fratelli. Dunque, per la fede, egregi signori, per la fede!
— Per la fede! — risposero urlando quelli che si trovavano nelle file piú vicine. — Per la fede! ripeterono i piú lontani; e tutti quanti erano, vecchi e giovani, bevvero per la fede.
— Per la Sjec! — disse Taras e levò alta sul capo la sua mano.
— Per la Sjec — risonò immediatamente nelle prime file. — Per la Sjec! dissero piano i vecchi facendo tremare i loro baffi grigi e vibrando come piccoli falchi che scuotano le ali, ripeterono i giovani: — Per la Sjec! — E in lontananza risonò per la campagna il grido con cui i cosacchi ricordavano la loro Sjec.
— Ora, l’ultimo sorso, signori, per la gloria e per tutti i cristiani che vivono al mondo!
E tutti i cosacchi fino all’ultimo bevvero per la gloria e per tutti i cristiani che vivono al mondo. E ancora a lungo si ripeté tra le file per tutte le kurjenje il grido: — Per tutti i cristiani che vivono al mondo!
Già erano tutti vuoti i recipienti, ma tuttavia i cosacchi erano lí con le braccia tese; e quantunque avessero lo sguardo lieto e gli occhi illuminati dal vino, pure tutti erano fortemente preoccupati. Non al guadagno essi pensavano ora e al bottino di guerra; non a chi sarebbe toccata la sorte di portar via un gruzzolo di ducati, o un’arma di gran prezzo o dei caffettani ricamati o dei cavalli circassi; ma essi erano impensieriti come aquile posate sulle cime di un monte roccioso, di un monte alto tagliato a picco, da cui si scorge lontano la distesa infinita del mare seminato di galere, navi e barche di ogni genere, che sembrano tanti piccoli uccelli, e chiuso ai lati da lidi sottili appena visibili con i loro porti che sembrano zanzare, con le città costiere e i boschi che ondeggiano come erba minuta di prato. Come aquile essi fissavano intorno a sé coi loro occhi tutto il campo e il loro destino che si perdeva nell’oscurità lontana. Sarà, sarà tutto quel campo con le sue piagge e le sue vie, coperto dalle loro bianche ossa sporgenti dal suolo, dopo essersi largamente lavato col loro sangue cosacco e cosparso di carri frantumati, di mozze sciabole e lance; saranno sbalzate di qua e di là le loro teste chiomate coi ciuffi ritorti indietro e coagulati nel sangue e coi baffi giú pendenti; voleranno allora le aquile a colpire e beccare i loro occhi cosacchi. Ma un gran bene era in quel giaciglio di morte cosí largamente e liberamente sparpagliato! Non andrà perduta neppur una delle magnanime gesta e non cadrà, come cade il granello di polvere dalla canna del fucile, la gloria cosacca. Ci sarà, ci sarà un bandurista dalla barba canuta scendente sul petto, e forse ancor pieno di matura virilità, ma vecchio per le bianche chiome e fresco nell’animo, e dirà egli sul conto loro la sua parola solida e possente. E andrà, levandosi a volo, per tutta la terra la lor fama, e quanta gente verrà dopo al mondo, tutta parlerà di loro; perché lontano si spinge la voce possente del cantore, simile al bronzo squillante di una campana, in cui l’artefice infuse gran copia d’argento puro, perché lontano, per città e campagne, su palazzi e villaggi si spandesse il dolce suono invitante gli uomini, tutti del pari, alla santa preghiera.